Riflessioni sull'”ambientamento in tre giorni” al nido

Fino a un anno e mezzo fa per me non ci poteva essere altra metodologia che quella dell’ambientamento graduale dei bambini al nido. Del resto è la metodologia con cui ho lavorato fin dall’inizio della mia carriera di educatrice e la metodologia su cui ho fatto molte riflessioni da pedagogista, osservando i bambini, il personale educativo ed i genitori.

 

Qualche anno fa ho scritto un articolo per i genitori dei bambini che avrebbero iniziato a frequentare il nido in cui lavoravo…Dicevo: il nostro collettivo spesso affronta l’argomento delle modalità di inserimento, ma, fatta eccezione per casi particolari, siamo tutte d’accordo  sui due criteri fondamentali su cui deve basarsi un inserimento: la gradualità rispetto ai tempi di ambientamento del bambino e la continuità tra le risposte della famiglia e quelle del nido nei confronti delle esigenze di ogni singolo bambino.

Credevo fortemente nella validità dell’ambientamento “graduale”. Una metodologia che prevede che, in genere, entro al massimo tre settimane il bambino si abitui al nuovo ambiente e alle nuove persone che lo circondano. Tre settimane in cui passa, però, al nido poco tempo e in cui la presenza del genitore è prevista per cinque o sei giorni e, in totale, per pochissime ore.

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Non pensavo possibile nessun’atra metodologia di ambientamento. Finchè non ho sentito parlare dell’inserimento “svedese” o “inserimento in tre giorni”. Inizialmente ero molto scettica perché tre giorni mi sembravano veramente troppo pochi e troppo poco rispettosi dei bisogni dei bambini che hanno necessità di tempo per adattarsi ed accettare con piacere le novità. D’altra part, il metodo classico di ambientamento è consolidato nelle pratiche educative del nostro paese…perché metterlo in discussione?

Beh…intanto credo che dirsi “abbiamo sempre fatto così, ha sempre funzionato, quindi cambiare non ha senso…” sia sintomo della non-volontà di mettersi in gioco e di forte chiusura e un po’ di grettezza. Il cambiamento e la novità, senza dubbio, spaventano, ma affrontarli è tipico di chi desidera crescere, professionalmente e non solo.

Ho pertanto, iniziato a credere che il cosiddetto “inserimento in tre giorni” dovesse essere una metodologia da considerare e da approfondire.

E ho iniziato a riflettere sulla validità dell’ambientamento graduale. Mi sono chiesta se la gradualità davvero tenesse conto dei bisogni dei bambini e dei loro tempi. Nel corso della prima settimana e di parte della seconda, se si applica questa metodologia, i bambini trascorrono al nido un’ora o poco più al giorno…è sufficiente per esplorare il nuovo ambiente? Per conoscere i nuovi compagni e le educatrici? E per i genitori è sufficiente un’ora al giorno di permanenza al nido per potervi lasciare  il bambino con serenità?

Queste domande mi sono balenate in testa ad ogni ambientamento da almeno due anni a questa parte.

L’équipe con cui ho lavorato fino alla fine di luglio 2019, però, non si è mostrata aperta a questo cambiamento. Con mio grande rammarico, a dire il vero. Un servizio educativo, però, è fatto dal coordinatore e dal gruppo degli educatori, pertanto non mi sono sentita di imporre una metodologia in cui il gruppo, benché non formato, non credeva.

Ci ho però creduto tanto io. Così, dopo che ho cambiato servizio ed équipe di lavoro, ho deciso che era giunto il momento, per lo meno, di formarmi e di iniziare ad approcciarmi con serietà a questa metodologia di lavoro. Ed ho preso parte ad uno dei corsi tenuti da Fabiola Tinessa e Valeria Zoffoli, collaboratici di Silvia Iaccarino e rispettivamente coordinatrice pedagogica e responsabile del nido “L’isola di Peter Pan” di Cesena, il primo nido in Italia in cui si è praticato l’ambientamento in tre giorni.

Il corso di formazione è stato decisamente interessante. Sono, però, tornata a casa con tanto bisogno di riflettere e di ripensare ai contenuti che sono stati trasmessi e alle discussioni che sono venute fuori.

Nei servizi in cui si pratica questa metodologia di ambientamento, dal momento in cui fanno il primo ingresso al nido e per i tre giorni successivi,  il genitore e il bambino stanno sempre insieme. Durante il cambio del pannolino, mentre si gioca, mentre si legge o si mangia. L’educatore intanto osserva la diade, entra in contatto con loro. Il quarto giorno il bimbo rimane al nido, mentre il genitore se ne torna alle sue solite attività. Secondo chi usa questo metodo, i bambini acquisiscono conoscenza con il nido e il personale in tempi rapidi. Chi l’ha sperimentato, sottolinea come i tempi dei bambini siano rispettati insieme ai tempi del lavoro della famiglia.

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Il primo giorno il genitore bada ai bisogni primari del proprio bambino e le educatrici osservano le modalità di relazione della diade, facendo così proprie le strategie del genitore e le abitudini del bambino. Il secondo giorno le educatrici affiancano la diade entrando in relazione sia col genitore sia col bambino e il genitore ed il bambino entrano in relazione con le educatrici e cominciano a padroneggiare gli spazi del nido e le scansioni temporali della giornata. Il terzo giorno il genitore è ancora presente ma lascia maggiore spazio alle educatrici. Il quarto giorno il genitore accompagna il bambino al nido e, dopo essersi preso il tempo di cui ha bisogno, se ne va.

Molti degli educatori che hanno sperimentato questa metodologia di ambientamento testimoniano che già dal quarto giorno i bambini sono in grado di riconoscere gli spazi e intuire i tempi. E che il rapporto che si instaura con i genitori è di fiducia assoluta mentre con l’altra metodologia di ambientamento tale fiducia si consolidava dopo mesi. Non sempre, ma spesso.

Per chi ha sempre adottato l’ambientamento graduale è, però, difficile capire come inserire i bambini in soli tre giorni. Ci si chiede, come è successo a me, se è possibile che ci sia un tempo stabilito a prescindere dal bambino. E si pensa che risolvere la questione dell’ambientamento in tre giorni sia molto comodo per i genitori ma non tenga conto dei reali bisogni dei bambini che hanno tempi differenti da quelli degli adulti.

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Un buon ambientamento è quello in cui il genitore riesce a staccarsi dal suo bambino con serenità; il genitore riesce a fidarsi delle educatrici quando conosce il contesto del nido e perché ciò avvenga ci vuole tempo…il tempo non è lo stesso per tutti, ma se si dà ai genitori la possibilità di vivere il nido sarà più facile per loro allontanare gli spettri che potrebbero far sì che l’ambientamento fallisca. E se il genitore vive il nido per alcuni giorni, le educatrici, che inizialmente sono delle perfette sconosciute, hanno la possibilità di toccare con mano le abitudini delle diadi bambino-genitore, di osservare le modalità con cui entrano in relazione, che cosa li rende sereni, che cosa li inquieta. Questo processo di conoscenza è molto più lento e difficoltoso quando la modalità di ambientamento è quella graduale. Perché le ore in cui è prevista la presenza della diade sono davvero poche (7/8 al massimo in due settimane contro le 18 previste dalla metodologia dell’ambientamento in tre giorni).

Non ci si deve, però, aspettare che dopo i tre giorni i bambini non piangano al distacco e che non sentano la fatica che comporta l’ingresso al nido. Il cambiamento esiste, così come la fatica di affrontarlo. Hanno paura del cambiamento nella quotidianità e, come tutti i bambini, la esprimono col pianto, il nervosismo, qualche piccolo disturbo nel sonno.

L’ambientamento in tre giorni, però, ha un valore aggiunto. Il genitore ed il bambino, lontano dalla loro normale quotidianità, hanno il tempo di dedicarsi attenzioni reciproche e concedersi tanto tempo per nutrire la loro relazione vivendo un’esperienza molto intensa e condivisa.

Per questo mi auguro che presto, nel servizio in cui sto lavorando, si inizi a riflettere su questa metodologia e si pensi ad adottarla.

Ci credo decisamente.

Essere comunità educante

L’idea di scrivere questo articolo nasce all’inizio di questo caldo mese di luglio, quando ho avuto la fortuna di prendere parte ad un percorso di formazione di tre giorni, messo a punto dalla notissima nel nostro ambiente Silvia Iaccarino.

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E’ stata una formazione densa, carica di tanti significati, emozioni. Ho ritrovato amiche, donne che fanno il mio mestiere perché desiderano diffondere una nuova cultura pedagogica, fatta di sguardi in profondità, pensieri che circolano, apertura alla novità. Una formazione potente, che mi ha regalato tanta energia per affrontare le fatiche dell’educare e le nuove sfide che ho intenzione di affrontare. E che mi ha donato una bellezza tanto grande che non si può esprimere fino in fondo con le parole.

Prima della fine del percorso formativo ho scritto un biglietto che ho messo in una scatola…diceva…”è stato un momento di condivisione profonda, di circolo di idee e soprattutto emozioni…un momento in cui ho sentito la potenza di un gruppo coeso che ti sostiene e ti accompagna”…

Mi sono sentita parte di un gruppo…non una pedina su una scacchiera…una persona senza cui il gruppo non sarebbe potuto essere e senza cui non avrebbe potuto creare tutto ciò che è stato creato…Una nuova cultura pedagogica…una cultura in cui il bambino è al centro e l’adulto, in punta di piedi, appresta occasioni e osserva che accade.

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Nel corso di quel residenziale si è formata una vera comunità educante…persone, professioniste dell’educazione, pedagogiste, educatrici, che hanno dato il via a un cerchio in cui si è fatto esercizio di virtù’, di relazioni, di condivisioni che hanno assunto e assumono ogni giorno grande rilevanza educativa…E’ nata in quei tre giorni una reale comunità educante…una comunità che è stata ed è spazio di partecipazione, che continua ad abilitare all’esercizio di certi valori (soprattutto la centralità del bambino nelle nostre pratiche) e che si assume ogni santissimo giorno responsabilità ed iniziative educative. Una comunità che si nutre ora di interrelazioni, di scambi, di reciprocità. E che sta crescendo…si sta diffondendo nei nostri servizi per l’infanzia. Con mia grande, grandissima gioia.

E’ un grande onore, per me, essere parte di questa meravigliosa comunità educante, perché, io credo, nella problematica pedagogica contemporanea è di fondamentale importanza preoccuparsi della dimensione sociale del processo educativo. Tale preoccupazione nasce dal fatto che il soggetto dell’educazione (così come noi pedagogiste, noi educatrici) va visto nel contesto sociale in cui esiste, e, proprio per questo motivo, ha senso parlare di “comunità educante”. Ognuno di noi è inserito in una pluralità di comunità (i familiari, gli amici, il sistema di relazioni economiche, produttive, giuridiche…) entro cui sviluppa le proprie azioni e si disegna la propria identità; e la comunità, attraverso le interazioni dei suoi membri, assume una propria fisionomia e, a poco a poco, si pone in relazione con altre comunità e con la cornice che le rende possibili, vale e dire la società.

La società di oggi, ricca di sfaccettature, liquida, magmatica, richiede che nei processi educativi sia impegnata tutta la comunità…Per questo è fondamentale che noi professioniste dell’educazione assumiamo la postura di chi vuole operare nel mondo e con esso continuamente rinnovarsi, cercando di appropriarci della realtà “mettendo le mani in essa”, tutti insieme. La sfida di oggi è lavorare affinché educhiamo alla responsabilità, alla partecipazione, al dialogo, alla tolleranza.

Nei giorni del residenziale si percepiva chiaramente che tutte eravamo lì per costruire, tramite percorsi riflessivi, una progettazione partecipata dell’azione educativa. Ognuna di noi ha portato un pezzetto di sé, tasselli, mattoni, perché si possa trasformare i contesti educativi in cui lavoriamo in comunità educanti attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutti coloro che li attraversano. E questo a partire dalla comunità a cui abbiamo dato origine in quei giorni.
Tutti insieme è importante. Perché tutti insieme possiamo contribuire alla realizzazione degli obiettivi condivisi che ci diamo. E’ solo collaborando in senso partecipato che possiamo rivolgerci ai bambini e alle loro famiglie non solo come destinatari dei servizi, ma come protagonisti e attori attivi delle iniziative programmate e attivate.
E questo è di una potenza incredibile. E’ un ribaltamento di prospettive. Servizi portati aventi e costantemente migliorati da operatori che si confrontano con altri operatori e soprattutto da tutti coloro che li attraversano quotidianamente. Tutti.

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Educare è un verbo che ha radici latine: deriva da ex ducere = tirare fuori, rendere realizzabile (visibile) ciò che è possibile, ciò che è implicito in ogni persona, fin da bambino, la sua potenza, le sue potenzialità, il suo valore di persona, la sua dignità umana. Ma non basta. Educare è soprattutto un atto di reciprocità. Chi educa è anche educato e il suo sapere si gioca nell’atto dell’educazione. Educare non è solo formare. Educare è costruire insieme identità e futuro. Per questo il gruppo che abbiamo costituito in quei giorni, la nostra comunità educante, si è caricata di un ruolo molto importante verso chi frequenta i nostri servizi per l’infanzia: dobbiamo ora espandere i concetti e i valori che sono circolati tra di noi nel corso di quei tre giorni attraverso le nostre buone pratiche e il nostro lavoro. Abbiamo ora il dovere di mettere le conoscenze che sono circolate al servizio di fini costruttivi.

Abbiamo costituito una comunità educante che sta vivendo ed è in fermento; e come tale dobbiamo avere ben chiaro che una società plurale come quella in cui viviamo ha bisogno, come non mai prima di ora, di persone che sappiano assumersi responsabilità delle proprie opinioni e che sappiano accettare che le proprie opinioni possano cambiare nel confronto con quelle degli altri.

E, soprattutto, si è costituito un bel gruppo di colleghe che sono anche amiche. Un gruppo di amiche che hanno voglia di condividere pensieri ed esperienze, che hanno voglia di formarsi consapevoli che, per chi fa lavoro educativo e pedagogico, aggiornarsi è un dovere, oltreché un grande piacere. C’è un filo rosso che serpeggia, ormai, tra i nostri servizi, da Milano alla Toscana, passando per l’Emilia Romagna e le Marche…un fil rouge che ci unisce e ci rammenta la potenza del nostro incontro.

Concludo con una parte di una poesia scritta dalla cara collega Ilenia Schioppetti…ricordando a chi mi legge di guardare…anzi di “sguardare” con attenzione le persone a cui affidate i vostri bambini…

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“perdere il discorso.
tenere il filo.
che lega.
unisce.
protegge.
aiuta.
allunga.
di mano in mano.
storie.
scritte.
da un filo.
perdere il discorso.
tenere il filo.
che scrive.
storie.
di mano in mano.
e allunga.
aiuta.
protegge.
unisce.
lega.
rete.
di filo.
tenuto.
da un discorso perso.”