I bambini e il pensiero scientifico

Il “pensiero scientifico” è un pensiero razionale che si basa su esperienze dimostrabili; aiuta a capire ciascuna delle parti che compongono un determinato fenomeno; si riferisce alla capacità di astrazione che l’essere umano mette in atto per poter considerare mentalmente le immagini del problema o dell’oggetto in esame.

E possiamo mettere tutto ciò in qualche modo in relazione ai bambini? Anche se sono molto piccoli?

Penso a quando mi accade di osservarli. Sempre più spesso, soprattutto se si tratta di bambini molto piccoli, mi domando quanto sia importante, nel corso delle fasi che essi attraversano nel corso del loro sviluppo, avvicinarli alle scienze ed ai fenomeni scientifici e, soprattutto, se le scienze sono adeguate a loro.

Da tempo, nei servizi in cui lavoro, ci si adopera affinchè i bambini si possano in qualche modo avvicinare al mondo delle scienze. Certamente negli ultimi anni ci siamo resi conto che non ci si può limitare soltanto a proporre loro esperienze di manipolazione, gioco ed esplorazione libera in nome del rispetto della loro originalità e della loro individualità. I bambini non sono “contenitori” da riempire con nozioni; non sono nemmeno piccoli individui, ancora troppo immaturi per fare ragionamenti o per affrontare il mondo. I bambini, fin da piccolissimi, selezionano da sé ciò che interessa loro e ciò che non interessa. Lo osserviamo continuamente noi, nei nostri servizi per l’infanzia e lo osservano continuamente i familiari. Così come ci rendiamo conto che, verso i tre anni, iniziano con i “perché”?, dimostrandoci in questo modo quanto possano essere curiosi, stupirsi, desiderare di andare alla scoperta del mondo.

Chiedersi se le scienze siano adeguate ai bambini, implica, io credo, un’altra domanda, vale a dire che cosa intendiamo per scienze. Per noi adulti le scienze sono tutte quelle discipline fondate sull’osservazione e sull’esperienza o che hanno per oggetto la natura e gli esseri viventi e che si avvalgono di linguaggi formalizzati. Le scienze sono un fatto culturale. I bambini, però, non intendono le scienze nello stesso modo in cui le intendono gli adulti; non sono interessati alle scienze nello stesso modo in cui lo sono gli adulti. Perché non sono adulti e non hanno ancora maturità a sufficienza.

E un bambino non si avvicina alla scienza nello stesso modo in cui lo fa un adulto. Il pensiero scientifico, infatti, nei bambini fa leva sull’estrema sensibilità che è loro propria nei confronti della bellezza e di tutto ciò che provoca stupore e meraviglia; fa, inoltre, leva sul senso di vita insito nel movimento e nel gioco. Giocando e muovendosi, infatti, il bambino può entrare in contatto diretto con attività tecniche, con macchine o dispositivi…Ad esempio, può vedere, in cucina, che un coltello taglia di netto una mela dal cui interno possono fuoriuscire dei semi piccoli e scuri; oppure, richiamato dal rumore, si avvicina alla lavatrice e la osserva mentre gira a velocità diverse e, una volta che la si apre, può osservare come sono disposti i panni al suo interno. Come diceva Dewey, le parole possono isolare e conservare un significato solo allorchè esso è stato in precedenza implicato nei nostri contatti diretti con le cose: i bambini si interessano ai fenomeni scientifici se li si introduce ad essi attraverso investigazioni di prima mano.

Immaginate un bambino che sta mangiando della frutta. Mele, mandarini, qualche fetta di kiwi. Potrà accorgersi che in una fetta di mela ci sono dei semi, così come negli spicchi del mandarino e nelle fettine dei kiwi. E che nella mela i semi sono pochi e non troppo piccoli, mentre nel kiwi sono tanti e piccolissimi. E che nel mandarino i semi sono chiari, mentre nella mela sono scuri e neri nel kiwi. E mentre si accorge di tutto ciò semplicemente facendo merenda, quello stesso bambino osserva, misura, interpreta, procedendo, nel modo che è più affine alla sua età e alla sua maturità, verso la concettualizzazione. E se misura, interpreta e alla fine arriva ad una concettualizzazione ha utilizzato in qualche modo il pensiero scientifico. In ciò sta la meraviglia.

In tutto ciò, l’adulto ha il compito di guidarlo verso la scoperta e la riflessione e, così facendo, si renderà conto di quanto un bambino sia in grado di sviluppare pensieri scientifici partendo dalle cose più piccole che il mondo può offrire. E proprio così sostenuto, ogni bambino potrà procedere all’esplorazione, mettendosi in dialogo con gi oggetti che incontra, mettendo al centro della sua esplorazione domande e non le risposte, procedendo, con i suoi tempi e le sue modalità, attraverso le proprie personali ricerche su ogni cosa, anche la più piccola.

L’adulto, sia esso un educatore o un familiare, quindi, ha il compito di “preparare” i bambini alla scienza e ciò richiede il farsi carico dell’impatto dei concetti e delle teorie scientifiche su un bambino che osserva, che tocca, che si muove, che ragiona, che si fa delle idee sul mondo che lo circonda. E’ importante non schiacciare la ricerca di un bambino, ma lasciare che egli assuma sempre di più l’atteggiamento tipico dello scienziato, vale a dire un continuo mettersi in discussione, prendere in esame più punti di vista e raccogliere pazientemente dati e misure di verifica o falsificazione…Gli adulti, insomma, devono sapersi mettere nei panni dei bambini e saperli sostenere nelle loro ricerche ed ascoltare, in modo da presentare loro le cose nel modo più consono.

Interessante è ciò che scrive, in merito a ciò Mary E. Boole (The preparation to che child for science), quando parla di “pulsazione ritmica”, cioè un porsi di fronte al mondo dello scienziato che preservi la libertà di spirito del bambino, la sua iniziativa, la sua curiosità, incanalandole secondo regole di pensiero che costituiscono anche un vero e proprio codice etico, per la limpidezza che implicano e per la responsabilità che incoraggiano.

Se osserviamo un gruppo di bambini intento a cercare la soluzione di un problema che è stato proposto loro riusciamo a comprendere quanto possa essere efficace, per lo sviluppo del pensiero scientifico, offrire ai più piccoli una visione della scienza attraverso la bellezza, l’immedesimazione e la meraviglia di fronte a concetti che possono spingere il pensiero oltre il senso comune. Vediamo, infatti, che discutono, propongono idee, ne propongono altre, per poi arrivare a esporre insieme la soluzione accompagnata dalla loro argomentazione; e lo fanno con la massima cura, attenzione, lealtà, spirito di precisione, flessibilità, precauzione, ponendosi dinanzi ai fenomeni che osservano con reverenza ma anche con grande intraprendenza.

E comprendiamo che partendo da situazioni di vita quotidiana in cui i bambini possono provare, giocare, sperimentare, fino ad esplorare idee ed usarle per esplorare fenomeni, si crea quel coinvolgimento personale che facilita l’apprendimento, soprattutto nella fase di formazione delle conoscenze di base necessarie allo sviluppo di una cultura scientifica.

[Questo scritto nasce in seguito al lavoro di osservazione delle équipe dei nidi della Brianza di cui sono coordinatrice, che quotidianamente promuovono ricerca, esplorazione e pensiero scientifico nei bambini. Equipe che ringrazio per il grande lavoro che stanno svolgendo. E per l’impegno con cui lo stanno svolgendo. Grazie ai gruppi di lavoro dei nidi Happy Children di Lissone e Bum Bum di Biassono, Desio e Monza.]

Arriverà un momento per ogni cosa. “Spannolinamento” in quarantena?

Arriverà un momento per ogni cosa…fermiamoci ad attendere, è il momento di sostare, senza rincorrere conquiste che oggi ci metterebbero a dura prova e che, invece, domani potremmo raggiungere in un battito d’ali.

Tanti genitori, in questi giorni, però, stanno chiedendo ai noi che lavoriamo nei nidi suggerimenti per fare il passaggio dal pannolino al vasino. E’ arrivato il caldo e la bella stagione. Parrebbe proprio il momento.

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Credo che sia una richiesta legittima. Comprendo i genitori i cui figli fino a poco tempo fa frequentavano il nido e che a settembre andranno alla scuola dell’infanzia. Con alcuni di loro, probabilmente, le educatrici avevano iniziato a parlare di questo argomento e ci si aspettava di fare il passaggio in una prospettiva di alleanza e collaborazione. Adesso che, però, tutto è fermo, alcuni genitori sono un po’ in ansia e pensano che i bambini se la dovranno cavare facendo affidamento soltanto su mamma e papà.

La richiesta, però, mi ha spiazzata. Sono una persona molto fisica, ho bisogno di comunicare con gli abbracci, le mani sulle spalle, le carezze, i sorrisi, i respiri. E ora che tutto ciò è negato, fatico a mettermi in ascolto di una madre che sente il bisogno di togliere il pannolino al suo bambino. È più facile parlare di emozioni, di sentimenti…come stanno i bambini? Cosa dicono? Come vivono questo tempo? Non sono sicura che sia il momento degli “spannolinamenti”.
Anzi…credo proprio che la “quarantena” non sia una buona occasione per togliere il pannolino.
La buona occasione è quando è pronto il bambino, non quando siamo “comodi” noi adulti o quando siamo a casa (molto probabilmente impegnati nello smart working o con i figli più grandi alle prese con video lezioni e compiti).

E, a distanza, attraverso uno schermo se va bene, non mi sento di confrontarmi in merito a un passo tanto delicato. Il momento è particolare. Ai bambini stiamo già chiedendo di non vedere i nonni, gli amichetti, di non uscire fuori a giocare, di sopportare le nostre ansie e i nostri nervosismi. Dobbiamo chieder loro un ulteriore sforzo? Tanto più che adesso molti di loro hanno bisogno di fermarsi e consolidare le competenze che avevano acquisito nei mesi in cui hanno frequentato i nidi e, probabilmente, data la situazione ci sono state delle regressioni, piccole o grandi.

Proviamo a fare qualche riflessione. Può venirci in aiuto la lettura di un delicato albo illustrato che mi ha consigliato la dottoressa Jessica Omizzolo dei servizi educativi di Fano, mia preziosissima amica. Il fatto è di Gek Tessaro, che racconta con la più assoluta semplicità la complessissima mente dei bambini, che segue logiche estranee agli adulti.

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L’albo racconta di un paperotto e il fatto è che quando un paperotto non pensa sia il momento di fare il bagno non c’è anatra o catena animale o lupo che tenga: resta incollato al prato!!! Non lo smuove nulla, proprio com succede con i bambini.
La paura non ferma il papero; semplicemente non ha voglia di fare il bagno e ancor meno di essere spinto a farlo, anzi, più è spinto meno è collaborativo!
Non è difficile da capire ma pare che per i grandi sia pressoché impossibile: tutti pensano che il paperotto stia facendo i “capricci” o che abbia paura. Invece sta solo chiedendo di essere rispettato. Non è il momento. Non se la sente di fare il bagno. Ma lo farà! Sul finire della mattinata, quando il sole avrà scaldato l’acqua, senza nessuno intorno che spinga o controlli, il paperino, infatti, si tuffa perché ne ha voglia. Per il suo piacere. Perchè sente che quello è il momento.

Ogni bambino, proprio come i paperotti, ha il proprio tempo per fare conquiste. Non è bene mettere fretta. E’ frustrante.
Il tempo giusto per togliere il pannolino si capisce dopochè abbiamo osservato attentamente i nostri bambini. E’ vero! La primavera è generalmente la stagione in cui i bimbi dell’ultimo anno di nido, quelli delle sezioni “grandi” lo abbandonano…Io credo, però, che quest’anno si possa rimandare e che si debba tralasciare di fare paragoni o di ascoltare quello che suggeriscono gli altri.

Forzare i tempi è irrispettoso. Ce la faranno comunque. Ma quando sentiranno che è il momento. E vi stupiranno tanto saranno veloci e precisi.

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E quando il momento arriverà, i bambini lo faranno capire. Ricordate, però, che come il camminare, anche l’autonomia dal pannolino è un percorso fatto di incidenti. Che sono fisiologici e non devono buttarci a terra. Non è come accendere o spegnere un interruttore. Quindi…calma e tanto, tanto sangue freddo.

Cercate di sintonizzarvi con il vostro bambino. Concentratevi sulla relazione. Non fate paragoni con nessun altro e non guardate che succede intorno a voi. Guardate il vostro bambino. E vedrete che andrà bene. Andrà da se’.

La quarantena può essere un momento in cui beneficiare del tempo che normalmente non si ha a disposizione. Questo tempo va sfruttato in maniera creativa e generativa, facendo in modo che sia il tempo dell’ascolto. Il benessere di un bambino oggi, e in questo tempo più che mai, dipende dalle relazioni che i genitori instaurano dentro casa e con lui, pertanto è fondamentale rendere lo sfondo di queste giornate autenticamente educativo, oltreché amorevole. I bambini piccoli in questa fase hanno, infatti, ancor più bisogno di comprendere che i genitori sono una risorsa.

Siete ancora convinti di volere togliere il pannolino al vostro piccolo?

Pensateci con cura…e, quando sarà il momento, provate ad affrontare questo passo con un po’ di arguzia e ironia. Sarà di grande aiuto. Ridiamoci su. Delicatamente, ma ridiamoci su. Degli incidenti. Delle chiazze sul divano. Delle pozze sul pavimento. Viviamo, adesso ma anche dopo, la quotidianità con leggerezza…ridere aumenta la produzione di dopamina nel cervello, un neurotrasmettitore che attiva anche meccanismi naturali che agevolano l’apprendimento.

I bambini sono competenti. Diamo loro fiducia

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Spesso, soprattutto quando i miei figli erano piccoli, mi sono trovata a confrontarmi con chi era del parere che i bambini piccoli non sono in grado di portare a termine certi compiti perché, per farlo, si devono utilizzare oggetti che, per il senso comune, non sono adatti a loro o perché comportano una certa dose di rischio.
Anche al nido, a volte, quando le educatrici discutono in merito a determinate esperienze da proporre ai bambini del gruppo dei più grandi, si sente una certa resistenza nel proporre certi tipi di materiale o nel lasciare che i bambini si mettano alla prova con determinati oggetti…”Non usiamo, a tavola, stoviglie di materiale frangibile perché se i bambini le fanno cadere poi si rompono e non mangiano”; “non lasciamo che si servano da soli perché potrebbero non farcela e sprecare cibo e acqua”; “non lasciamo che provino a tagliare da soli la frutta a pezzetti perché a due anni e mezzo sono troppo piccoli per usare il coltello”…Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo davvero sicuri che i bambini non riescano ad avere cura delle stoviglie che si possono rompere? O che non sappiano servirsi da soli se messi nelle condizioni di farlo? O che non siano in grado di tenere in mano un paio di forbicine senza gravi conseguenze?
I testi di psicologia dello sviluppo ci dicono che fin dalla nascita i bambini sono persone complete, vale a dire che sono sociali, collaborativi e pronti a comunicare; e queste qualità non sono frutto di apprendimenti, ma sono innate. D’altra parte, perché queste qualità si sviluppino, i bambini hanno bisogno di vivere con adulti che si comportino in maniera da rispettarne e modellarne il comportamento.
Proprio perché persone complete, intorno ai due anni, i bambini iniziano, per gradi, a volersi liberare dalla totale dipendenza dai genitori e vogliono sentirsi liberi di pensare, sentire ed agire per conto loro. Al nido, spesso, ad esempio, al momento del ricongiungimento, accade che i bambini, mentre vengono vestiti, dicano con fermezza “faccio io!”. E la maggior parte dei genitori, dopo i primi tentativi, se questi non hanno successo, reagisce dicendo “Non puoi farlo tu! Non ci riesci e non possiamo stare ancora qui!”. Sembra proprio che, allora, quando i bambini iniziano a mostrare di voler essere indipendenti, gli adulti reagiscano con un atteggiamento di sfida.
Se un genitore o un educatore, però, non lascia che un bambino di due anni o poco più muova i primi passi verso l’indipendenza (o fatica a farlo), a poco a poco accade che o il bambino assume, come l’adulto, un atteggiamento di sfida o che abbandona l’iniziativa perdendo ogni velleità d’indipendenza. E questo non è certo educativo, se per educazione intendiamo “il tirar fuori le potenzialità e le risorse”; è, infatti, importante fare in modo che i bambini acquistino sempre più indipendenza confidando in sé stessi e nelle proprie forze, perché questo fa parte del loro naturale sviluppo. I bambini sono competenti.
La competenza si può considerare come la capacità che ogni individuo possiede di far fronte a un compito o a un insieme di compiti, riuscendo a tirare fuori le proprie risorse interne e a utilizzare le risorse esterne nel modo più coerente e fecondo possibile. Per far sì che questo accada è molto importante lasciare che i bambini facciano esperienze, in modo da elaborare strategie utili per poterle affrontare al meglio. E’ solo facendo esperienze, mettendosi alla prova, infatti, che i bambini possono rielaborare ciò che hanno vissuto e immagazzinarlo per il futuro. In questo modo, quando vivranno esperienze simili o nuove esperienze, sapranno mettere in atto con facilità tutte le risorse utilizzate nelle azioni già compiute e vissute.
I bambini, inoltre, sono osservatori molto attenti e sono naturalmente dotati della capacità di comprendere e poi di apprendere; la costruzione di competenze, infatti, si avvale dapprima di una sperimentale osservazione dell’ambiente circostante e di chi è già in grado di compiere una determinata azione (i bambini più grandi, per esempio). Gli adulti, allora, non devono fare altro che aiutarli a capire come allenarsi ad utilizzare le proprie e risorse e quanto trovano a disposizione, fidandosi. La fiducia è elemento essenziale perché il bambino possa acquisire competenze.
Il genitore e l’educatore devono dare al bambino la possibilità di crescere a proprio agio e di avere una vita soddisfacente; per questo motivo è importante aiutare il bambino a sviluppare l’autostima, un ‘attitudine interiore che svolgerà un ruolo essenziale nella sua personalità di adulto, influenzando le sue scelte (amicizie, lavoro, relazioni sentimentali…) e i suoi successi, scolastici e poi professionali, i comportamenti, la capacità di superare le difficoltà della vita. Un bambino, infatti, non può crescere in modo equilibrato senza una buona autostima, così come una società non può svilupparsi armoniosamente se gli individui che ne fanno parte non amano sé stessi, non hanno rispetto di sé, non attribuiscono valore alla propria personalità, non nutrono fiducia nelle proprie capacità. Il bambino alla nascita è dotato di una fiducia in sé infinita, totale, assoluta; la sua autostima, però, è tutta da costruire, dal momento che il neonato non ha consapevolezza degli elementi chiave della propria personalità né delle proprie capacità di interagire con il mondo esterno. E’ allora molto importante che coloro che si occupano dell’educazione del bambino, gli diano la possibilità di conservare e alimentare quella fiducia in sé che ha ricevuto alla nascita, per permettergli di prendere coscienza delle proprie capacità a interagire nel modo migliore per sé con il mondo. Se, infatti la fiducia in sé del bambino piccolo viene imbrigliata, soffocata, sviata, egli avrà difficoltà a formarsi come individuo autonomo e gli risulterà molto difficile sviluppare una sana autostima.

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Cosa possiamo fare, allora, nel concreto? Cosa facciamo noi che ci occupiamo dell’educazione dei bambini molto piccoli? Al nido, di frequente, non si propongono stoviglie in materiale frangibile (vetro, ceramica…), ma si preferisce il molto più impersonale e “freddo” materiale infrangibile (come la plastica, il PVC…) perché i bambini (e qui mi riferisco in particolare a quelli di due anni o più grandi) potrebbero rompere ciò che è fragile e farsi male e nessuno desidera avere problemi con le famiglie; per lo stesso motivo si fatica molto a proporre forbici e coltelli o a proporre ai bambini che si servano da soli il cibo caldo portato in tavola.
In questo modo, però, in contesti che spesso, nel loro progetto educativo, parlano di “autonomia”, di “affinamento delle competenze del bambino”, non si lavora affatto sull’aiutare il bambino a fare da sé, per parafrasare un’autrice che molti che si occupano di infanzia amano, Maria Montessori.
Proviamo a riflettere su quanto segue. I bambini imitano gli adulti di riferimento, perché tramite l’imitazione (e i giochi di imitazione) conquistano il proprio posto nel mondo che li circonda. Che accade quando gli adulti maneggiano del materiale frangibile? Ne hanno una cura particolare. E un bambino questo può comprenderlo molto bene…pertanto, quando si troverà lui stesso a maneggiare del materiale fragile, per imitazione,ne avrà molta cura e farà di tutto perché non si rompa. E lo stesso accadrà quando si troverà a maneggiare forbicine o piccoli coltelli per tagliare la frutta. Avrà cura di essere accorto nel non tagliarsi, proprio come lo sono gli adulti.
D’altra parte, l’impiego di materiali fragili, proprio per la cura che ci si mette nel maneggiarli, rafforza l’attenzione e il senso di responsabilità e sviluppa il controllo del movimento e la motricità fine, sempre per citare Maria Montessori. Perché, allora, non darli in mano ai bambini della cui crescita ci occupiamo?
Se ci fidiamo dei bambini, perché li conosciamo e sappiamo quali sono le loro risorse, allora possiamo tranquillamente proporre esperienze con materiali come il vetro, la ceramica, la porcellana…
Una cosa che noteremo immediatamente è il piacere che essi provano nel maneggiare questo materiale; ricordo un bambino, durante una proposta (ai bambini del gruppo dei più grandi) di fare i travasi utilizzando piccoli contenitori in vetro, prendere il vasetto e passarselo sulle guance con grande piacere, probabilmente per la sensazione di fresco che provava nel compiere questa azione.
Noteremo anche come i bambini fanno molta attenzione a non far cadere il materiale fragile, a non urtarlo tra loro, a non lanciarlo.
Certo, lasciandoli fare, noi educatori consapevolmente rischiamo che si possano fare male o che vetro e porcellana si rompano. Il rischio, però, è una dimensione importantissima dell’educazione. Quando si lascia sperimentare i bambini, senza intervenire direttamente, ma mettendosi in disparte a osservare, si agisce in rapporto con i “rischi” (in questo specifico caso il rischio che si facciano male, si taglino, rompano oggetti…), ma in questo modo (e solo in questo modo) li lasciamo liberi di fare e di mettersi alla prova, di tirar fuori le proprie risorse e, qualora qualcosa dovesse andare storto, li aiutiamo nel far crescere la loro capacità di gestire positivamente emozioni anche stressanti, senza il rischio (quello sì, vero) di soccombere alla prima reale difficoltà che la vita vera proporrà loro.

(per scrivere questo articolo mi sono ispirata alla vita quotidiana del nido in cui lavoro, La tana dei cuccioli di Meda (MB) e a due testi in particolare, “Dai che ce la fai!” di B. Hourst e “Il bambino è competente” di J. Juul)