L’importanza (e la fatica) di dare regole e porre limiti

Spesso le famiglie che incontro nel corso del mio lavoro come coordinatrice ed educatrice di un nido di infanzia raccontano che desiderano che il loro bambino o la loro bambina frequenti il nido perché possa “apprendere le regole”.

Nell’immaginario comune, quindi, il nido è un luogo in cui, tra le altre cose si apprendono le regole. Questo merita di fermarci a fare un ragionamento. Se davvero è così, che ne è della famiglia? Forse la famiglia è il luogo esclusivo degli affetti e l’istituzione (il nido e poi la scuola) è il luogo delle regole? Se condividiamo questo pensiero, allora riteniamo che i bambini siano costretti a transitare in luoghi che hanno valori diversi, senza continuità gli uni con gli altri, senza che gli adulti che li circondano condividano idee e intenzioni. Io, però, credo che famiglie, educatori ed insegnanti debbano trovare unità di intenti, benché con stili diversi, indirizzando i bambini al valore del limite, e quindi della regola, come valore fondamentale per la crescita, perché possano avere sicurezza, autonomia ed indipendenza ed orientarsi nella vita.

Sto parlando di poche regole. Regole certe, chiare, adeguate all’età, motivate. E, soprattutto, fatte rispettare senza infinite negoziazioni.

Non è facile educare alla regola. Questo è il motivo per cui spesso le famiglie chiedono aiuto a noi educatori o, addirittura, delegano questo aspetto…un poco scomodo…dell’educazione. Talvolta gli adulti credono che i bambini piccoli non abbiano le competenze per comprendere ed affrontare le regole e che, quindi, sia prematuro porle. O, addirittura, sbagliato. In realtà l’educazione non è tanto un problema di tempi, quanto piuttosto di esempi: non c’è un “momento giusto” in cui i bambini sono pronti per apprendere le regole, perché queste non sono frutto di un apprendimento disciplinare ma si interiorizzano con lentezza, nel corso di tutta la vita. Si apprendono fin da piccolissimi quando, per esempio, si aspetta, con grande fatica e frustrazione, il turno per mangiare e si comprende (emotivamente e cognitivamente) la regola dell’attesa.

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Incontri tra generazioni: il nido e il centro diurno per anziani

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Lo scorso anno educativo (2017-18) abbiamo messo a punto un progetto che ha coinvolto i bambini del nido e gli anziani di un centro diurno del territorio, una proposta nata all’interno delle progettazioni di percorsi intergenerazionali che si rifanno agli aspetti più pregnanti della psicologia del ciclo di vita. Una delle proposte più emozionanti che mi sia trovata a vivere nella mia carriera di educatrice e pedagogista.

L’idea di partenza di questo progetto è che gli anziani e i bambini stanno bene insieme e possono essere una ricchezza gli uni per gli altri. E’ molto importante che gli anziani siano messi nelle condizioni di conciliare l’identità passata con quella presente attraverso il recupero di un senso di continuità con il tempo trascorso e con l’insegnamento e il ricordo da lasciare alle generazioni future e il contatto con i bambini può far “rivivere” e restituire una dimensione progettuale sul domani che renda protagonisti della propria vita.

Allo stesso tempo, per i bambini è fondamentale creare un legame con il passato, conoscere quello che viene prima del qui ed ora e indagare le proprie origini e provenienze. Il tempo trascorso con gli anziani diventa, quindi, un’occasione per sperimentare forme di socialità diversa, di sentirsi parte di una comunità che non è fatta solo di bambini ma anche di persone molto diverse, ma con ritmi e tempi di vita simili.

La gestione del tempo quotidiano nelle nostre città non facilita gli scambi tra generazioni. Si ha la tendenza a pensare i diversi momenti della giornata come spazi e tempi monogenerazionali; i bambini stanno con i bambini, gli anziani con gli anziani. Lo scambio e l’incontro fra età diverse diventa pertanto raro e gli ambienti di vita e quelli educativi perdono la loro dimensione di comunità, di inclusione delle differenze anche anagrafiche, di appartenenza a un contesto vitale ampio.

442a1303-5cbf-4fb0-bbc5-032c3d56db0cE’ nata quindi la proposta di articolare un progetto che vede coinvolte due realtà diverse del territorio del Comune in cui lavoro: l’Asilo Nido  e la Residenza per Anziani. Due realtà che sono vicine nello spazio e perché entrambe hanno come fine la dimensione della cura. Una proposta concreta per il recupero e il consolidamento delle relazioni e della solidità intergenerazionale, che ha creato reali e concrete occasioni di scambio e condivisione tra bambini e anziani , superando gli elementi di separazione e di allontanamento.

Il giorno in cui il progetto, dopo tutto il lavoro di progettazione, pianificazione e organizzazione, è partito ho pensato a quanto fossi fortunata nel fare l’educatrice…Ero colma di felicità e non vedevo l’ora di vivere l’incontro tra i bambini e gli anziani. Ed ero curiosa di vedere come le parole scritte nel progetto si  potessero trasformare in comportamenti, voci, incontri concreti.

Quando, insieme ai bambini, siamo giunti alla residenza per anziani, eravamo tutti emozionati…i bambini erano un po’ sorpresi…i nonni sorridevano…hanno iniziato a studiarsi reciprocamente, tanto diversi eppure tanto simili.  Come programmato, nel corso del primo incontro, abbiamo letto un albo illustrato che al nido amiamo molto, “Un Gioco” di Tullet. I bambini conoscevano nel dettaglio la trama e hanno partecipato con il consueto entusiasmo alla narrazione, intervenendo, anticipando le risposte, ascoltando rapiti.I nonni si sono sforzati al massimo di essere espressivi e di partecipare con i bambini alla lettura. E ci sono riusciti benissimo.

Il lavoro pedagogico si costruisce attraverso la ricerca dei significati e l’ascolto delle emozioni presenti nelle diverse esperienze educative…pertanto, alla fine della lettura, abbiamo chiesto se qualcuno avesse voglia di  raccontare una storia… Si è alzata Vittoria, la bambina più taciturna e introversa del nido…Voleva raccontare lei una storia…E poi si è alzato Sebastiano, uno degli ospiti della residenza, e ha chiesto anche lui di raccontare…Ci ha mostrato una vecchia foto, di quando abitava a Siracusa…ci sono il principe Carlo e Lady Diana in viaggio di nozze…e lui…di spalle…Ci ha emozionate questo intervento…narrar-si aiuta a restituire al proprio essere dignità e senso, in una società del qui e ora che troppo spesso dimentica gli anziani.

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Dopo tre visite in RSA, abbiamo ospitato al nido alcuni dei “nonni” ospiti del centro diurno…Abbiamo dedicato tempo e cura al preparare la visita…ed è stato ancora più  emozionante di come ce l’aspettassimo!
Il contatto con gli anziani ha portato i bambini a ritmi più lenti, rendendoli più tranquilli e portandoli a concentrarsi di più…A loro volta gli anziani nel rapporto con i bambini sembravano tornati, sia pur per brevi momenti, giovani adulti responsabili…sono riaffiorate tracce di esperienze lontane, intime, vissute come genitori; in un momento della vita nel quale tutto sembra “restringersi”, la sfera emotiva dei “nonni”, sia pur per poco, si è allargata ancora grazie all’incontro con questi “nuovi nipotini”…È stata un’emozione pazzesca…Per tutti..

Ora mi propongo di far rivivere questo progetto, facendo incontrare nuovamente anziani e bambini e preparando delle interviste da somministrare agli ospiti della RSA incentrate sulle tematiche di cui ho parlato poco fa…le emozioni che riaffiorano negli incontri, le tracce delle antiche esperienze che sono tornate alla luce…E poi c’è un progetto ancora più grande, per cui, però, ci vorrebbe un finanziatore: costruire un nido all’interno di una residenza per gli anziani…Chissà…forse tra voi che leggete c’è qualcuno che potrebbe fare in modo che questo sogno diventi realtà…

Qualche riflessione sul pianto dei bambini

Cosa accade quando, di fronte a voi, un bambino scoppia in un pianto disperato? Cosa sentite dentro? Molti di voi, probabilmente, risponderanno che, se un bambino piange, la prima cosa che fanno è trovare il modo di calmarlo. Cercano di fare in modo che smetta di piangere. E cosa rispondono le educatrici e gli educatori che si prendono cura dei bambini molto piccoli? Probabilmente lo stesso. Aggiungono, forse, che cercherebbero di capire per quale motivo il bambino sta piangendo e, di conseguenza, proverebbero a soddisfare il suo bisogno.

Qualche mese fa ho avuto la fortuna di partecipare a un training formativo molto utile, condotto da due splendide persone e grandi professioniste, Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che hanno ideato il Metodo “in Relazione”, in cui si pongono al centro le emozioni e l’emotività di chi si occupa di educazione.
Nel corso della formazione, ad un certo momento, si sono fatte delle riflessioni sul pianto.
Che cos’è il pianto? E’ la prima modalità espressiva del neonato e l’unica modalità che ha di esprimere prima i bisogni e poi i desideri. Ed è la modalità che l’uomo utilizza, anche a linguaggio verbale ben acquisito, per esprimere emozioni non facilmente traducibili in parole.
Durante il pianto, la secrezione delle ghiandole lacrimali aumenta; queste, in condizione di quiete, producono una piccola quantità di liquido per mantenere idratata la cornea ed allontanare i corpi estranei, quando, però, la lacrimazione diventa abbondante e si piange, l’occhio si arrossa e le palpebre si gonfiano, come se il “lavaggio” fosse andato oltre le intenzioni.
Dal punto di vista fisiologico il pianto rappresenta uno stato di eccitazione seguito da un rilassamento. Tutti abbiamo provato la sensazione di profonda calma e tranquillità che invade il nostro corpo dopo aver pianto con intensità: il motivo di questo risiede nel fatto che il nostro organismo attraverso il pianto libera ossitocina, che agisce come un anestetico naturale. Quando si piange per dare sfogo a un’emozione si eliminano, inoltre, quelle sostanze tossiche in eccesso che il corpo produce in condizioni di stress.

Se è così…allora…perché affannarsi perché un bambino smetta di piangere?
Quando piange, infatti, un bambino, proprio come un adulto, libera la tensione che ha accumulato e può superare sensazioni di spavento, fatica, frustrazione. Scrive Aletha Solter in un meraviglioso libro che ho conosciuto grazie e Chiara ed Ornella, Lacrime e capricci. Cosa fare quando i bambini piangono., che è importante dare ascolto ai bambini che piangono. E’ importante accogliere il pianto. Il bambino che piange, quindi, non va ignorato, né distratto, né punito. Va accolto.

E’ tutt’altro che semplice mettersi in ascolto del pianto di un bambino, perché questo, spesso, suscita nell’adulto ansia, frustrazione, senso di colpa, che fanno sì che si chieda al bambino (a volte anche con insistenza) di smettere di piangere. Quando sentiamo un bambino piangere si crea in noi uno stress che è difficile placare o tenere sotto controllo e questo ci porta a pensare che se smetterà starà meglio. Ma, in realtà, saremo noi adulti a stare meglio se il bambino smetterà di piangere perché finiremo di essere sottoposti a tanto stress. E lui? Come si sentirà se non avrà potuto dare sfogo a tutte le tensioni che stava cercando di liberare? Siamo certi che si sentirà meglio?

Il chiedere a un bambino di smettere di piangere è anche un fatto di cultura. Nella nostra cultura occidentale il pianto è considerato sconveniente, a tutte le età, nonostante sia uno straordinario meccanismo di liberazione dalle tensioni e dallo stress e un modo non mediato e ragionato di essere in contatto con se stessi e con le proprie emozioni.
Non è sempre stato così e non è così ovunque.
Nella Grecia Antica, ad esempio, i grandi eroi omerici dell’Iliade e dell’Odissea non si vergognavano di piangere. Erano la viltà in guerra, il mancato rispetto dei patti, la violazione dei codici d’onore eroici o l’assenza di amor patrio che ne potevano macchiare la reputazione, non certo un pianto (di rabbia, commozione, disperazione…) che appariva invece come una spontanea manifestazione di vitalismo. Le lacrime, infatti, erano sentite dalla sensibilità dell’epoca eroica come un liquido vitale, al pari del sangue: un antidoto all’inerzia e all’aridità della morte.
Ci sono poi molte culture in cui il pianto ha un valore sociale. Ne sono una testimonianza tutti quei popoli di discendenza greca dove, per esempio, il valore di piangere per un defunto è tale da diventare, in certi casi, più importante del rito funerario stesso. In questa circostanza un coro di donne viene retribuito dalla famiglia del defunto per piangerlo e ricordarne la figura attraverso “frasi fatte”. Più grande è il coro delle piangenti, maggiore è l’importanza del trapassato.

I bambini nascono piangendo ma disimparano a piangere molto presto, a causa dei condizionamenti e dei meccanismi di controllo che i genitori (ma anche certi educatori, ahimè) mettono in atto per distrarli dal piangere.
Sostenere il pianto disperato e la rabbia di un bambino è una delle cose più difficili che mi sia mai capitata di fare, ma è di ascolto sincero e consapevole che i bambini hanno bisogno; distoglierli dal piangere o dall’arrabbiarsi sarebbe far loro una grande ingiustizia. E si contribuirebbe, in loro, alla creazione di un falso Sè.
Quando sono al nido e uno dei bambini che è con me piange, adesso, grazie alle riflessioni fatte dopo l’incontro con Chiara e Ornella, non cerco più di interrompere questo pianto, anche se per me questo è ancora molto faticoso e mi richiede tanta concentrazione. Cerco di mettermi in ascolto ed accolgo il pianto. Questo non vuol dire che “lascio piangere” il bambino, perché ciò significherebbe, da parte mia, assumere un atteggiamento passivo che il bambino percepirebbe e che sarebbe tutt’altro che di giovamento.
Attraverso il contatto fisico, l’abbraccio, le parole di conforto cerco di fare in modo che comprenda che io sono lì con lui e lo sto guardando senza giudicarlo; se ha bisogno di piangere, di liberare la sua ansia, le sue incertezze, è giusto che lo faccia ed è giusto incoraggiarlo in questo agito. In questo modo si sente compreso ed accettato e procede sereno nella crescita. Il pianto continuamente represso per un bisogno dell’adulto, invece, a lungo andare rende il bambino nervoso, incapace di concentrarsi, può causare dei malesseri. I bambini, a forza di piangere e non venire ascoltati, ad un certo punto smettono perchè si rassegnano al non ricevere riposte. Se, invece, rispondiamo al pianto con l’accoglienza di questo, il bambino avrà la conferma che il suo pianto, così come il sorriso, i suoi gesti, le sue espressioni, ha una qualche utilità, stabilisce un dialogo, lo pone nel ruolo di protagonista, gli dà fiducia in sé stesso e negli altri perché i suoi sforzi di comunicare non sono vani.

Se siete con un bambino che piange, fate uno sforzo e ditegli: “Piangi pure, caro, se vuoi farlo”…Questo potrà inizialmente spiazzarlo ma poi sarà per lui di grande conforto perché sentirà che state accogliendo un suo bisogno e lo accettate in modo autentico e incondizionato.

(Questo articolo è stato scritto dopo che ho partecipato al training inRelazione, condotto da Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che ringrazio e a cui sono debitrice di preziosi insegnamenti, e in seguito alla lettura del loro libro “inRelazione. Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola”)

 

Le ombre della maternità

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Qualche giorno fa mi sono imbattuta, nella Rete, in un articolo che, davvero, mi ha fatto perdere la pazienza…Era un articolo sulla maternità, forse voleva essere ironico, ma a me ha solo fatto voglia di gettare a terra il portatile su cui lo stavo leggendo. Terminava così…Capirete…che è vero che le mamme hanno i superpoteri. In primis quello di trovare sempre nuove inaspettate risorse.

Ho ripensato a quando sono diventata madre per la prima volta. A quando le giornate con mia figlia non passavano mai. Alla solitudine. Ai pianti. Alle passeggiate sotto la pioggia che facevo pur di uscire un po’ di casa. Ai silenzi che erano interrotti solo dalle urla e dal pianto. Al bisogno di leggerezza. Alla voglia di essere donna.
Altro che risorse sempre nuove e inaspettate!

A tante maternità segue lo svuotamento, il buio, l’angoscia. E lo svuotamento, il buio, l’angoscia accompagnano tante maternità. Manca il coraggio di dirlo. Di urlarlo. Ma accade.

La nostra società, l’Occidente moderno e progredito ci sbatte violentemente in faccia il mito della madre eternamente appagata e felice. Ogni figlio è un dono. Che ci piaccia o no.
Spesso, però, una volta che si sono cambiati i pannolini, che si è allattato (non senza dolore…l’allattamento non sempre è il “momento magico” che l’immaginario collettivo ci vuole far credere), che si è fatto addormentare il proprio neonato, tutto quello che sta intorno diventa grigio, perde di colore. Depressione, rabbia, amarezza per le rinunce, per le aspirazioni professionali non realizzate, stanchezza, solitudine si parano davanti, rendendo la maternità un vissuto realmente umano, come la felicità di avere un figlio, la commozione, la dedizione, il senso di autorealizzazione che si prova.

La maternità è anche parti in ombra.

Ancor prima di partorire, però, una donna deve dare segni di felicità e deve stare molto attenta a non far trapelare la minima ambivalenza.
E’ successo anche a me. E la cosa più devastante, all’inizio, è stata quella di scoprirmi dei lati che non credevo di avere.
Il diventare madre è l’esperienza che mi ha cambiato di più in assoluto, nonostante la mia vita sia segnata da tante cesure. L’iniziare per tre volte una nuova vita in una nuova città. Cambiare, alla soglia dei trent’anni, professione e ricominciare da capo a studiare. Tanto per fare qualche esempio.
Quando è nata la mia prima figlia, che ho desiderato con tutta me stessa come pure suo fratello e sua sorella, ho scoperto di essere isterica, egoista, collerica. Ho scoperto che, dopo un po’, non riesco più a sopportare le richieste dei miei figli, che in loro compagnia ci si può anche annoiare. Che dopo un weekend passato a sentirli litigare, a riordinare il loro disordine, ho una gran voglia di iniziare una nuova settimana di lavoro, anche se so che sarà la settimana più pesante dell’anno.

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Quando nasce suo figlio, una madre deve potersi raccontare. Se non se lo permette, può accadere che la relazione con il suo bambino non si avvii in modo sano. Deve poter dire che ha bisogno di aiuto, che non vorrà mai offrire il suo seno al bambino perché ha paura di farlo, che il parto è stata l’esperienza più dolorosa della sua vita e che non lo dimenticherà, che ha fame anche lei, ha sete, ha bisogno di silenzio, che ha paura, che non sa se ce la fa.

Non si può non pensare al fatto che dietro a un bambino c’è una donna che lo ha messo al mondo e il suo compagno e che la nascita può anche non essere accompagnata da una felicità immensa. E non si può non pensare che nella nostra società ci sono tante madri che soffrono di solitudine, non perché siano sole, ma perché in una società dove conta la performance, la sofferenza di una madre non può esprimersi. Ci si deve dimostrare capace di passare indenne il passaggio da donna a madre, perché la maternità non è solo un fatto privato ma è fatta di sociale e la società chiede alle madri di mostrarsi capaci di trovare sempre nuove risorse, come dicevo all’inizio.

Le donne oggi sono molto preparate culturalmente, ma al contempo sono più colpite degli uomini dalla crisi economica, dalla precarietà, e quasi non ci sono politiche pubbliche di sostegno alla genitorialità. Spesso la fatica della maternità, la stanchezza, la frustrazione creano difficoltà nel prendersi cura di sé e difficoltà nel chiedere aiuto.
E’ importante allora cercare di stare insieme in gruppo perché sentirsi sostenute da un gruppo è sicuramente un’esperienza che può aiutare madre e figlio a “separarsi” in modo sano nel senso di trovare strade parallele su cui camminare fianco a fianco.

Sul territorio in cui vivo è nato e vive da qualche anno un progetto che si configura come un percorso di supporto, solidarietà, a una fascia di popolazione fragile, più esposta di altre ai colpi e ai contraccolpi della società, vale a dire le neo-madri sole o con una rete personale che non è adatta a dar loro sostegno.
Questo progetto, che è stato chiamato “Colazione delle mamme” ed è diventato piuttosto noto nel territorio del rhodense, è nato dall’incontro di madri che faticavano nel loro nuovo ruolo ma che hanno avuto il coraggio di riconoscere le loro fatiche e che sono arrivate prima delle istituzioni locali nel dare una risposta a un bisogno sociale che sta diventando sempre più forte e che non si può né si deve tenere nell’ombra.
Queste madri, queste donne, hanno saputo creare una realtà che favorisce l’incontro tra coloro che sono madri da poco e vivono questa loro nuova condizione in solitudine, una realtà per promuovere dialogo su un tema di cui si ha paura di parlare perché può sembrare sconveniente, che si propone di aiutare chi non ce l’ha a crearsi tutt’intorno una solida rete.

E noi pedagogisti? Noi educatori? Come possiamo metterci in gioco?

Sappiamo che è normale che una donna provi sentimenti ambivalenti durante la gravidanza e sappiamo anche che la società da una parte riconosce alle donne uno status sociale rilevante quando sono in attesa dei loro figli e dall’altra parte le chiuse in una sorta di gabbia fatta di aspettative che spesso lasciano alle donne la sensazione di una frattura interiore.
Si è portati, inoltre a considerare la gravidanza e il post-partum due momenti importanti nella vita di una donna, ma separati da tutto il resto di questa stessa vita. E’ facile, allora, comprendere perché i vissuti emotivi di una donna in gravidanza e nel momento appena dopo il parto siano spesso negati, soprattutto quelli negativi..
In realtà, la gravidanza e il post partum non sono una parentesi destinata a chiudersi ma sono strettamente intrecciati ad un prima e ad un dopo che li condizionano. Il passato, l’infanzia, il rapporto che una donna ha con sua madre condizionano fortemente il suo modo di vivere la gravidanza, così come la sua gravidanza e il suo puerperio ci raccontano già molto del tipo di rapporto che vorrà instaurare con suo figlio e con quell’uomo che dal momento in cui il bambino nascerà non sarà più solo il suo compagno ma anche il padre di suo figlio.

Per questi motivi, noi pedagogisti possiamo pensare di elaborare dei percorsi teorici ma anche pratici in grado di accogliere e contenere i vissuti delle donne.
In primo luogo sarebbe importante dare spazio alla narrazione e lasciare che le donne facciano uscire quei vissuti emotivi che non hanno quasi mai il coraggio di raccontare. Una madre che non ha vissuto serenamente la gravidanza e il periodo dopo il parto, infatti, rischia di non riuscire a essere protagonista del ruolo educativo nei confronti del figlio e del rapporto affettivo con lui.
E poi si potrebbe pensare a percorsi di preparazione al parto che non siano, come speso accade oggi ai corsi pre-parto (e l’ho vissuto in prima persona), occasioni mancate, pensate per dare alla donna informazioni pratiche senza preoccuparsi di dare ascolto alle sue paure e alle sue difficoltà. E’ importante informare le donne su cosa accadrà al momento del parto ma non è sufficiente. La scelta di avere un figlio è complessa ed è fondamentale che le donne non solo siano destinatarie di sapere in questo momento della vita, ma devono essere anche fonte di questo stesso sapere, perché nessuno meglio di loro sa che cosa vuol dire essere in gravidanza.

E una volta che una donna diventa madre, dopo il parto, si deve pensare alla possibilità di sostenerla nei primi mesi di vita del bambino.
Una volta uscita dall’ospedale, infatti, la nuova famiglia si trova spesso in balia di sentimenti ed eventi nuovi e sconvolgenti, che, sulla base di come sono vissuti, possono condizionare in maniera determinante la qualità della relazione dei nuovi genitori con il bambino e tra di loro.
La madre vede mutare radicalmente i propri ritmi di vita, si trova costretta in casa per la maggior parte della giornata, impegnata solo a prendersi cura del piccolo, il quale spesso, impegnato nell’adattamento alla nuova condizione, piange. Per questo si trova spesso in preda di sentimenti ambivalenti: paura e sicurezza, amore e insofferenza, senso di inadeguatezza e gioia. C’è inoltre spesso la pressione della rete sociale, con le sue aspettative e con i suoi consigli, a rendere ancora più difficile questi momenti.

Noi professionisti dell’educazione, allora, possiamo pensare, in appoggio alle realtà come quella della “Colazione delle mamme”, a mettere a punto percorsi finalizzati a offrire sostegno alle donne in questo particolare momento, organizzando un clima facilitante in cui le donne possano sentirsi libere di esprimere paure, rabbie, delusioni, gioie, certe di poter contare su un facilitatore esperto e su un gruppo di donne che vivono le stesse situazioni. Un pedagogista, in queste circostanze, può essere un importante punto di riferimento. Può aiutare le donne a sciogliere i dubbi sull’educazione, sulle regole e sul sonno. Può far sì che le donne diano voce alle loro paure, dal momento che la sua formazione lo rende un professionista attento ed empatico, in grado di allargare le maglie spesso troppo strette di quello che viene comunemente considerato normale. Un approccio di tipo pedagogico può inoltre far sì che le donne individuino le risorse residue da attivare per poter acquistare sicurezza in sé.

La cura degli spazi nel lavoro educativo

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Il lavoro educativo è un “lavoro di cura”, cura che non si deve confondere con un intervento di assistenza e nemmeno con la messa in opera delle conoscenze e delle tecniche che si apprendono all’università. Esiste, certo, una dimensione tecnica importante, relativa al sapere e al saper fare degli educatori, ma ha significato solo se la si colloca all’interno della relazione educativa. Questo vuol dire che il lavoro educativo, in quanto lavoro di cura, poggia sulla capacità da parte dell’educatore di dare valore educativo ai suoi interventi, grazie alle proprie competenze tecniche e grazie alla propria capacità di sintonizzarsi affettivamente ed emotivamente con colui al quale l’intervento educativo è rivolto.

Nel corso degli anni, con la mia équipe di educatrici abbiamo maturato un’idea di bambino come persona che ha dei diritti, che è unica, è competente ed è protagonista del proprio percorso, che costruisce, un giorno dopo l’altro, grazie alle relazioni che intesse con gli altri e con il contesto. Proprio per questo motivo crediamo che sia fondamentale aver cura, sempre, degli spazi dell’educazione. E intendiamo la “cura” come un modo speciale, tutto di noi educatrici, di guardare al nostro mondo, in cui entriamo in relazione con i bambini.

Di conseguenza dedichiamo molti incontri d’équipe a discutere su quale sia il modo migliore di organizzare i nostri spazi in relazione alle caratteristiche dei bambini che li abitano di volta in volta.

Pensare-agli-spazi e pensare-gli-spazi, nel nostro lavoro, significa soprattutto pensare al benessere psico-fisico dei bambini che frequentano il nido e allo sviluppo delle loro potenzialità: devono essere spazi che sappiano accogliere le loro particolarissime e tante esigenze. E perché questo accada è molto importante saper creare degli angoli per il gioco, per il riposo, per le proposte strutturate, in cui centrale è l’aspetto della relazione e lo star bene del bambino al nido. Devono, quindi, essere spazi in cui i bambini si sentano a loro agio e possano scambiare esperienze con i compagni, spazi accoglienti e caldi il più possibile.

Lo spazio, nei servizi per la prima infanzia, quindi non deve essere neutro, asettico, ma è importante che veicoli chiari messaggi educativi: tutte le esperienze educative, infatti, avvengono nello spazio; pertanto, nel momento in cui si organizzano gli spazi, è necessario pensare alle esigenze dei diversi gruppi di bambini e curare tutti i dettagli nella scelta e nella disposizione degli arredi. E tutto ciò lo si fa in gruppo, perché è fondamentale che tutta l’équipe condivida le decisioni che si prendono…in caso contrario sarebbe molto difficile progettare delle esperienze educative di senso.

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Quando si entra per la prima volta nel nostro nido, dopo un piccolo angolo per l’accoglienza si accede alla sala polifunzionale, che è il nostro specchio…E’ la prima cosa che i genitori vedono e anche il primo spazio in cui possono immaginare ciò che vivranno i loro bambini nel nostro servizio. Oggi tutto è molto diverso da dieci anni fa, quando abbiamo iniziato. Lo spazio, gli arredi che lo rendono quello che è, i materiali, le pareti…tutto è cambiato così com’è cambiata, come è naturale che sia, la nostra idea di educazione nel corso del tempo.

E così come è cambiata la nostra idea di cura.

Oggi crediamo fortemente che i nostri spazi siano un’importante risorsa educativa, con tutti i limiti che questi hanno; pertanto li abbiamo strutturati pensando alle possibilità di apprendimento che offrono ai bambini e alla qualità delle relazioni che possono svilupparsi all’interno di essi. Questo perché gli spazi possono favorire o impedire lo svolgersi di esperienze: penso, ad esempio ad un angolo per la lettura…se fornito di tappeti, cuscini comodi e confortevoli, se ben illuminato, se vi è la possibilità di prendere i libri senza doverli chiedere, verosimilmente, sarà frequentato dai bambini e in essi faranno piacevoli esperienze e le vorranno ripetere; gli spazi, inoltre, possono influenzare il sentire: uno spazio, per esempio, con arredi di legno con angoli in cui rifugiarsi quando si ha voglia di stare un po’ da soli è facile che trasmetta calore e senso di protezione.

Gli spazi, i nostri spazi, pertanto, sono pensati per i bambini dagli adulti, ma anche dagli adulti che si relazionano con i bambini. Non sarebbe possibile diversamente. Gli spazi di un servizio educativo, infatti, sono luoghi in cui si vive, ci si incontra, si dialoga, luoghi di intimità, di finzione, di narrazione, di costruzione di identità. E sono anche spazi che cambiano, si costruiscono e si decostruiscono in relazione a chi li abita, alla crescita dei bambini nel corso dell’anno, ai loro vissuti. Cerchiamo di organizzarli in modo da rispettare i tempi lenti dei bambini, i loro bisogni, senza, però, dimenticarci che sono spazi abitati anche da adulti, le educatrici e i genitori, che devono trovare in essi luoghi che rispondano alla necessità di comunicare, confrontarsi, partecipare ala vita del servizio.

Gli spazi devono essere costante oggetto di cura educativa, ci va tanta manutenzione di essi, come dei materiali che li animano e caratterizzano perché devono essere spazi di qualità, in cui fondamentale è l’attenzione ai bisogni di crescita e cambiamento dei bambini.