Come affrontare il “bambino tiranno”?

L’idea di scrivere questo articolo mi è venuta qualche giorno fa. È giunta durante un momento di relax, mentre stavo pensando a tutt’altro che a questioni di pedagogia ed educazione. Si trovano, però, sempre connessioni in ciò che si fa. C’è una struttura che connette ogni cosa, come sosteneva Gregory Bateson, autore che amo molto.

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Stavo leggendo un bel racconto di genere fantasy; ad un certo punto mi sono soffermata su questa frase: L’innocenza non include la pietà, riferita ai bambini che amano giocare con insetti e piccoli animali, staccando loro le zampe e le antenne, mutilandoli delle codine semplicemente per vedere ciò che succede.

Leggendo ho iniziato a riflettere su quanto spesso mi accade di ascoltare da certi genitori affaticati dalle continue richieste dei figli piccoli e, spesso, in difficoltà se è richiesto loro di essere autorevoli. Ogni famiglia con cui sono venuta in contatto nel corso degli anni, o quasi, annovera, infatti, almeno un caso di bambino che definiscono “viziato” e “capriccioso”, una sorta di piccolo principe, che si sente tale e che, almeno agli inizi, gli adulti trattano amorevolmente come tale. Ad un certo momento, però, questo principino mostra di volersi trasformare in un vero despota e comincia per i genitori e una strada che si può dire in salita.

Forte impulsività, scarso affetto per i genitori, poca empatia e motivazione, aggressività incontrollata, capacità di manipolare, insofferenza alle regole e al mancato soddisfacimento dei propri desideri: sono alcune delle caratteristiche di questi bambini, delle quali spesso i genitori si lamentano

Molti pediatri parlano di “sindrome”, “sindrome del bambino tiranno” o “sindrome del bambino imperatore”, che deriverebbe in parte da cause genetiche; studi recenti, però, rivelano che un ruolo importante è giocato dai fattori ambientali e familiari, tra cui una cultura materialista e consumistica, per cui si tende a fornire ai bambini risposte materiali (es ti dò il tablet se la smetti di urlare) e si dà meno spazio a tempo, condivisioni affettive, e un’educazione “approssimativa” e distante, che non accompagna e né sostiene.  I bambini “tiranni” appartengono quasi sempre a famiglie in cui i  genitori sono troppo permissivi o disinteressati ai propri figli oppure, al contrario, iperprotettivi, che, per rendere felice il proprio bambino o per evitare qualsiasi conflitto o problema, non sanno dire di no.

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In questi contesti, ad un certo punto la situazione sfugge di mano e il bambino comincia a sfidare i genitori e, visto che non incontra alcuna opposizione, inizia a sfidare anche il resto degli adulti che gli ruotano intorno. Sente così di avere l’autorità. E, infatti, riesce ad avere il coltello dalla parte del manico perché i genitori gli concedono privilegi smisurati o perché non riescono ad essere coerenti nel momento in cui stabiliscono le norme di comportamento o perché non riescono ad affrontare per tempo e in modo adeguato le prime esigenze e i capricci del bambino.

Come risultato, il piccolo non solo sviluppa un rapporto esigente con i propri genitori, ma pretende addirittura che questi ultimi siano sempre a sua disposizione. Quando non soddisfano i suoi desideri, si arrabbia e può arrivare a minacciarli, insultarli o, in casi estremi, aggredirli fisicamente.

Ci sono dei segnali che annunciano che il bambino sarà un “despota”, segnali che possiamo individuare fin dalla più tenera età: si pensi alle pretese sul cibo o sul riposo.
Questi bambini sono costantemente alla ricerca di piacere, non sviluppano il senso del dovere e non capiscono che a volte bisogna fare dei sacrifici per gli altri. Mostrano, inoltre, poca empatia. Hanno difficoltà a regolare sentimenti ed emozioni, tanto che quando non vengono soddisfatti i loro desideri provano una enorme frustrazione che spesso termina in uno sfogo emotivo. Si impongono sempre con la forza, utilizzando spesso tattiche sofisticate di manipolazione emotiva, dal momento che conoscono benissimo le debolezze dei loro genitori e non hanno scrupoli a utilizzarle a loro favore.

Fin tanto che questi bambini sono piccoli riescono ad avere in pugno i genitori e gli altri adulti di riferimento; con la crescita, però, aumenteranno problemi e difficoltà dal momento che non avranno sempre il mondo ai loro piedi, come accade fin tanto che sono piccoli con i genitori. Pertanto, l’egoismo, la scarsa tolleranza alla frustrazione e le scarse abilità sociali presentano loro un conto molto salato. I bambini coccolati e autoritari non saranno mai bambini felici, neppure da adulti.

E’, quindi, molto importante che i genitori imparino a riconoscere i ricatti morali e a fronteggiare le strategie della piccola “guerra” che il figlio tiranno combatte (e spesso vince) con loro e con i familiari, fino a soggiogarli completamente. Bisogna, quindi, aiutarlo a riconnettersi con la “realtà” senza sottrarlo alle frustrazioni ma educandolo al fatto che anch’esse fanno parte della vita. E’ necessario che i genitori si impadroniscano nuovamente del ruolo di educatori, anche con i conflitti che ciò comporta, non tanto imponendo autorità, ma offrendo ai figli la risorsa dell’autorevolezza.

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Sono molti, per l’esperienza che ho, i genitori che utilizzano una educazione passiva, preoccupandosi più di soddisfare i bisogni materiali dei loro figli piuttosto che trasmettere loro dei valori e delle buone norme di comportamento. Questo stile educativo, che trasforma i bambini nell’asse attorno al quale ruota tutta la famiglia, può dare origine a figli autoritari che non conoscono il rispetto e non sanno quale sia il loro ruolo nelle dinamiche famigliari.

Anche i cambiamenti sociali degli ultimi decenni hanno contribuito a far sì che vi siano sempre più bambini autoritari. Per esempio, la cultura del consumismo e del “tutto va bene” fa sì che alcuni genitori diano maggiore enfasi alle cose materiali. Inoltre, il fatto che le coppie abbiano dei figli in età sempre più avanzata trasforma il piccolo in un “bene prezioso” da coccolare, che non dovrà mai soffrire o essere disciplinato.

Noi pedagogisti possiamo, però, sostenere i genitori e aiutarli a trovare strategie per fronteggiare le difficoltà che possono sorgere quando ci si deve relazionare con bambini che potrebbero avere queste caratteristiche
Innanzi tutto è molto importante prestare attenzione ai primi segnali. Come regola generale, a quattro anni un bambino può già verbalizzare la sua rabbia e a cinque è in grado di controllarla. Se un bambino, giunto a questa età, è ancora aggressivo, fa “capricci” in pubblico e trasforma una giornata in famiglia in un calvario è probabile che stia sviluppando “la Sindrome dell’Imperatore”.

Per aiutare i genitori (e i familiari) a fronteggiarla, è fondamentale che li aiutiamo a comprendere l’importanza di stabilire dei limiti in casa. I limiti e le regole, anche se non è facile darne né accettarne, sono un bene per il bambino, in quanto lo aiutano a dare un ordine logico al suo mondo. Quando il bambino sa esattamente ciò che ci si aspetta da lui può regolare meglio il suo comportamento, sentirsi più sicuro e meno ansioso.
E’ importante, inoltre, che in famiglia si utilizzi uno stile educativo coerente. Entrambi i genitori devono accordarsi in merito a regole e limiti, perché se il bambino nota una discrepanza ne approfitterà. I genitori, necessariamente, devono parlare tra loro dell’educazione del bambino e facciano valere le regole con fermezza e amore.
Devono, poi, far sì che il bambino comprenda che significa mettersi al posto degli altri. Lo sviluppo dell’empatia è fondamentale, perché così i bambini possono capire come si sentono i genitori quando mancano loro di rispetto. Pertanto non ci si deve limitare a punire il bambino per il suo cattivo comportamento, ma lo si deve accompagnare perché possa riflettere su quanto ha fatto e sulle conseguenze, fin da quando è molto piccolo
I bambini imparano osservando i modelli, in primis i loro genitori. Pertanto è fondamentale che questi insegnino loro a gestire le emozioni in modo assertivo, soprattutto la frustrazione, offrendo degli strumenti che permettano di canalizzare queste emozioni negative, piuttosto che lasciare che le scarichino sugli adulti.
Educare un bambino non significa fargli imparare qualcosa che non sapeva, ma trasformarlo in una persona che non esisteva.

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I genitori, prima di avere un figlio, hanno costruito dentro di se un’immagine di “figlio ideale”, il figlio sognato che, abitualmente, ha delle caratteristiche che rispondono alle loro aspettative (e ai loro bisogni). Nel momento in cui un figlio arriva, però, non corrisponde mai a quel figlio desiderato e immaginato. Per questo deve necessariamente attivarsi un processo d’integrazione tra l’ideale e il reale, tra quello che “avrei voluto che tu fossi e quello che sei”. Un processo che dovrebbe portare ben presto a dimenticare quel figlio desiderato, e a focalizzarsi sul bimbo reale per amarlo per quello che è.
Parallelamente, nel momento in cui s’immagina di diventare genitori, si ha dentro di sé una rappresentazione di madre o padre ideali. Immagini costruite a partire dalla propria esperienza (Io sarò come mia madre, che è stata così presente…io non sarò mai come mia madre così ansiosa e apprensiva!…). Rappresentazione frutto dell’integrazione di diverse esperienze di cura, ma anche immagine idealizzata, non reale. Anche per questo genitore sognato deve avvenire un processo d’integrazione: nel momento in cui dobbiamo confrontarci con un figlio in carne ed ossa, che piange, non dorme, non mangia, che è troppo calmo o troppo agitato…ebbene, dobbiamo confrontarci con il genitore che riusciamo a essere con le nostre risorse, ma anche i nostri tanti e inevitabili limiti. Anche in questo caso il processo d’integrazione è fondamentale, altrimenti il rischio è quello di continuare a chiedere a se stessi, e al bambino, di non farci sentire così diversi da quello che pensavamo saremmo stati come genitori.
Infine, ci sono le aspettative nei confronti di un mondo esterno (nonni, amici, scuole…) che, prima di avere un figlio, si immagina accogliente, sempre capace di capire i bisogni miei e dei miei figli, ma, invece, nella realtà diviene talvolta assente e, spesso, giudicante. Allora i nonni, la scuola, gli amici, possono non essere più quelli che c’eravamo immaginati, e anche questo può portare il genitore a essere troppo preoccupato per quello che gli altri potrebbero pensare di lui e a chiedere al figlio che non faccia fare loro “brutta figura”…

I genitori dovrebbero vivere dunque sempre una sorta di disillusione positiva, passando dalla genitorialità ideale a quella reale.
Uno dei passaggi più difficili è quello di accettare la fatica che comporta dare regole e far vivere ai propri figli frustrazioni necessarie a cui essi si oppongono.
I bambini, infatti, per loro natura, non amano sentirsi dire no, non accettano quasi mai di buon grado di essere limitati nei loro desideri e impulsi, dunque di frequente si oppongono, anche con forza e prepotenza, alle indicazioni dei genitori, che, quindi, si possono sentire frustrati e impotenti.

Questi sentimenti possono accentuarsi ulteriormente quando un genitore cerca di mettersi nei panni di proprio figlio. Naturalmente il fatto di entrare in empatia con il proprio bambino, comprendere i suoi sentimenti, non può essere giudicato come un limite. E’, infatti, fondamentale sintonizzarsi con il proprio figlio, ma questo non può essere ciò che impedisce al genitore di perseverare in una posizione di fermezza e coerenza.
Proviamo a fare un esempio:
Paolo ha chiesto insistentemente ai suoi genitori di poter salire sulla giostra, quando l’accordo iniziale era: “oggi andiamo al parco, ma non possiamo andare sulla giostra”. Una volta arrivati al parco è naturale che un bambino, in particolare se piccolo, appena vede la giostra voglia andarci. Potrebbe anche apparire veramente disperato.
Se ci siamo andati ieri, perché oggi no. Domani magari piove e quindi non potremo andarci. C’è il mio amico che lo fa. I soldi so che li hai nel borsellino. Voglio andarci punto e basta! Non mi vuoi bene, perché se mi volessi bene mi faresti andare sulle giostre…
E’ evidente che Paolo sente una forte frustrazione.
Nel momento in cui un genitore si sintonizza con questo sentimento, può avere dei dubbi. Ma in fondo perché no? Domani potrebbe veramente piovere. Perché devo farlo stare così male se i soldi non mi mancano? Perché mai gli ho detto che oggi non si andava sulle giostre? Perché sono venuto al parco? Forse veramente pensa che non lo amo…

Sentire il dolore del proprio figlio, può far vacillare. Ciò che invece può aiutare a mantenere la propria posizione di coerenza sta proprio nella nostra capacità di andare oltre e riconoscere quali sono i bisogni più profondi di nostro figlio, che lui stesso non conosce, ma che noi sappiamo bene.
Un bambino ha bisogno di capire che ci sono dei limiti e di sperimentare la frustrazione. Ha bisogno di imparare a divertirsi al parco in un modo diverso. Ha bisogno di capire che non succederà nulla e che questo è un messaggio d’amore. Ha bisogno di fidarsi di noi imparando che noi sappiamo veramente che cosa è meglio per lui…
La consapevolezza profonda, dunque, del suo bisogno di avere qualcuno che lo contiene e gli consente di fare quello che è meglio per lui dovrebbe muovere le scelte degli adulti. Inoltre se in un primo momento fare ciò che i bambini “comandano” può fare stare bene rispetto al proprio bisogno di sentirsi “buoni” non dando mai frustrazioni ai propri figli, nel tempo renderà i bambini incapaci di affrontare la vita con la forza che è necessaria.

Affrontare il tema della morte con i bambini

Non mi risulta facile scrivere questo articolo perché credo che sia  straziante dover spiegare ad un bambino che una persona a lui cara non c’è più…crea disagio, fa paura. A me in primis.

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La morte e la sua scoperta, però, sono una tappa dello sviluppo dei bambini e vanno affrontate perché essi possano vivere la vita in modo sano; può morire un animale che è loro molto caro, può appassire una pianta, possono vedere un cartone animato in cui muore qualcuno…la morte è presente nella vita dei bambini, non possiamo negarlo e nemmeno nasconderlo.

A tutti i genitori, così come a tutti gli educatori è accaduto, almeno una volta nella vita, di sentirsi chiedere da un bambino: “E’ morto e vuol dire che non lo vedrò più? Sarà per sempre così? Tornerà, vero?”. E’ una domanda che spiazza. Ma non possiamo mentire. In nessun modo.
I bambini hanno le risorse per affrontare la morte ed accettarla; siamo noi adulti che temiamo che, di fronte a un evento tanto doloroso, restino traumatizzati, cadano in uno stato di depressione. E, di conseguenza, cerchiamo, fin quando è possibile, di non affrontare l’argomento…”Il nonno si è addormentato”…”Il nonno ora si trova in un posto bellissimo ma tornerà a trovarti tutte le volte che vorrai”…sono frasi che è facile sentire pronunciare in occasione di un lutto.

Il miglior modo per superare un’esperienza di morte, però, è parlarne, rispondere alle domande, farne, raccontare quello che fa paura, piangere per poi ripartire forti.

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E’ molto importante aiutare i bambini a comunicare e ad elaborare le emozioni che una perdita può provocare. I bambini piccoli credono che una persona a cui hanno voluto bene, anche se è morta, possa vederli, sentirli, annusarli, che si muova; è difficile per loro pensare che una persona cara che è morta non esista più, non si possa toccare, vedere, non abbia più un cervello con cui pensarli. E’ un tipo di consapevolezza che può dare molto dolore. I bambini piccoli rimangono spesso affascinati se vedono il corpo morto di un insetto, di una lucertola…può essere, allora, l’occasione per spiegare loro il concetto di corpo che non funziona più e quello di morte. Un’occasione lieve ma che può aiutare noi adulti più di quanto immaginiamo.

Proteggere un bambino dalla verità che un nonno o un genitore sta morendo significa di privarlo del poco tempo che gli rimane per separarsi da lui, per dirgli tutto ciò che, a modo suo, ha bisogno di dire. Questi ultimi scambi sono fondamentali per facilitare il successivo processo di elaborazione del lutto e restano tra i ricordi del bambino, come un tesoro. Richiamare alla memoria quelle ultime conversazioni piene di amore attiverà in lui il rilascio di oppiacei nel cervello, come quando il genitore era ancora con lui.

Succede spesso che i bambini parlino della possibilità di ricongiungersi alla persona scomparsa…Non è raro sentire un bambino che ha perso un genitore dire: “Vorrei morire, per poter stare con il mio papà…”. Il fatto che un bambino possa desiderare di morire per ricongiungersi al genitore che non c’è più può risultare scioccante per noi adulti, ma è importante non dimenticare che questa è solo una fantasia e non corrisponde a un pericolo reale (ad esempio che il bambino si uccida)…E’ bene, sempre e comunque, lasciare che il bambino verbalizzi quello che sente in un momento tanto tragico.
E’ inutile pensare di doverlo proteggere in ogni modo dal dolore; se l’altro genitore ha bisogno di esprimerlo questo dolore, lo faccia! Perché se lo cela, è facile che il bambino lo percepisca comunque e pensi che non vi sia spazio per il proprio dolore; il genitore deve permettersi di parlare del dolore, del proprio dolore, perché così facendo si mostra abbastanza forte da poter affrontare il tema della morte e, quindi, abbastanza forte da poter proteggere il bambino. Se il gioco si capovolge e il genitore cerca di proteggere il bambino non parlandogli della persona che è morta, in realtà sta solo proteggendo se stesso. Parlare della perdita non è mai fonte di inibizione del processo di elaborazione del lutto da parte del bambino, né costituisce un freno.

Intendiamoci…non è un problema che un genitore si senta a disagio, anche intenso, davanti alla sofferenza del suo bambino…è solo che preferirebbe non provarlo. Se, però, non si accettano le emozioni che una perdita può creare in un bambino e facciamo finta che vada comunque tutto bene, finiamo per non ascoltarlo, finiamo per non comprendere queste emozioni e può accadere che per farlo si senta sbagliato. Se il bambino è inibito nella sue emozioni, se non le sente come autorizzate e legittime, la conseguenza è che lui stesso imparerà a inibirle, a colpevolizzarsi per quello che prova, a sforzarsi di sostituire le emozioni autentiche con quelle autorizzate.

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I bambini, quando scoprono la morte, un po’ ne sono incuriositi e un po’ ne sono spaventati. Gli adulti, spesso, hanno l’illusione che non capiscano o che, se evitano di parlarne, non si pongano certe domande a cui, poi, è molto difficile rispondere. I bambini, come hanno dimostrato gli studi di J. Bowlby sulle reazioni alla perdita, soffrono e vivono il lutto in modo non molto diverso dagli adulti, anche se cambia la manifestazione esterna della sofferenza. Questa illusione è alimentata da fatto che i bambini piccoli non hanno le capacità cognitive per cogliere concetti complessi come la non reversibilità; inoltre i bambini, spesso, in caso di morte di una persona cara non piangono né parlano e questo può far pensare al fatto che non soffrano; in realtà, molto più semplicemente, elaborano il lutto in maniera diversa. Hanno bisogno di concretizzare concetti come l’irreversibilità ed è facile che accada che solo quando non vedranno la persona scomparsa non presentarsi ad appuntamenti importanti (come per esempio il loro compleanno) capiscano che non tornerà mai più.

La soluzione, però, non è non parlare della morte. Perché non è un modo per proteggere i bambini. Se non si parla loro della morte, li si costringe a farsi da soli un’idea su questo tema. Non rispondere alle domande sulla morte, vuol dire lasciare spazio all’immaginazione dei bambini e, quindi, anche alle paure più terribili. Può crearsi, così, un “effetto nuvola nera” (c’è qualcosa di talmente brutto che non si può sapere esattamente di cosa si tratta). E’ importante rispondere con sincerità a tutte le domande che fanno e parlare in maniera chiara e non evasiva, senza usare concetti che li possano confondere, come “è andato via”o “è partito”, dal momento che faticano a capire l’irreversibilità, cioè cosa significa che chi è morto non tornerà più.

Può essere d’aiuto far percepire che il rapporto con la persona morta continua in qualche forma, perché può rendere la separazione meno drammatica e più comprensibile per un bambino che non riesce a rappresentarsi il concetto di irreversibilità. Possono essere di aiuto le storie e le favole, anche inventate ad hoc. Si può dire, per esempio, che il genitore scomparso vive piccolo piccolo nel cuore del bambino e che gli dà un bacio tutte le notti mentre dorme; questo po’ essere un modo per dirgli che il genitore che non c’è più in qualche modo rimane con lui e, quindi, facilitare l’accettazione della morte. Anche portare il bambino al cimitero può aiutare a spiegare e a dare continuità al rapporto.

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Termino citando un libro tenero…delicato…che a volte può essere di aiuto…
E’ un libro di Roberto Parmeggiani, dal titolo “La nonna addormentata”, in cui l’autore ci conduce con incredibile tatto attraverso i suoi ricordi di bambino, raccontandoci la lenta scomparsa di sua nonna. Addormentata a lungo per via di una malattia, un bel giorno la nonna viene svegliata dal bacio di un principe che la porta via con sé. Tornerà ad essere spensierata e felice e a fare tutte quelle cose che le piacevano tanto e che per lungo tempo non aveva più potuto compiere.
E’ presente la metafora del viaggio, ma resta tale e non si trasforma in bugia, perché al lettore bambino è molto chiaro il concetto di distacco materiale dall’amata nonna, senza che si senta da lei abbandonato o trascurato. Il protagonista della storia, infatti, è molto lieto che la sua nonna non sia più costretta a stare a letto per tutto il tempo e possa invece godersi nuovamente la felicità. E la circostanza di averla salutata ogni giorno per settimane lo rassicura sulla persistenza del rapporto affettivo tra loro nonostante la lontananza.
Leggetelo insieme al vostro bambino se siete nella circostanza di dover parlare con lui della morte di un nonno…Vi aiuterà.