Di cattive madri

E’ cronaca recente. Sono bastati 60 minuti, forse meno, perché si consumasse una tragedia familiare a Voghera, dove Elisa, una madre, ha strangolato e ucciso il figlio Luca, che ancora non aveva compiuto un anno, mentre si trovava da sola con lui.

I notiziari hanno ripetuto “Erano cinque anni che volevano questo bambino”. E anche che Elisa, ultimamente, era stanca, tanto che aveva preso una pausa dal lavoro. Una vicina ha raccontato che avrebbe sofferto di “depressione post partum”. Che “era un po’ agitata ma stava bene”.

Soffriva di depressione o stava bene?

Le madri con depressione post partum sperimentano emozioni come paura, tristezza, rabbia, gioia a un’intensità più alta o più bassa del solito. Provano un’eccessiva preoccupazione o ansia per situazioni che prima erano in grado di affrontare e gestire senza troppa fatica o possono essere molto irritabili nei confronti di se stesse o degli altri, o sentirsi sovraccariche e sotto pressione anche quando non ce ne sarebbe motivo.

Le madri con depressione post partum certo non stanno bene.

Parlare di sofferenza e di depressione legando i due termini alla maternità è difficile, perché viviamo in una società in cui è potente lo stereotipo della maternità come condizione ideale nella vita di una donna, ricca di benessere e piena di gioia. E’ come se non fosse consentito alle madri di dire che la maternità può essere un’esperienza tutt’altro che serena, caratterizzata da ombre a volte molto scure. Come appunto la depressione che può seguire al parto.

Depressione che non è una colpa. Ma un malessere che, come tale, va affrontato e curato, soprattutto perchè alcuni sintomi di essa riguardano la relazione con il proprio bambino: sentimenti di colpa, vergogna e senso di inadeguatezza rispetto al ruolo di madre.

Molto spesso le madri si sentono giudicate per i comportamenti inadeguati dei figli, anche quando sono molto piccoli, sentono il peso di dover essere perfette, soprattutto nei casi in cui sono loro a trascorrere la maggior parte del tempo in casa ad occuparsi della cura dei bambini. E da ciò nascono pensieri disfunzionali che fanno sì che si sentano inadeguate, incapaci, non in grado di crescere i figli.

Winnicott parlava di “madre sufficientemente buona“, cosa che implica che la madre possa non essere buona. Maledetto! Perchè una “madre sufficientemente buona” si contrappone a una madre cattiva e chiunque lo può essere…E se posso essere una “madre cattiva” ecco che la mente si affolla di pensieri disfunzionali che non fanno altro che portare ansia, tristezza e sensi di colpa.

E quando questo senso di inadeguatezza diventa opprimente, si è pervasi dalla tristezza, dall’impotenza, dai sensi di colpa, fatto che comporta una incapacità di relazionarsi adeguatamente con il proprio bambino, con il rischio di conseguenze negative per lo sviluppo psico-fisico dello stesso. Quando va bene.

Le “cattive madri” esistono da sempre. Anche nella letteratura, nella storia, nell’arte…Penso alla Signora Bennet di Orgoglio e Pregiudizio, madre della protagonista del libro, Elizabeth. Capricciosa, frivola e assolutamente priva di buon senso. O alle “Cattive madri” dipinte da Segantini, un’opera in cui, immersa in un paesaggio invernale, una donna seminuda è imprigionata tra i rami contorti di un albero; nei capelli della donna, in una posa scomposta e disperata, è avvolto il corpo di un neonato, di cui si scorge la piccola testa. E’ una peccatirce questa donna e viene punita in quanto non assolve al ruolo ad essa deputato e durissima è la punizione a lei riservata. Penso anche a Medea, che addirittura ha dato il nome ad una particolare patologia che affligge le madri depresse, la “Sindrome di Medea”. Nella versione di Euripide della tragedia greca, Medea, nipote della maga Circe, dalla quale eredita poteri magici, si innamora di Giasone. Per amore lo aiuta a impossessarsi del vello d’oro, uccide il proprio fratello, spargendone le membra, in modo che il padre, raccogliendo i resti del figlio, non possa impedire a Giasone, agli Argonauti e a Medea stessa, la fuga. La donna sposerà il suo amato e avrà dei figli. Dopo qualche anno, però, Giasone ripudia Medea per un’altra donna e lei, lacerata dall’odio, uccide i figli avuti dall’uomo che la lascia, per porre fine alla discendenza.

E potrei citare tante altre famose cattive madri. Joan Crawford, la famosa attrice, la Mrs Robinson de Il laureato (il noto film con Dustin Hoffmann), Sophie Portnoy, madre ossessiva e opprimente del protagonista di “Lamento di Portnoy”, romanzo di Philip Roth, Enid Lambert, la madre apprensiva dell’opera di Jonathan Franzen “Le correzioni”.

Ho conosciuto donne che hanno abbandonato i figli, che figli non ne hanno voluti, che li hanno picchiati o dimenticati da qualche parte. Donne che si sono sentite perse, sole, incomprese ma anche molto consapevoli di se stesse, delle proprie forze ma anche delle proprie vulnerabilità. Donne che mi hanno fatto comprendere (io che sono madre di tre figli) che la maternità non sempre va a braccetto con l’istinto materno, ma è una condizione complessa, lontana dai canoni in cui continua ad essere imbrigliata.

Ho conosciuto anche donne che raccontano della loro difficoltà a sentirsi “buone madri”: c’è chi ci ha rinunciato alla propria realizzazione professionale per i figli, chi si definisce “madre di merda”, chi parla di stress della maternità.

Credo che tutte le madri, prima o poi, dovrebbero rendersi protagoniste di un’azione di denuncia dell’ideale materno e dei canoni irraggiungibili ai quali questo ideale richiede di conformarsi. L’abnegazione della maternità e la resistenza a tale abnegazione provocano grande sofferenza, ma nel momento in cui si controlla la maternità (e non ci si fa da essa controllare) si rinasce come donne e come madri consapevoli e “sufficientemente buone”. E’ doloroso tutto ciò, ma necessario.

Se non si riesce a compiere questo cammino realmente catartico, il rischio è che la madre arrivi a compiacersi del suo annullamento nell’esperienza di maternità. E’ ciò è disumano. Non diversamente dall’arrivare all’infanticidio.

E, allora, si deve fare un atto di coraggio e mandare in frantumi la mistica della maternità, il “mito della madre” irraggiungibile, inimitabile, ineguagliabile. La madre che non scende a patti con la realtà, con l’esperienza umana, ma la trasfigura e così facendo ingabbia le donne nelle loro stesse aspettative sulla maternità, creando dolore, frustrazione, sensi di colpa a non finire.

Come, io credo, è accaduto a Elisa. E lei, senza sostegno, senza chi si mettesse in ascolto del suo profondo malessere, non ha potuto far altro che uccidere il suo bambino. Non è riuscita a reagire negativamente ad aspettative sovrumane e allora ha uacciso suo figlio e se stessa come madre. Con tutto ciò che questo comporterà.

Oggi diventare madre non è più un destino inevitabile, benché la pressione sociale resti fortissima grazie al mantenimento di un immaginario punitivo nei confronti delle donne che scelgono di tutelare la propria libertà individuale. Condanna che traspare non tanto rispetto alle donne che scelgono di non fare figli ma soprattutto nei confronti delle donne che, pur scegliendo di fare un figlio, non si immolano totalmente sull’altare della maternità e che non considerano il benessere del bambino come priorità assoluta rispetto al quale sacrificare ambizioni, desideri e libertà.

Al giorno d’oggi c’è chi sceglie di non avere figli, chi di farli e dedicarsi totalmente a loro, chi di averli senza rinunciare a portare avanti un lavoro o una vita sociale. Il giudizio sociale nei confronti di queste tre possibilità, però, non è il medesimo: le donne che fanno figli e si sacrificano per loro spesso sono considerate le “buone madri”; quelle che non rinunciano al soddisfacimento personale derivante dal lavoro o dalle passioni sono considerate ancora “frivole” o “carrieriste”.

Una possibile soluzione potrebbe essere la promozione sociale di un modello femminile vasto, libero da stereotipi, capace di anteporre le scelte e la volontà della donna a quella della madre. Un modello in cui uomini e donne, i cui compiti non siano rigidamente divisi per genere, sono gli autentici promotori di una parità che si riversa positivamente anche sui figli. Un modello che potrebbe rimettere in equilibrio la triade familiare – che nei secoli è stata sbilanciata in termini di obblighi morali verso la donna – trovando il giusto compromesso tra i bisogni e i desideri di tutti.

A quanti infanticidi dovremo ancora assistere prima che ciò accada? Quante madri moriranno insieme ai loro bambini? E sempre nello stesso modo?

I bambini e il pensiero scientifico

Il “pensiero scientifico” è un pensiero razionale che si basa su esperienze dimostrabili; aiuta a capire ciascuna delle parti che compongono un determinato fenomeno; si riferisce alla capacità di astrazione che l’essere umano mette in atto per poter considerare mentalmente le immagini del problema o dell’oggetto in esame.

E possiamo mettere tutto ciò in qualche modo in relazione ai bambini? Anche se sono molto piccoli?

Penso a quando mi accade di osservarli. Sempre più spesso, soprattutto se si tratta di bambini molto piccoli, mi domando quanto sia importante, nel corso delle fasi che essi attraversano nel corso del loro sviluppo, avvicinarli alle scienze ed ai fenomeni scientifici e, soprattutto, se le scienze sono adeguate a loro.

Da tempo, nei servizi in cui lavoro, ci si adopera affinchè i bambini si possano in qualche modo avvicinare al mondo delle scienze. Certamente negli ultimi anni ci siamo resi conto che non ci si può limitare soltanto a proporre loro esperienze di manipolazione, gioco ed esplorazione libera in nome del rispetto della loro originalità e della loro individualità. I bambini non sono “contenitori” da riempire con nozioni; non sono nemmeno piccoli individui, ancora troppo immaturi per fare ragionamenti o per affrontare il mondo. I bambini, fin da piccolissimi, selezionano da sé ciò che interessa loro e ciò che non interessa. Lo osserviamo continuamente noi, nei nostri servizi per l’infanzia e lo osservano continuamente i familiari. Così come ci rendiamo conto che, verso i tre anni, iniziano con i “perché”?, dimostrandoci in questo modo quanto possano essere curiosi, stupirsi, desiderare di andare alla scoperta del mondo.

Chiedersi se le scienze siano adeguate ai bambini, implica, io credo, un’altra domanda, vale a dire che cosa intendiamo per scienze. Per noi adulti le scienze sono tutte quelle discipline fondate sull’osservazione e sull’esperienza o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi e che si avvalgono di linguaggi formalizzati. Le scienze sono un fatto culturale. I bambini, però, non intendono le scienze nello stesso modo in cui le intendono gli adulti; non sono interessati alle scienze nello stesso modo in cui lo sono gli adulti. Perché non sono adulti e non hanno ancora maturità a sufficienza.

E un bambino non si avvicina alla scienza nello stesso modo in cui lo fa un adulto. Il pensiero scientifico, infatti, nei bambini fa leva sull’estrema sensibilità che è loro propria nei confronti della bellezza e di tutto ciò che provoca stupore e meraviglia; fa, inoltre, leva sul senso di vita insito nel movimento e nel gioco. Giocando e muovendosi, infatti, il bambino può entrare in contatto diretto con attività tecniche, con macchine o dispositivi…Ad esempio, può vedere, in cucina, che un coltello taglia di netto una mela dal cui interno possono fuoriuscire dei semi piccoli e scuri; oppure, richiamato dal rumore, si avvicina alla lavatrice e la osserva mentre gira a velocità diverse e, una volta che la si apre, può osservare come sono disposti i panni al suo interno. Come diceva Dewey, le parole possono isolare e conservare un significato solo allorchè esso è stato in precedenza implicato nei nostri contatti diretti con le cose: i bambini si interessano ai fenomeni scientifici se li si introduce ad essi attraverso investigazioni di prima mano.

Immaginate un bambino che sta mangiando della frutta. Mele, mandarini, qualche fetta di kiwi. Potrà accorgersi che in una fetta di mela ci sono dei semi, così come negli spicchi del mandarino e nelle fettine dei kiwi. E che nella mela i semi sono pochi e non troppo piccoli, mentre nel kiwi sono tanti e piccolissimi. E che nel mandarino i semi sono chiari, mentre nella mela sono scuri e neri nel kiwi. E mentre si accorge di tutto ciò semplicemente facendo merenda, quello stesso bambino osserva, misura, interpreta, procedendo, nel modo che è più affine alla sua età e alla sua maturità, verso la concettualizzazione. E se misura, interpreta e alla fine arriva ad una concettualizzazione ha utilizzato in qualche modo il pensiero scientifico. In ciò sta la meraviglia.

In tutto ciò, l’adulto ha il compito di guidarlo verso la scoperta e la riflessione e, così facendo, si renderà conto di quanto un bambino sia in grado di sviluppare pensieri scientifici partendo dalle cose più piccole che il mondo può offrire. E proprio così sostenuto, ogni bambino potrà procedere all’esplorazione, mettendosi in dialogo con gi oggetti che incontra, mettendo al centro della sua esplorazione domande e non le risposte, procedendo, con i suoi tempi e le sue modalità, attraverso le proprie personali ricerche su ogni cosa, anche la più piccola.

L’adulto, sia esso un educatore o un familiare, quindi, ha il compito di “preparare” i bambini alla scienza e ciò richiede il farsi carico dell’impatto dei concetti e delle teorie scientifiche su un bambino che osserva, che tocca, che si muove, che ragiona, che si fa delle idee sul mondo che lo circonda. E’ importante non schiacciare la ricerca di un bambino, ma lasciare che egli assuma sempre di più l’atteggiamento tipico dello scienziato, vale a dire un continuo mettersi in discussione, prendere in esame più punti di vista e raccogliere pazientemente dati e misure di verifica o falsificazione…Gli adulti, insomma, devono sapersi mettere nei panni dei bambini e saperli sostenere nelle loro ricerche ed ascoltare, in modo da presentare loro le cose nel modo più consono.

Interessante è ciò che scrive, in merito a ciò Mary E. Boole (The preparation to che child for science), quando parla di “pulsazione ritmica”, cioè un porsi di fronte al mondo dello scienziato che preservi la libertà di spirito del bambino, la sua iniziativa, la sua curiosità, incanalandole secondo regole di pensiero che costituiscono anche un vero e proprio codice etico, per la limpidezza che implicano e per la responsabilità che incoraggiano.

Se osserviamo un gruppo di bambini intento a cercare la soluzione di un problema che è stato proposto loro riusciamo a comprendere quanto possa essere efficace, per lo sviluppo del pensiero scientifico, offrire ai più piccoli una visione della scienza attraverso la bellezza, l’immedesimazione e la meraviglia di fronte a concetti che possono spingere il pensiero oltre il senso comune. Vediamo, infatti, che discutono, propongono idee, ne propongono altre, per poi arrivare a esporre insieme la soluzione accompagnata dalla loro argomentazione; e lo fanno con la massima cura, attenzione, lealtà, spirito di precisione, flessibilità, precauzione, ponendosi dinanzi ai fenomeni che osservano con reverenza ma anche con grande intraprendenza.

E comprendiamo che partendo da situazioni di vita quotidiana in cui i bambini possono provare, giocare, sperimentare, fino ad esplorare idee ed usarle per esplorare fenomeni, si crea quel coinvolgimento personale che facilita l’apprendimento, soprattutto nella fase di formazione delle conoscenze di base necessarie allo sviluppo di una cultura scientifica.

[Questo scritto nasce in seguito al lavoro di osservazione delle équipe dei nidi della Brianza di cui sono coordinatrice, che quotidianamente promuovono ricerca, esplorazione e pensiero scientifico nei bambini. Equipe che ringrazio per il grande lavoro che stanno svolgendo. E per l’impegno con cui lo stanno svolgendo. Grazie ai gruppi di lavoro dei nidi Happy Children di Lissone e Bum Bum di Biassono, Desio e Monza.]

Che fare in vacanza? Come vivere questo tempo con i propri figli?

Molti genitori, quando si sta per avvicinare il momento delle vacanze, mi chiedono suggerimenti…come potranno trascorrerle in serenità? Come potranno impegnare le giornate dei bambini o delle bambine in luoghi che non sono familiari e, probabilmente, non troppo a misura di bambino?

Belle domande… mi dico sempre… Cosa posso suggerire a questi genitori? Ciò che può essere efficace per una famiglia quasi sicuramente non lo è per un’altra…E so perfettamente di non essere in grado di fornire ricette preconfezionate che vadano bene per tutti.

Provo, comunque, a condividere alcune riflessioni.

Ogni genitore desidera dare ai propri figli la possibilità di vivere
un’estate serena, evitando di farsi prendere da eccessivi sensi di colpa al pensiero di doverli
“abbandonare” a giornate noiose e solitarie.

D’estate, poi, è più facile offrire ai bambini e alle bambine la possibilità di stare a contatto con la natura, la possibilità di muoversi e di sperimentare nuove relazioni…Non è importante fare chissà che…È importante regalare tempo di qualità vera… Che non significa un’attività dopo l’altra per arrivare stremati a sera…Anche le giornate attraversate dalla noia possono essere ricche perché stimolano creatività e fantasia.

L’estate, di certo, non deve essere vissuta come un problema…è un’opportunità! È un tempo bello, in
cui il bambino può “staccare” dal nido o dalla scuola e godersi con piacere le giornate, anche se i genitori non possono sempre garantirgli attività da “mille e una notte”…che magari a lui nemmeno interessano.

Le giornate estive offrono tante possibilità: si può stare sempre all’aria aperta, c’è moltissima luce fino a sera tarda e si può uscire di più che nelle altre stagioni; chi resta in città, inoltre, trova molta meno confusione.
Si può, allora, organizzare un pic-nic di famiglia (difficile da fare durante l’anno e certamente divertente per i bambini, soprattutto se li coinvolgiamo nella preparazione dei cesti)…anche in un parco cittadino…basta che ci sia del verde e degli alberi che ci proteggano dal troppo sole…
Dopo cena si può uscire per andare a mangiare un gelato o per fare un giretto in bicicletta…O, se c’è la possibilità, si può andare tutti insieme a vedere un film all’aperto…o, se siamo abili narratori, metterci a raccontare delle favole sul terrazzo mentre cala il buio.

Nei giorni più caldi, del resto, non è proprio possibile tenere ritmi veloci.Si rallenta tutti, si va più piano….

Riflettevo su una domanda fatta da mio figlio: ” mamma, che si fa con questo caldo?”. Già, che si fa? Si ozia!.

Ma sono in tanti coloro che ritengono che l’inattività sia sempre da rifuggire e temono quando i bambini si annoiano. Per costoro un bambino inattivo è un bambino che perde il proprio tempo, o, peggio che se ne infischia dell’autorità di babbo e mamma.

Saper tollerare la noia invece è un segno di agio, annoiarsi è un’esperienza formatrice, utile alla crescita psichica di ognuno di noi. Nei momenti in cui smettiamo di confrontarci con qualcosa agendo, entriamo in contatto con la solitudine “buona”, direbbe C.Bobin, ovvero quel vuoto che dà luogo al processo simbolico, creativo. Il vuoto permette la nascita di forme legate al proprio mondo interiore, insegna ad entrare in contatto con le proprie risorse. Non parlo certo di giornate in preda alla noia, senza un obiettivo. Parlo di momenti di noia successivi a momenti di attività, di impegno, di divertimento.

Se si parte per una vacanza, è poi importante tener conto del fatto che che si apre un tempo in cui le solite dinamiche familiari possono cambiare.

È importante, così, stabilire i compiti di ciascuno, in modo che ognuno abbia chiare le proprie responsabilità e i propri doveri. In questo modo si evitano tensioni…Coinvolgere i bambini, anche i più piccoli, nelle attività di casa può spesso essere una buona idea e certamente fa comprendere loro che possono avere, come i grandi, dei compiti da portare a termine, cosa che instilla a poco a poco il senso della responsabilità.

Gli orari si fanno differenti e, quindi, potrebbe essere necessario apportare alcune modifiche all’organizzazione in casa…

Durante le vacanze, una famiglia, inoltre, trascorre più momenti insieme, ma questo non significa interagire 24 ore al giorno.

E’ fondamentale ritagliarsi degli spazi per se’ senza sentirsi in colpa. Altrimenti, si corre il rischio di sentirsi saturi e si trasmette tensione agli altri.

Ci si può riservare del tempo tutti i giorni per leggere, guardare un film o uscire per una passeggiata da soli; sono attività che aiutano a rilassarsi e a ricaricarsi. E a vivere più serenamente il resto del tempo con i bambini e le bambine.

Ed è importante che in vacanza gli adulti prestino attenzione ai bisogni dei bambini…A volte accade proprio il contrario…basta sdraiarsi in spiaggia e mettersi a osservare…

Si vedono genitori che portano neonati o poco più sotto il sole nelle ore più calde. Oppure genitori che minacciano i figli che non mangiano un piatto di pasta e poi discutono con il vicino di ombrellone per delle sciocchezze. O ancora genitori che chiedono ai bambini di condividere spazi e giocattoli con altri bambini e poi si scannano di fronte a loro per una fila non rispettata al bar.

In questo modo non si considera il punto di vista dei bambini.

Non dobbiamo dimenticare che grande importanza ha il modeling, basato sulla capacità osservativa dei bambini, che vengono naturalmente influenzati da ciò che osservano attorno a loro e che tendono a prendere come modello. Il modello principale è costituito dai comportamenti degli adulti per loro più significativi, cioè i genitori. Osservare mamma e papà esprimere le proprie emozioni in termini di intensità, di modalità espressive verbali e non verbali rappresenta per i bambini una palestra nella quale effettuare i propri stessi allenamenti emotivi.

Pertanto è molto importante che gli adulti prestino attenzione ad agiti e comportamenti. Soprattutto in vacanza quando si trascorre tutta la giornata insieme.

Quando la scuola è davvero “buona scuola”

E’ difficile oggi dar forma alle parole. Si affollano nella testa, son lì da giorni ma non riesco a fissarle sul foglio come vorrei. Perché devo raccontare di mio figlio Francesco, del suo difficile percorso a scuola. Percorso difficile per lui e per me, benchè mi intenda di processi di apprendimento e conosca infinite strategie per tirar fuori le risorse ai ragazzini che vivono la scuola con più fatica degli altri.

Francesco ha un deficit attentivo grave e, forse, uno o più disturbi dell’apprendimento…Ha sempre avuto difficoltà di lettura, scrittura e calcolo. Oltrechè a star seduto al banco. Se avesse frequentato la scuola negli anni Ottanta come me, sarebbe di certo stato etichettato come un “fannullone” e confesso che, nei momenti più complicati, ho pensato anche io che fosse svogliato e per nulla interessato alle cose di scuola. E casco in questo pensiero ancora oggi quando lui, per difendersi e per togliersi di dosso un po’ della sua fatica, decide di non andare a lezione. Anzi…non ce la fa. E’ successo tante mattine che si sia lavato e vestito e che sia uscito per poi rientrare in casa affranto dicendo “mamma, non ce la faccio…è come se qualcuno mi stringesse il collo e non passa l’aria per respirare…e non riesco a muovere un passo…lasciami entrare in casa”. E in quelle circostanze, da madre, non riesci che ad accogliere tuo figlio e il macigno che lo schiaccia, senza nemmeno provare a capire che cosa sta succedendo.

Quando Francesco ha iniziato la prima media, consapevole delle sue fatiche, abbiamo subito pensato che fosse necessario far rete con la scuola.

Ogni ragazzino che vive l’esperienza scolastica con bisogni, comuni o speciali, ha il diritto di vivere le risorse della comunità fatta di alunni, famiglie, docenti, educatori e collaboratori che a vario titolo sono presenze educative all’interno della scuola. Quest’ultima poi è inserita in strutture più ampie e il dirigente scolastico ha il compito di relazionarsi con le strutture del territorio per fare della scuola un ambiente aperto e che possa beneficiare delle risorse locali. Dentro e intorno alla scuola esiste un fitto mondo di relazioni alle quali i ragazzi sono connessi e che possono rimanere uno sfondo inerte o diventare preziose per una scuola aperta, ricca, vitale che sa gestire le differenze chiedendo aiuto, collaborazione e professionalità ai suoi diversi interlocutori. La scuola che hanno frequentato Francesco e le sue sorelle, l’istituto comprensivo Europa Unita di Arese (MI) è una scuola così…aperta, ricca, vitale e che sa gestire le differenze.

Ed è una scuola che è riuscita a mettere a punto per lui una didattica universale, plurale, accessibile, capace di valorizzare le differenze e i suoi punti di forza. I docenti hanno lavorato giorno dopo giorno per garantirgli la massima adattabilità nel gruppo classe e per garantirgli possibilità di espressione e molteplici mezzi di coinvolgimento (interattività, collaborazione in gruppo, tutoring, auto-apprendimento…tra le altre cose). Tutto ciò per favorire la motivazione ad apprendere, senza cui è complicatissimo far crescere i ragazzi a scuola e con la scuola. 

Nonostante ciò, nonostante la grandissima professionalità dei docenti e il loro continuo cercare di tenere Francesco “agganciato”, la frequenza è stata assai discontinua. Molti sono stati i giorni di assenza, tanto che, fino all’ultimo, abbiamo temuto che non venisse ammesso agli esami di terza media.

Da educatrice e pedagogista, ho lavorato per qualche tempo con la tutela minori e ho incontrato, ahimè, insegnanti che mancavano di sensibilità e peccavano di presunzione. Ho seguito un bambino con una famiglia tanto conflittuale e priva di strumenti che ha dovuto vivere l’esperienza della comunità e che aveva difficoltà a leggere e scrivere (oltrechè, come prevedibile, comportamentali); è stato ‘bollato’ come svogliato, pigro, distratto, oltrechè inadeguato. Ed è stato “fermato” in prima media. Per esempio.

Non sempre gli insegnanti si mettono in ascolto e sono disposti a cecare le cause vere che determinano certe problematiche. E così è facile che i ragazzi si perdano. Che, a seguito di una bocciatura, escano dalla scuola senza tornarci mai più, come il ragazzo di cui parlo sopra. La bocciatura favorisce la dispersione, anche nei ragazzi che sono in età di scuola dell’obbligo.

I ragazzini che hanno dei bisogni non sono stupidi, anzi. Hanno solo bisogno di essere incoraggiati, seguiti, stimolati e gratificati. Devono sapere che possono farcela. E hanno il diritto di essere ascoltati.

E i docenti di Francesco si sono messi in ascolto. Hanno messo in atto tutte le strategie possibili per tenerlo agganciato alla scuola, comprendendo che era possibile, al di là di qualsiasi diagnosi proveniente dalla neuropsichiatria infantile, mettere a punto un percorso personalizzato pur in un contesto di gruppo.

Hanno sospeso verifiche e interrogazioni per un periodo per abbassare il suo livello d’ansia e cercare di tenerlo in classe, l’insegnante di sostegno ha creato un gruppo di studio pomeridiano ad hoc, tutti i professori hanno lavorato con i ragazzi affinchè i compagni spesso lo spronassero a frequentare e ad impegnarsi…addirittura lo sono venuti a prendere a casa per essere sicuri che tornasse in classe.

La scuola non è sempre così. Ma questa scuola, l’istituto Europa Unita di Arese, con i suoi docenti e la sua dirigente, ha mostrato che la “buona scuola” può esistere. Al di là dei piani di offerta formativa, al di là degli obiettivi da centrare e dei programmi da terminare ad ogni costo. Può esistere una scuola dove si lavora a servizio dei ragazzi, dove non ci si limita a trasmettere contenuti ma si mettono in luce i punti di forza e si valorizzano le persone, ognuna per quello che dà alla comunità.

“Se si perde loro, i ragazzi difficili, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati” scriveva Don Milani, il cui motto era “I care”, cioè “mi importa”. E come moderni Don Milani, i docenti di Francesco si sono preoccupati delle esigenze di ogni studente e di aiutare ciascuno tramite il dialogo, perché potessero avere tutti gli strumenti di apprendimento, assieme a una presa di coscienza generale sulla propria posizione nel mondo.

E da madre di un ragazzino in un certo modo “difficile” sono molto grata a tutti loro. So bene che “è dovere”, che la deontologia professionale richiede che si lavori per far sì che chi è più in difficoltà possa tagliare il traguardo insieme a tutti i compagni, ma può capitare che ci si interessi più al risultato finale che alla strada per arrivarci. E, allora, si lascia indietro chi è più lento, chi ha bisogno di incoraggiamento continuo. Scegliendo in questo modo la via più agevole, soprattutto in contesti dove accade spesso che il proprio lavoro non sia valorizzato e (diciamolo) gli stipendi sono tanto bassi da far passare qualsiasi fantasia.

Sono grata agli insegnati di Francesco. E sono grata alla dirigente dell’istituto comprensivo Europa Unita di Arese. Sono grata perché sono stati accoglienti e disponibili a far rete con noi famiglia e con le agenzie territoriali a cui ci siamo rivolti a causa delle difficoltà di nostro figlio. Sono grata perché hanno lavorato dal primo all’ultimo secondo per non perdere chi era in difficoltà, nonostante i muri che, spesso, i ragazzi sono capaci di costruire. Sono grata perchè hanno dato a Francesco la possibilità di continuare il percorso scolastico aiutandolo nella costruzione del suo futuro (che al di là di ogni risultato scolastico, è ciò che realmente mi interessa).

A volte, nella vita, è questione di fortuna. E sì…Francesco è stato molto fortunato ad avere i professori della sezione E della scuola media Leonardo da Vinci di Arese. 

Grazie alla dirigente Dott.sa Maria Teresa Tiana e ai professori Enzo Tandoi, Elena Radice, Cristina Caccia, Serena Bottega, Bruna Parisi, Laura Sacco, Elena Airaghi, Luciana Mantovani, Agostino Barbieri e Don Danilo Bononi.

Saper fare o saper essere? Cronache dai servizi per l’infanzia

All’università ci insegnano che l’educatore è colui che deve Sapere, Saper Essere, Saper fare. 

Vale a dire che colui che svolge una professione educativa intraprende un percorso caratterizzato da continui studi ed aggiornamenti (sapere) in quanto deve essere in grado di realizzare e attuare dei progetti educativi applicabili alle più diverse situazioni. Deve quindi avere acquisito e continuare ad acquisire delle specifiche conoscenze e competenze.

L’individuo nel corso della sua esistenza sviluppa, congiuntamente al sapere naturale e al sapere culturale, un sapere professionale, ovvero conoscenze, capacità e competenze (teoriche, pratiche ed esperienziali) richieste dalla professione che esercita. Questo sapere poi diventa un sapere orientato al proprio lavoro in modo deontologicamente corretto e finalizzato.

Il sapere di un educatore, quindi, lo porta a raggiungere la consapevolezza di saper essere, cioè l’integrarsi in un contesto specifico grazie a capacità di interazione e comportamento appropriate ad una relazione intersoggettiva efficace; saper essere è avere la consapevolezza di cosa si sta andando ad affrontare, conoscere se stessi e saper entrare in empatia con l’altro, mettendosi in gioco.

Tutto questo serve all’educatore per saper fare, ovvero un sapere empirico, procedurale, fatto di conoscenze operative e pratiche per la gestione di aspetti professionali specifici.

Attraversando come educatrice, pedagogista e supervisore diversi servizi per l’infanzia, oggi più che mai ho potuto osservare che nei contesti rivolti alla una fascia 0/3 o 0/6 c’è una prevalenza della spinta prestazionale che porta gli operatori a progettare per fare e non, in prima istanza, per essere. Raramente ci si sofferma su cosa significhi connettersi profondamente alle esperienze che si progettano, rintracciando il senso profondo che le azioni educative hanno per chi le pensa e le agisce.

Credo, quindi, che oggi serva portare nei servizi per l’infanzia una reale cura pedagogica; vale a dire accompagnare gli operatori a ricentrarsi e a ritrovare gli stimoli vitali per creare nei propri contesti lavorativi relazioni e azioni ricche di senso.

Come sottolinea Luigina Mortari “nella nostra tradizione culturale, tuttora gravata dal dualismo tra teoria e pratica, l’educatore (ma anche l’operatore sanitario, quello sociale ecc.), in quanto professionista “pratico”, è concepito come esecutore di saperi elaborati da altri, i cosiddetti teorici, quelli cioè che a vario titolo si occupano di costruire teorie.”. Questo ci fa capire che è sempre più necessario ripensare alla professionalità degli educatori, assumendo come fondamentali non solo le competenze tradizionalmente ad essa associate (disciplinari, progettuali, didattiche, metodologiche e valutative….) ma anche quelle che riguardano la persona in senso più ampio.

L’educatore sa che dovrà raggiungere determinati risultati con coloro che educa e ciò chiama in causa la capacità di leggere criticamente le specificità del contesto in cui si agisce per valutarne risorse e limiti e, parallelamente, la consapevolezza rispetto alle teorie e alle “comunità di pratiche” sottese al proprio operato; tale capacità porta con sé l’essere in grado di rivedere continuamente le proprie premesse e la propria prassi educativa. Non si tratta, quindi, di fare. Si tratta piuttosto di stare. In ascolto.

Se stiamo in ascolto di noi stessi e di quanto arriva a noi dal contesto educativo in cui ci troviamo, possiamo a-tendere, andare verso gli altri, dislocandoci dalla nostra individualità: l’ascolto inizia con il porre attenzione a ciò che sta intorno a noi. E per fare questo è necessaria una radicale trasformazione del modo di essere. La relazione al centro dell’interesse, al posto del proprio modo di essere e di imporsi; «non si tratta di un semplice sapere, ma di una trasformazione della personalità, attraverso un intenso esercizio di pensiero ovvero di immaginazione e di affettività» come asserisce Hadot. Si tratta, quindi di assumere un atteggiamento di concentrazione esterna sull’atto educativo e sull’altro, ma anche avere la capacità di osservare i cambiamenti corporei, le sensazioni e le percezioni che l’ambiente educativo rimanda. Si tratta di accorgersi dei cambiamenti meno evidenti, mettersi in ascolto delle emozioni, stare in allerta sui cambiamenti di umore dei soggetti.

Non si tratta di fare.

Pagine molto intense e partecipate sull’ascolto sono state scritte da Carl Rogers che ha evidenziato l’importanza dell’ascolto per la costruzione di relazioni educative. Rogers afferma alcune semplici, ma universali verità sull’attitudine all’ascolto e su cosa provino gli umani ascoltando. Innanzitutto, è necessario distinguere fra un ascolto superficiale e un ascolto profondo…Quando dico che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascoltare profondo. Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali, al significato personale e anche al significato che è sotteso all’intenzione cosciente di colui che parla. […] Così ho imparato a chiedermi: posso sentire i suoni e percepire le forme del mondo interno di quest’altra persona? Può esservi in me una risonanza così profonda per ciò che egli dice al punto di intuire i significati che egli teme e tuttavia vorrebbe comunicare, come fa con quelli che conosce? 

L’ascolto in un ambiente di apprendimento è un processo che inizia dal desiderio di ascoltare. Non si ascolta se si è costretti a farlo, ma se ci si predispone, perché ascoltare ha sempre delle conseguenze, implica un cambiamento, una trasformazione. E questo predisporsi bisogna che chi lavora nei servizi per l’infanzia lo apprenda o sia guidato perchè lo apprenda.

Alla base della costruzione di competenze per educare, infatti, vi è la competenza del sé, personale e professionale. Vale a dire conoscersi per avere la capacità di fare attenzione, di porgere ascolto, di sentire i pensieri e pensare i sentimenti. E’ necessario porsi in una condizione di apertura alla trasformazione del sé per lasciare spazio all’altro, alle sue ragioni e alle sue emozioni, al suo punto di vista.

Il saper fare, proporre tante e innovative esperienze concrete ai bambini che attraversano i nostri servizi è importante e fa parte del lavoro educativo con la prima infanzia ed attiene alle competenze tecniche e professionali che si acquisiscono nel corso degli studi e soprattutto con l’esperienza e con la formazione continua. Tali competenze tecniche (le cosiddette hard-skills) da sole non bastano più. Il complesso periodo storico in cui viviamo, i cambiamenti che si sono verificati nel recente passato, richiede agli educatori sempre più il possesso delle cosiddette soft-skills, le abilità e le competenze trasversali che caratterizzano un professionista, necessarie per potersi rapportare con le persone che fanno parte dell’ecosistema lavorativo. Questo perchè nei contesti lavorativi (come sono i servizi per l’infanzia) si è prima di tutto persone che hanno necessità di star bene con sé stessi perchè possano stare bene coloro di cui si prendono cura. E’ pertanto necessario diventare dei bravi gestori di relazioni per saper condividere, negoziare, ascoltare, stare in contatto, mantenendo alta la propria autostima. E in seguito si mettono in campo le competenze pratiche. Non viceversa.

Quando un bambino arriva al nido (o alla scuola dell’infanzia) ha bisogno di conoscere gli spazi (gli ambienti, gli arredi, i giocattoli), i tempi della giornata, gli altri (adulti e i compagni). C’è pertanto bisogno di adulti che sappiano leggere e riconoscere la curiosità orientata dei bambini nei confronti dei nuovi spazi e dei compagni di gioco, che sono piccole persone da conoscere ed anche veicolo di conoscenza. Pertanto, è importante che chi si occupa di educazione nei servizi per l’infanzia sappia, in primo luogo, leggere il contesto e poi agire in maniera coerente adottando comportamenti di aiuto per lo sviluppo armonioso dei bambini. C’è bisogno di adulti che sappiano sostenere il bisogno del bambino di condividere le proprie esperienze con i pari e di stare a proprio agio negli spazi del servizio. E perchè ciò avvenga è necessario, prima che ogni altra cose, che tali adulti riconoscano le proprie risorse personali e professionali (e quelle dei colleghi), che abbiano uno sguardo empatico e valorizzante nei confronti di sé stessi e di tutti gli attori che compongono la comunità educante rivolta all’infanzia, che migliorino la relazione con se stessi e con gli altri componenti della comunità educante e che imparino a significare il proprio linguaggio espressivo e a metterlo a servizio del contesto.