La cura degli spazi nel lavoro educativo

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Il lavoro educativo è un “lavoro di cura”, cura che non si deve confondere con un intervento di assistenza e nemmeno con la messa in opera delle conoscenze e delle tecniche che si apprendono all’università. Esiste, certo, una dimensione tecnica importante, relativa al sapere e al saper fare degli educatori, ma ha significato solo se la si colloca all’interno della relazione educativa. Questo vuol dire che il lavoro educativo, in quanto lavoro di cura, poggia sulla capacità da parte dell’educatore di dare valore educativo ai suoi interventi, grazie alle proprie competenze tecniche e grazie alla propria capacità di sintonizzarsi affettivamente ed emotivamente con colui al quale l’intervento educativo è rivolto.

Nel corso degli anni, con la mia équipe di educatrici abbiamo maturato un’idea di bambino come persona che ha dei diritti, che è unica, è competente ed è protagonista del proprio percorso, che costruisce, un giorno dopo l’altro, grazie alle relazioni che intesse con gli altri e con il contesto. Proprio per questo motivo crediamo che sia fondamentale aver cura, sempre, degli spazi dell’educazione. E intendiamo la “cura” come un modo speciale, tutto di noi educatrici, di guardare al nostro mondo, in cui entriamo in relazione con i bambini.

Di conseguenza dedichiamo molti incontri d’équipe a discutere su quale sia il modo migliore di organizzare i nostri spazi in relazione alle caratteristiche dei bambini che li abitano di volta in volta.

Pensare-agli-spazi e pensare-gli-spazi, nel nostro lavoro, significa soprattutto pensare al benessere psico-fisico dei bambini che frequentano il nido e allo sviluppo delle loro potenzialità: devono essere spazi che sappiano accogliere le loro particolarissime e tante esigenze. E perché questo accada è molto importante saper creare degli angoli per il gioco, per il riposo, per le proposte strutturate, in cui centrale è l’aspetto della relazione e lo star bene del bambino al nido. Devono, quindi, essere spazi in cui i bambini si sentano a loro agio e possano scambiare esperienze con i compagni, spazi accoglienti e caldi il più possibile.

Lo spazio, nei servizi per la prima infanzia, quindi non deve essere neutro, asettico, ma è importante che veicoli chiari messaggi educativi: tutte le esperienze educative, infatti, avvengono nello spazio; pertanto, nel momento in cui si organizzano gli spazi, è necessario pensare alle esigenze dei diversi gruppi di bambini e curare tutti i dettagli nella scelta e nella disposizione degli arredi. E tutto ciò lo si fa in gruppo, perché è fondamentale che tutta l’équipe condivida le decisioni che si prendono…in caso contrario sarebbe molto difficile progettare delle esperienze educative di senso.

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Quando si entra per la prima volta nel nostro nido, dopo un piccolo angolo per l’accoglienza si accede alla sala polifunzionale, che è il nostro specchio…E’ la prima cosa che i genitori vedono e anche il primo spazio in cui possono immaginare ciò che vivranno i loro bambini nel nostro servizio. Oggi tutto è molto diverso da dieci anni fa, quando abbiamo iniziato. Lo spazio, gli arredi che lo rendono quello che è, i materiali, le pareti…tutto è cambiato così com’è cambiata, come è naturale che sia, la nostra idea di educazione nel corso del tempo.

E così come è cambiata la nostra idea di cura.

Oggi crediamo fortemente che i nostri spazi siano un’importante risorsa educativa, con tutti i limiti che questi hanno; pertanto li abbiamo strutturati pensando alle possibilità di apprendimento che offrono ai bambini e alla qualità delle relazioni che possono svilupparsi all’interno di essi. Questo perché gli spazi possono favorire o impedire lo svolgersi di esperienze: penso, ad esempio ad un angolo per la lettura…se fornito di tappeti, cuscini comodi e confortevoli, se ben illuminato, se vi è la possibilità di prendere i libri senza doverli chiedere, verosimilmente, sarà frequentato dai bambini e in essi faranno piacevoli esperienze e le vorranno ripetere; gli spazi, inoltre, possono influenzare il sentire: uno spazio, per esempio, con arredi di legno con angoli in cui rifugiarsi quando si ha voglia di stare un po’ da soli è facile che trasmetta calore e senso di protezione.

Gli spazi, i nostri spazi, pertanto, sono pensati per i bambini dagli adulti, ma anche dagli adulti che si relazionano con i bambini. Non sarebbe possibile diversamente. Gli spazi di un servizio educativo, infatti, sono luoghi in cui si vive, ci si incontra, si dialoga, luoghi di intimità, di finzione, di narrazione, di costruzione di identità. E sono anche spazi che cambiano, si costruiscono e si decostruiscono in relazione a chi li abita, alla crescita dei bambini nel corso dell’anno, ai loro vissuti. Cerchiamo di organizzarli in modo da rispettare i tempi lenti dei bambini, i loro bisogni, senza, però, dimenticarci che sono spazi abitati anche da adulti, le educatrici e i genitori, che devono trovare in essi luoghi che rispondano alla necessità di comunicare, confrontarsi, partecipare ala vita del servizio.

Gli spazi devono essere costante oggetto di cura educativa, ci va tanta manutenzione di essi, come dei materiali che li animano e caratterizzano perché devono essere spazi di qualità, in cui fondamentale è l’attenzione ai bisogni di crescita e cambiamento dei bambini.

I bambini sono competenti. Diamo loro fiducia

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Spesso, soprattutto quando i miei figli erano piccoli, mi sono trovata a confrontarmi con chi era del parere che i bambini piccoli non sono in grado di portare a termine certi compiti perché, per farlo, si devono utilizzare oggetti che, per il senso comune, non sono adatti a loro o perché comportano una certa dose di rischio.
Anche al nido, a volte, quando le educatrici discutono in merito a determinate esperienze da proporre ai bambini del gruppo dei più grandi, si sente una certa resistenza nel proporre certi tipi di materiale o nel lasciare che i bambini si mettano alla prova con determinati oggetti…”Non usiamo, a tavola, stoviglie di materiale frangibile perché se i bambini le fanno cadere poi si rompono e non mangiano”; “non lasciamo che si servano da soli perché potrebbero non farcela e sprecare cibo e acqua”; “non lasciamo che provino a tagliare da soli la frutta a pezzetti perché a due anni e mezzo sono troppo piccoli per usare il coltello”…Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo davvero sicuri che i bambini non riescano ad avere cura delle stoviglie che si possono rompere? O che non sappiano servirsi da soli se messi nelle condizioni di farlo? O che non siano in grado di tenere in mano un paio di forbicine senza gravi conseguenze?
I testi di psicologia dello sviluppo ci dicono che fin dalla nascita i bambini sono persone complete, vale a dire che sono sociali, collaborativi e pronti a comunicare; e queste qualità non sono frutto di apprendimenti, ma sono innate. D’altra parte, perché queste qualità si sviluppino, i bambini hanno bisogno di vivere con adulti che si comportino in maniera da rispettarne e modellarne il comportamento.
Proprio perché persone complete, intorno ai due anni, i bambini iniziano, per gradi, a volersi liberare dalla totale dipendenza dai genitori e vogliono sentirsi liberi di pensare, sentire ed agire per conto loro. Al nido, spesso, ad esempio, al momento del ricongiungimento, accade che i bambini, mentre vengono vestiti, dicano con fermezza “faccio io!”. E la maggior parte dei genitori, dopo i primi tentativi, se questi non hanno successo, reagisce dicendo “Non puoi farlo tu! Non ci riesci e non possiamo stare ancora qui!”. Sembra proprio che, allora, quando i bambini iniziano a mostrare di voler essere indipendenti, gli adulti reagiscano con un atteggiamento di sfida.
Se un genitore o un educatore, però, non lascia che un bambino di due anni o poco più muova i primi passi verso l’indipendenza (o fatica a farlo), a poco a poco accade che o il bambino assume, come l’adulto, un atteggiamento di sfida o che abbandona l’iniziativa perdendo ogni velleità d’indipendenza. E questo non è certo educativo, se per educazione intendiamo “il tirar fuori le potenzialità e le risorse”; è, infatti, importante fare in modo che i bambini acquistino sempre più indipendenza confidando in sé stessi e nelle proprie forze, perché questo fa parte del loro naturale sviluppo. I bambini sono competenti.
La competenza si può considerare come la capacità che ogni individuo possiede di far fronte a un compito o a un insieme di compiti, riuscendo a tirare fuori le proprie risorse interne e a utilizzare le risorse esterne nel modo più coerente e fecondo possibile. Per far sì che questo accada è molto importante lasciare che i bambini facciano esperienze, in modo da elaborare strategie utili per poterle affrontare al meglio. E’ solo facendo esperienze, mettendosi alla prova, infatti, che i bambini possono rielaborare ciò che hanno vissuto e immagazzinarlo per il futuro. In questo modo, quando vivranno esperienze simili o nuove esperienze, sapranno mettere in atto con facilità tutte le risorse utilizzate nelle azioni già compiute e vissute.
I bambini, inoltre, sono osservatori molto attenti e sono naturalmente dotati della capacità di comprendere e poi di apprendere; la costruzione di competenze, infatti, si avvale dapprima di una sperimentale osservazione dell’ambiente circostante e di chi è già in grado di compiere una determinata azione (i bambini più grandi, per esempio). Gli adulti, allora, non devono fare altro che aiutarli a capire come allenarsi ad utilizzare le proprie e risorse e quanto trovano a disposizione, fidandosi. La fiducia è elemento essenziale perché il bambino possa acquisire competenze.
Il genitore e l’educatore devono dare al bambino la possibilità di crescere a proprio agio e di avere una vita soddisfacente; per questo motivo è importante aiutare il bambino a sviluppare l’autostima, un ‘attitudine interiore che svolgerà un ruolo essenziale nella sua personalità di adulto, influenzando le sue scelte (amicizie, lavoro, relazioni sentimentali…) e i suoi successi, scolastici e poi professionali, i comportamenti, la capacità di superare le difficoltà della vita. Un bambino, infatti, non può crescere in modo equilibrato senza una buona autostima, così come una società non può svilupparsi armoniosamente se gli individui che ne fanno parte non amano sé stessi, non hanno rispetto di sé, non attribuiscono valore alla propria personalità, non nutrono fiducia nelle proprie capacità. Il bambino alla nascita è dotato di una fiducia in sé infinita, totale, assoluta; la sua autostima, però, è tutta da costruire, dal momento che il neonato non ha consapevolezza degli elementi chiave della propria personalità né delle proprie capacità di interagire con il mondo esterno. E’ allora molto importante che coloro che si occupano dell’educazione del bambino, gli diano la possibilità di conservare e alimentare quella fiducia in sé che ha ricevuto alla nascita, per permettergli di prendere coscienza delle proprie capacità a interagire nel modo migliore per sé con il mondo. Se, infatti la fiducia in sé del bambino piccolo viene imbrigliata, soffocata, sviata, egli avrà difficoltà a formarsi come individuo autonomo e gli risulterà molto difficile sviluppare una sana autostima.

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Cosa possiamo fare, allora, nel concreto? Cosa facciamo noi che ci occupiamo dell’educazione dei bambini molto piccoli? Al nido, di frequente, non si propongono stoviglie in materiale frangibile (vetro, ceramica…), ma si preferisce il molto più impersonale e “freddo” materiale infrangibile (come la plastica, il PVC…) perché i bambini (e qui mi riferisco in particolare a quelli di due anni o più grandi) potrebbero rompere ciò che è fragile e farsi male e nessuno desidera avere problemi con le famiglie; per lo stesso motivo si fatica molto a proporre forbici e coltelli o a proporre ai bambini che si servano da soli il cibo caldo portato in tavola.
In questo modo, però, in contesti che spesso, nel loro progetto educativo, parlano di “autonomia”, di “affinamento delle competenze del bambino”, non si lavora affatto sull’aiutare il bambino a fare da sé, per parafrasare un’autrice che molti che si occupano di infanzia amano, Maria Montessori.
Proviamo a riflettere su quanto segue. I bambini imitano gli adulti di riferimento, perché tramite l’imitazione (e i giochi di imitazione) conquistano il proprio posto nel mondo che li circonda. Che accade quando gli adulti maneggiano del materiale frangibile? Ne hanno una cura particolare. E un bambino questo può comprenderlo molto bene…pertanto, quando si troverà lui stesso a maneggiare del materiale fragile, per imitazione,ne avrà molta cura e farà di tutto perché non si rompa. E lo stesso accadrà quando si troverà a maneggiare forbicine o piccoli coltelli per tagliare la frutta. Avrà cura di essere accorto nel non tagliarsi, proprio come lo sono gli adulti.
D’altra parte, l’impiego di materiali fragili, proprio per la cura che ci si mette nel maneggiarli, rafforza l’attenzione e il senso di responsabilità e sviluppa il controllo del movimento e la motricità fine, sempre per citare Maria Montessori. Perché, allora, non darli in mano ai bambini della cui crescita ci occupiamo?
Se ci fidiamo dei bambini, perché li conosciamo e sappiamo quali sono le loro risorse, allora possiamo tranquillamente proporre esperienze con materiali come il vetro, la ceramica, la porcellana…
Una cosa che noteremo immediatamente è il piacere che essi provano nel maneggiare questo materiale; ricordo un bambino, durante una proposta (ai bambini del gruppo dei più grandi) di fare i travasi utilizzando piccoli contenitori in vetro, prendere il vasetto e passarselo sulle guance con grande piacere, probabilmente per la sensazione di fresco che provava nel compiere questa azione.
Noteremo anche come i bambini fanno molta attenzione a non far cadere il materiale fragile, a non urtarlo tra loro, a non lanciarlo.
Certo, lasciandoli fare, noi educatori consapevolmente rischiamo che si possano fare male o che vetro e porcellana si rompano. Il rischio, però, è una dimensione importantissima dell’educazione. Quando si lascia sperimentare i bambini, senza intervenire direttamente, ma mettendosi in disparte a osservare, si agisce in rapporto con i “rischi” (in questo specifico caso il rischio che si facciano male, si taglino, rompano oggetti…), ma in questo modo (e solo in questo modo) li lasciamo liberi di fare e di mettersi alla prova, di tirar fuori le proprie risorse e, qualora qualcosa dovesse andare storto, li aiutiamo nel far crescere la loro capacità di gestire positivamente emozioni anche stressanti, senza il rischio (quello sì, vero) di soccombere alla prima reale difficoltà che la vita vera proporrà loro.

(per scrivere questo articolo mi sono ispirata alla vita quotidiana del nido in cui lavoro, La tana dei cuccioli di Meda (MB) e a due testi in particolare, “Dai che ce la fai!” di B. Hourst e “Il bambino è competente” di J. Juul)

Il gioco libero con il materiale destrutturato

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Circa un anno fa, nel corso di un incontro di supervisione abbiamo parlato dell’importanza del gioco libero e di quanto sia dato poco spazio ai bambini per farlo, perché si pensa che la cosa più importante sia tenerli occupati in qualche attività…

Io e la mia équipe siamo dell’idea che sia fondamentale lasciare che i bambini imparino a giocare liberamente con quello che hanno a disposizione e così abbiamo deciso di inserire questa idea nel progetto educativo di quest’anno.

Chi frequenta un nido, probabilmente, ha sentito parlare di “gioco libero” e, forse,ha associato questa “libertà” all’immagine di un’intera sezione di bambini che giocherellano “con questo e quel giocattolo” senza scopo. I bambini a cui viene proposto il “gioco libero”, in effetti, sono liberi di giocare con ciò che desiderano, con i compagni o da soli.
Il gioco libero, però, non è attività di routine che va a colmare quegli spazi della giornata utili alle esigenze di tutti i bimbi come l’accoglienza, il cambio o la pausa prima della nanna…E’ una proposta educativa completa perché stimola tutte le aree di sviluppo del bambino: quella sensoriale, quella cognitiva e quella motoria.

Il bambino, giocando liberamente, effettua in modo spontaneo tutte quelle attività che quotidianamente le educatrici gli propongono in maniera complessa e strutturata. Prendiamo ad esempio un percorso motorio: l’educatrice lo propone con cerchi da attraversare, ostacoli da aggirare…;il bambino compie la stessa attività in modo spontaneo quando gioca e corre per gli spazi del nido o all’esterno negli spazi del giardino. Solo che al posto del cerchio potrà trovare il tavolino sotto cui si muoverà a carponi e al posto degli ostacoli potrà trovare, magari, una sedia messa fuori posto.

Grazie a questo tipo di gioco il bambino stimola anche la sua fantasia. E, lentamente, sviluppa autonomia. Il gioco libero, infatti, e’ sperimentarsi, è sapere, saper fare e saper essere. È vitale, perciò, che il bambino possa giocare senza che l’adulto si sostituisca a lui o non lo reputi capace perché il gioco è mediatore dell’apprendimento.

Da quest’anno abbiamo iniziato a proporre esperienze con le cosiddette “Loose Parts”. Le loose parts (“parti sciolte”) sono elementi (naturali, di recupero, di scarto industriale) che possono essere spostati, trasportati, combinati, infilati, impilati, separati e rimessi insieme, usati da soli o combinati con altri materiali, in uno spazio di costruzione libero oppure delimitato da “supporti” di diverso genere (teli, reti metalliche, cornici, cartoncini, materiale plasmabile), come scrivono le colleghe D. Corradi e Alessandra Dedè in un articolo che compare sul sito di Percorsi Formativi.

La Teoria delle Loose Parts di Simon Nicholson (1972) sostanzialmente afferma che: “In qualsiasi ambiente, sia il grado di inventiva e di creatività, sia la possibilità di scoperta, sono direttamente proporzionali al numero e al tipo di variabili in esso presenti”. Vuol dire che più materiali proponiamo e più questi materiali sono vari, più i bambini che faranno esperienza con questi lavoreranno di fantasia e creatività e, di conseguenza, apprenderanno. Le Loose Parts sono molto più coinvolgenti e stimolanti di quanto possono esserlo i giocattoli tradizionali, perché non hanno un uso definito e univoco, ma possono essere spostate, combinate tra loro, trasformate a piacere proprio perché “sciolte”, slegate tra loro, libere.

A questa tipologia di materiali viene attribuita un’ampia gamma di opportunità che permette grande libertà di scelta da parte del bambino e sollecita la sua creatività. Essi, inoltre, sono anche definiti open-ended, perché permettono ai bambini di diventare co-protagonisti non solo dell’utilizzo ma anche della progettazione degli ambienti in cui essi vengono disposti. E questa è una potenzialità molto importante. I bambini, infatti, grazie alle loose parts divengono parte attiva di un processo progettuale che rende più attraenti le esperienze di gioco e di scoperta.

Riporto di seguito un pezzo di quanto scrivono Corradi e Dedè: “In questo modo è più facile superare le difficoltà della tecnica e delle abilità specifiche di ognuno, perchè quello che interessa non è a prestazione ma il poter vivere un’esperienza in modo personale e in piena valorizzazione delle differenze.
Avere a disposizione “parti sciolte” in un contesto di gioco permette, inoltre, ai bambini di scegliere quali materiali utilizzare e come utilizzarli, adattandoli a proprio piacimento e lasciandosi andare a ricerche compositive, estetiche, progettuali anche inconsuete,
In questo tipo di attività, il compito dell’adulto non è quello di “insegnare” una tecnica quanto piuttosto di predisporre uno spazio e dei materiali scelti, accostandosi ai bambini con un atteggiamento di “promozione dall’interno” per alimentare in loro un’attitudine autonoma alla ricerca, all’avventura, allo stupore, ai pensieri azzardati”.

Ci si scervella spesso per realizzare prodotti per il gioco dei bambini ma è evidente che il mondo è pieno di oggetti che li attraggono di più: i materiali di scarto delle lavorazioni prodotti nelle officine, nelle case, nei giardini; materiali che non utilizzano per imitare il lavoro degli adulti ma per creare nuovi rapporti tra le parti costruendo in questo modo un piccolo mondo fatto di oggetti, tutto loro, dentro al mondo più grande.

Chi volesse appronfondire in merito all’uso dei materiali destrutturati nei contesti educativi, può leggere il testo “Materie intelligenti”, a cura di M. Guerra. Sulle Loose Parts in particolare, si può leggere l’articolo che cito a questo link http://percorsiformativi06/arte-effimera-loose-parts-al-nido-allascuoladellinfanzia/

 

 

 

 

L’importanza della supervisione

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La supervisione è una pratica che predispone uno spazio teorico ma anche esperienziale al cui interno è possibile far convergere e potenziare le competenze professionali di osservazione, analisi e valutazione delle prassi lavorative consolidate. Si rivolge a persone singole o a gruppi  di lavoro che decidono di affrontare questioni tratte dalla quotidianità professionale, ponendosi come obiettivo il superamento di situazioni d’impasse e il miglioramento dell’organizzazione e dell’efficacia del loro lavoro; tende, infatti, a favorire l’individuazione di strategie operative efficaci e di soluzioni creative.

Nel nido in cui sono coordinatrice, la supervisione si fa da molti anni…l’ho fortemente voluta e credo che proprio perché c’è supervisione l’équipe non si è mai sfaldata, nonostante le fatiche che ci troviamo a dover affrontare. Credo che sia molto importante, per le famiglie che si avvicinano a un servizio educativo, chiedere se in quel servizio si fa supervisione, perché è indice di qualità ed è forse l’unica pratica che mette al riparo i bambini da eventuali maltrattamenti.

Le professioni socio-educative, infatti, hanno l’esigenza di avvalersi di uno spazio di pensiero condiviso e di confronto in cui analizzare e comprendere la complessità dei contesti in cui operano e dei bisogni emergenti di cui si devono far carico. I professionisti delle relazioni di aiuto operano, infatti, in contesti in cui spesso è labile il confine tra “normalità” e disagio e, pertanto, è facile che sentano il bisogno di analizzare e mettere costantemente in discussione le proprie prassi operative e di interrogarsi in modo coerente e competente sul proprio mandato sociale; nella supervisione ritrovano un setting in cui si può sospendere l’azione e intrecciare connessioni tra teorie, motivazioni, obiettivi, scelte, dubbi, vissuti, richiedendo al supervisore di porsi come facilitatore di occasioni di scambio e confronto sull’identità professionale, sugli strumenti e sulle metodologie, sul senso delle scelte.

Nel nostro servizio si fa  supervisione pedagogica, che stimola e sostiene la ricerca del senso delle azioni educative, portandoci a ricollocare gli eventi in una cornice progettuale. E’ una supervisione finalizzata a individuare e sciogliere alcune situazioni che, a una prima analisi, non consentono l’auspicato procedere del lavoro, a evidenziare il senso dell’azione educativa (vale a dire a scoprire educazione pensata anche laddove non sembra esservi pratica educativa), a favorire il confronto tra le dichiarazioni di intenti educativi e gli effetti educativi quando tra i due momenti sembra esservi uno iato.

La supervisione  vuole, inoltre, essere un aiuto per incidere sulla riduzione di nodi problematici, sia a livello organizzativo, sia relazionale, mediante il potenziamento delle competenze del gruppo di lavoro e per questo è importante che avvenga con continuità; solo attraverso un impegno costante, infatti, si può tentare di attivare negli operatori la disponibilità al confronto, la condivisione dei riferimenti pedagogici e degli stili educativi, ridurre la resistenza al cambiamento, migliorare la qualità relazionale, individuare strategie di gestione di eventuali disagi.

La supervisione si fonda su uno spazio e un tempo di sospensione, nel quale cercare e ritrovare una distanza equilibrata dall’azione: un luogo di riflessione e analisi caratterizzato da spirito critico e di ricerca in cui ampliare lo sguardo, valicando i confini del qui ed ora, per intraprendere un cammino personale e sociale di scoperta e condivisione. E’ il terreno delle storie, delle narrazioni, dei giochi in cui si abbozzano biografie e in cui si tentano autobiografie. E’ un terreno che va preparato con molta cura e molta sapienza pedagogica: è un contesto particolare, con una sua atmosfera, con le sue regole, con un clima accettante e avalutativo che favorisce la comunicazione perché si scopre che c’è qualcuno che ascolta, accoglie, partecipa.

Essa, utilizzando direttamente l’esperienza, la rende strumento, fonte e scopo allo stesso tempo, dell’intervento formativo. Il suo nucleo metodologico si basa sull’imparare facendo, cioè sul saper lavorare su un “oggetto” da conoscere profondamente, osservare analizzare e col quale l’operatore s’identifica e si differenzia, in un gioco dinamico di distanziamento e appartenenza. L’operatore cioè non impara dal supervisore, ma dalla propria esperienza di cui fa parte a quel punto anche chi fa la supervisione, ponendosi come filtro tra teoria e prassi, rappresentazione e interpretazione, bisogni e strategie.

L’ambientamento

 

Con l’entrata al nido, il bambino affronta una situazione nuova che modifica le sue abitudini e introduce l’esperienza del distacco dalla famiglia. I genitori vivono questa esperienza con particolare attenzione e talora anche con ansia, preoccupazione e senso di colpa.

Tutti i bambini, con modalità diverse, vivono il momento di passaggio dalla situazione domestica (conosciuta e rassicurante) a quella nuova del nido con una fase di crisi, ma  se il percorso di ambientamento viene svolto dedicando molta attenzione alla rassicurazione e al contenimento delle paure del bambino, tutto si risolve positivamente.

Ogni inserimento è unico e viene pertanto gestito ed articolato in maniera diversa da bambino a bambino, con tempi diversi e modalità adattate ad ogni singolo.

La mia équipe spesso affronta l’argomento delle modalità di ambientamento, ma, fatta eccezione per casi particolari, siamo tutte d’accordo  sui due criteri fondamentali su cui deve basarsi un inserimento: la gradualità rispetto ai tempi di ambientamento del bambino e la continuità tra le rispostedella famiglia e quelle del nido nei confronti delle esigenze di ogni singolo bambino.

Per ridurre al massimo l’ansia ed il senso di abbandono, è fondamentale creare un senso di continuità tra famiglia e nido e un clima di fiducia e di rispetto reciproci affinché il bambino percepisca positivamente le sue figure di riferimento (genitori ed educatrici). Se viene a mancare questa sicurezza, nel bambino si crea confusione e paura e la permanenza al nido diventa fonte di sofferenza.

L’educatrice deve diventare una base sicura ed un punto di partenza per le future esplorazioni.

Fondamentalmente l’educatrice deve cercare di trasmettere ai genitori che nulla è mai lasciato all’improvvisazione.

E’ molto importante:

  • la comprensione dei bisognidel bambino
  • la comprensione dei bisognidel genitore
  • la fiducia in un sistema di riferimento.

Nel periodo di ambientamento, è molto importante che i genitori siano molto presenti nella parte della giornata che il figlio non trascorre al nido, per evitare di fargli vivere un forte sentimento di abbandono.

La costante presenza dei genitori dà al bambino la sicurezza nel distacco: un distacco che è solo temporaneo, perché mamma e papà lo andranno a prendere e staranno con lui.

Inoltre è molto importante che i genitori (in particolare le mamme) non vivano un senso di colpa nel lasciare il bambino al nido, anziché occuparsi personalmente di lui tutto il giorno. Questo senso di colpa potrebbe, se percepito dal bambino, alimentare e confermare la paura di abbandono del bambino stesso.

E’ fondamentale, in questa fase, il rapporto del bambino con una specifica figura di riferimento costante, al fine di diminuire lo stress del distacco attraverso un’interazione privilegiata basata sulla fiducia e sull’affetto (nei momenti del cambio, del pranzo, del sonno, del gioco e delle coccole). I bambini piccoli, che non riescono ancora ad esprimere attraverso le parole le esperienze che stanno vivendo, hanno bisogno di questi rapporti speciali e ne hanno bisogno in un modo molto immediato e concreto.

Il rapporto che il bambino sviluppa con la persona di riferimento non sostituisce affatto la relazione tra bambino e genitori.