Quando la scuola è davvero “buona scuola”

E’ difficile oggi dar forma alle parole. Si affollano nella testa, son lì da giorni ma non riesco a fissarle sul foglio come vorrei. Perché devo raccontare di mio figlio Francesco, del suo difficile percorso a scuola. Percorso difficile per lui e per me, benchè mi intenda di processi di apprendimento e conosca infinite strategie per tirar fuori le risorse ai ragazzini che vivono la scuola con più fatica degli altri.

Francesco ha un deficit attentivo grave e, forse, uno o più disturbi dell’apprendimento…Ha sempre avuto difficoltà di lettura, scrittura e calcolo. Oltrechè a star seduto al banco. Se avesse frequentato la scuola negli anni Ottanta come me, sarebbe di certo stato etichettato come un “fannullone” e confesso che, nei momenti più complicati, ho pensato anche io che fosse svogliato e per nulla interessato alle cose di scuola. E casco in questo pensiero ancora oggi quando lui, per difendersi e per togliersi di dosso un po’ della sua fatica, decide di non andare a lezione. Anzi…non ce la fa. E’ successo tante mattine che si sia lavato e vestito e che sia uscito per poi rientrare in casa affranto dicendo “mamma, non ce la faccio…è come se qualcuno mi stringesse il collo e non passa l’aria per respirare…e non riesco a muovere un passo…lasciami entrare in casa”. E in quelle circostanze, da madre, non riesci che ad accogliere tuo figlio e il macigno che lo schiaccia, senza nemmeno provare a capire che cosa sta succedendo.

Quando Francesco ha iniziato la prima media, consapevole delle sue fatiche, abbiamo subito pensato che fosse necessario far rete con la scuola.

Ogni ragazzino che vive l’esperienza scolastica con bisogni, comuni o speciali, ha il diritto di vivere le risorse della comunità fatta di alunni, famiglie, docenti, educatori e collaboratori che a vario titolo sono presenze educative all’interno della scuola. Quest’ultima poi è inserita in strutture più ampie e il dirigente scolastico ha il compito di relazionarsi con le strutture del territorio per fare della scuola un ambiente aperto e che possa beneficiare delle risorse locali. Dentro e intorno alla scuola esiste un fitto mondo di relazioni alle quali i ragazzi sono connessi e che possono rimanere uno sfondo inerte o diventare preziose per una scuola aperta, ricca, vitale che sa gestire le differenze chiedendo aiuto, collaborazione e professionalità ai suoi diversi interlocutori. La scuola che hanno frequentato Francesco e le sue sorelle, l’istituto comprensivo Europa Unita di Arese (MI) è una scuola così…aperta, ricca, vitale e che sa gestire le differenze.

Ed è una scuola che è riuscita a mettere a punto per lui una didattica universale, plurale, accessibile, capace di valorizzare le differenze e i suoi punti di forza. I docenti hanno lavorato giorno dopo giorno per garantirgli la massima adattabilità nel gruppo classe e per garantirgli possibilità di espressione e molteplici mezzi di coinvolgimento (interattività, collaborazione in gruppo, tutoring, auto-apprendimento…tra le altre cose). Tutto ciò per favorire la motivazione ad apprendere, senza cui è complicatissimo far crescere i ragazzi a scuola e con la scuola. 

Nonostante ciò, nonostante la grandissima professionalità dei docenti e il loro continuo cercare di tenere Francesco “agganciato”, la frequenza è stata assai discontinua. Molti sono stati i giorni di assenza, tanto che, fino all’ultimo, abbiamo temuto che non venisse ammesso agli esami di terza media.

Da educatrice e pedagogista, ho lavorato per qualche tempo con la tutela minori e ho incontrato, ahimè, insegnanti che mancavano di sensibilità e peccavano di presunzione. Ho seguito un bambino con una famiglia tanto conflittuale e priva di strumenti che ha dovuto vivere l’esperienza della comunità e che aveva difficoltà a leggere e scrivere (oltrechè, come prevedibile, comportamentali); è stato ‘bollato’ come svogliato, pigro, distratto, oltrechè inadeguato. Ed è stato “fermato” in prima media. Per esempio.

Non sempre gli insegnanti si mettono in ascolto e sono disposti a cecare le cause vere che determinano certe problematiche. E così è facile che i ragazzi si perdano. Che, a seguito di una bocciatura, escano dalla scuola senza tornarci mai più, come il ragazzo di cui parlo sopra. La bocciatura favorisce la dispersione, anche nei ragazzi che sono in età di scuola dell’obbligo.

I ragazzini che hanno dei bisogni non sono stupidi, anzi. Hanno solo bisogno di essere incoraggiati, seguiti, stimolati e gratificati. Devono sapere che possono farcela. E hanno il diritto di essere ascoltati.

E i docenti di Francesco si sono messi in ascolto. Hanno messo in atto tutte le strategie possibili per tenerlo agganciato alla scuola, comprendendo che era possibile, al di là di qualsiasi diagnosi proveniente dalla neuropsichiatria infantile, mettere a punto un percorso personalizzato pur in un contesto di gruppo.

Hanno sospeso verifiche e interrogazioni per un periodo per abbassare il suo livello d’ansia e cercare di tenerlo in classe, l’insegnante di sostegno ha creato un gruppo di studio pomeridiano ad hoc, tutti i professori hanno lavorato con i ragazzi affinchè i compagni spesso lo spronassero a frequentare e ad impegnarsi…addirittura lo sono venuti a prendere a casa per essere sicuri che tornasse in classe.

La scuola non è sempre così. Ma questa scuola, l’istituto Europa Unita di Arese, con i suoi docenti e la sua dirigente, ha mostrato che la “buona scuola” può esistere. Al di là dei piani di offerta formativa, al di là degli obiettivi da centrare e dei programmi da terminare ad ogni costo. Può esistere una scuola dove si lavora a servizio dei ragazzi, dove non ci si limita a trasmettere contenuti ma si mettono in luce i punti di forza e si valorizzano le persone, ognuna per quello che dà alla comunità.

“Se si perde loro, i ragazzi difficili, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati” scriveva Don Milani, il cui motto era “I care”, cioè “mi importa”. E come moderni Don Milani, i docenti di Francesco si sono preoccupati delle esigenze di ogni studente e di aiutare ciascuno tramite il dialogo, perché potessero avere tutti gli strumenti di apprendimento, assieme a una presa di coscienza generale sulla propria posizione nel mondo.

E da madre di un ragazzino in un certo modo “difficile” sono molto grata a tutti loro. So bene che “è dovere”, che la deontologia professionale richiede che si lavori per far sì che chi è più in difficoltà possa tagliare il traguardo insieme a tutti i compagni, ma può capitare che ci si interessi più al risultato finale che alla strada per arrivarci. E, allora, si lascia indietro chi è più lento, chi ha bisogno di incoraggiamento continuo. Scegliendo in questo modo la via più agevole, soprattutto in contesti dove accade spesso che il proprio lavoro non sia valorizzato e (diciamolo) gli stipendi sono tanto bassi da far passare qualsiasi fantasia.

Sono grata agli insegnati di Francesco. E sono grata alla dirigente dell’istituto comprensivo Europa Unita di Arese. Sono grata perché sono stati accoglienti e disponibili a far rete con noi famiglia e con le agenzie territoriali a cui ci siamo rivolti a causa delle difficoltà di nostro figlio. Sono grata perché hanno lavorato dal primo all’ultimo secondo per non perdere chi era in difficoltà, nonostante i muri che, spesso, i ragazzi sono capaci di costruire. Sono grata perchè hanno dato a Francesco la possibilità di continuare il percorso scolastico aiutandolo nella costruzione del suo futuro (che al di là di ogni risultato scolastico, è ciò che realmente mi interessa).

A volte, nella vita, è questione di fortuna. E sì…Francesco è stato molto fortunato ad avere i professori della sezione E della scuola media Leonardo da Vinci di Arese. 

Grazie alla dirigente Dott.sa Maria Teresa Tiana e ai professori Enzo Tandoi, Elena Radice, Cristina Caccia, Serena Bottega, Bruna Parisi, Laura Sacco, Elena Airaghi, Luciana Mantovani, Agostino Barbieri e Don Danilo Bononi.

L’Outdoor Education non si può improvvisare

Di questi tempi si parla tanto di Outdoor Education, pensando al fatto che, quando i servizi educativi riapriranno, sarà consigliabile restare il più possibile all’aperto per ridurre i rischi di contagio.

L’educazione all’aperto, però, è qualcosa di complesso; non è educare fuori nello stesso modo in cui si educa dentro. E, come tutto ciò che si connota come educativo, non va lasciata all’improvvisazione.
Essa è una strategia educativa, vasta e versatile, basata sulla pedagogia attiva e sull’apprendimento esperienziale; può essere utilizzata in molteplici itinerari educativi idonei ad approfondire, ampliare, dettagliare quanto viene svolto al chiuso. Non sostituisce, però, il sistema educativo più tradizionale, piuttosto lo affianca, lo completa con esperienze che l’ambiente chiuso non può offrire.

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Uscire all’aperto, però, non significa riproporre fuori quanto si fa dentro, bensì utilizzare quanto l’ambiente e la natura mettono a disposizione per ulteriori apprendimenti, caratterizzati dai fenomeni che, in modo del tutto naturale, si realizzano all’aperto e non al chiuso: la pioggia, la neve, il vento, la terra, il fango, le piante nelle varie stagioni, gli animali che si annidano tra la vegetazione o sulla terra o sotto terra…

Se l’uscire è parte del progetto pensato per quel gruppo di bambini, allora parliamo di Outdoor Education. Se, invece, è trascorrere del tempo all’aperto con i bambini quando c’è il sole, fa caldo,… allora parliamo di momenti ricreativi.
Il fuori diviene ambiente educativo se uscire non è casuale o limitato alla situazione di bel tempo, ma è cosa di tutti i giorni perché parte dell’esperienza educativa, connesso a quanto si fa all’interno, inserito nella progettazione e nella routine giornaliera.

Il carattere distintivo dell’Outdoor Education si configura in un approccio sensoriale-esperienziale mirato allo sviluppo del bambino (ma anche del ragazzo, dell’adulto…) e al suo apprendimento, all’interno di un contesto di relazioni che caratterizzano la sua vita sociale. In questo modo l’ambiente esterno assume la valenza di un contesto educante che, oltre ad essere un luogo in cui si apprende, offre l’opportunità di rafforzare il senso di rispetto per l’ambiente naturale e consente di esprimere e potenziare le competenze emotivo affettive, sociali, espressive, creative e senso-motorie.

L’Outdoor Education funziona tutte le volte che sviluppa la curiosità e l’esplorazione del bambino, che lo fa essere attivo lungo linee di “ricerca” appena suggerite dall’adulto. È l’avventura formativa il clima che anima l’Outdoor Education, che non vuol dire improvvisazione, ma predisposizione minima di ciò che è indispensabile, lasciando poi alla libertà esplorativa la ricerca di soluzione dei problemi.
L’Outdoor Education richiede una programmazione debole, un tempo lungo per dare ai bambini la possibilità di muoversi, osservare, esplorare. La migliore verifica didattica è sulle domande che i bambini pongono e sulle risposte che essi stessi elaborano nel confronto reciproco, didatticamente provocati dall’insegnante.

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Perchè scegliere questo approccio?
I boschi, i giardini, i campi, dal punto di vista pedagogico rappresentano vere e proprie risorse per un’educazione efficace, dal momento che stimolano la creatività, il rispetto per l’ambiente e un’interazione attiva ricca di stimoli; nel fuori vengono potenziate maggiormente le abilità senso-motorie, la cooperazione e la collaborazione tra pari e le relazioni intra-generazionali; in un ambiente non statico e aperto, inoltre, crescono le opportunità di esplorare e sperimentare. Sono motivazioni decisamente forti. A ciò si aggiunge che oggi, in un momento in cui si cerca di comprendere come far ripartire i servizi educativi in sicurezza, è molto chiaro che se ci chiudiamo in casa, stiamo in locali piccoli e affollati, in città sempre più inquinate, abbiamo più probabilità di essere contagiati.

Quando ci si accosta all’Outdoor Education, in primo luogo, è necessario che l’adulto sia convinto di stare bene nell’ambiente esterno. Se ciò non accade, può diventare molto complesso proporre ai bambini esperienze significative per il loro apprendimento nel fuori. La vita all’aria aperta richiede, poi, all’adulto un atteggiamento osservativo che sostiene le esplorazioni del bambino anziché predeterminarle.
Si può iniziare, pertanto, dando valore ai materiali naturali, informali, che diventano strumento di gioco particolarmente facilitante arricchendo l’esplorazione individuale e di gruppo. Materiali naturali che devono iniziare a trovare collocazione anche negli ambienti all’interno del servizio educativo.
Essere attenti osservatori significa cogliere e accogliere i gesti, gli sguardi, le parole e i racconti dei bambini, le loro intenzionalità ed interessi. Allo stesso tempo significa percepire anche quello che come adulti si sente e si pensa rispetto a se stessi, a ciò che si agisce nella relazione con i bambini e la natura, ascoltando se si è (o non si è) in sintonia emotiva con essa.

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In secondo luogo è necessario conoscere l’ambiente esterno in cui i bambini faranno le loro esperienze educative. Sia che si tratti del giardino del nido, sia che si tratti di una zona verde della propria città. Si deve procedere a una vera e propria indagine, per cui si può utilizzare una mappa cartacea, uno strumento sul quale registrare le conoscenze, le osservazioni e le aspettative relative al giardino/parco urbano, considerato come un insieme di pratiche e di relazioni.
La mappa mette in rilievo elementi naturalitici/strutturali, elementi specifici di pregio/risorsa o elementi di criticità: alberi, erbe, animaletti, tipi di terra; angoli e centri d’interesse: aiuole aroma che, angolo dello scavo, siepi e tane, ceppi di legno, alberi per arrampicarsi, luoghi dove è facile trovare animaletti e insetti, cumuli di foglie, erba più alta…; entrate, uscite, cancelli, recinzioni, punti eventuali di rischio, angoli ciechi…; strutture e giochi da esterno; modificazioni nel corso della giornata in relazione alla rotazione solare e alle stagioni: zone d’ombra per il pranzo, zone per il riposo estivo, zone di sole per piccoli orti , zone più umide perché ombrose o polverose in estate…; presenza di zone umide e di acqua. Tra le altre cose.

Una volta “disegnata” la mappa del proprio spazio esterno, è bene che individualmente gli adulti inizino ad osservare quello che qui accade. Si può osservare da tanti punti di vista: quali sono i punti potenzialmente pericolosi e che richiedono una vicina sorveglianza dell’adulto; quali sono le zone del giardino che trasmettono sicurezza e insicurezza all’adulto rispetto al fare dei bambini; quali sono i punti del giardino in cui i bambini non possono andare; quali sono i punti del giardino in cui i bambini possono stare senza l’adulto vicino; quali sono le potenzialità del giardino a sostegno dell’esplorazione e del gioco; quali sono le zone in cui i bambini si soffermano maggiormente e quali giochi fanno o utilizzano prevalentemente. Questi possono essere alcuni spunti.

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E poi si può iniziare a organizzare gli spazi, i materiali e i luoghi dove stare con i bambini per poter lasciare loro la necessaria libertà di movimento, di scelta e di autonomia, mantenendo invece per gli adulti un ruolo di supporto, sostegno e accompagnamento.
Aprire la porta al possibile non significa arrivare all’anarchia e permettere che in giardino accada qualsiasi cosa, ma significa ritrovare e ritarare ogni volta la giusta distanza nella relazione educativa, a seconda della composizione del gruppo dei bambini, del periodo dell’anno in cui ci si trova, delle età, del luogo in cui si è, delle dinamiche relazionali instaurate, del grado di conoscenza delle competenze dei bambini, del patto di fiducia con le famiglie.

La costruzione di tale patto deve essere frutto di un consapevole lavoro di gruppo e passare attraverso una comunicazione coerente con le scelte fatte.
Si deve passare, per questo, attraverso una serie di step:
condividere nel gruppo di lavoro su cosa si basa il patto educativo;
definire come e quando condividere la progettazione educativa con le famiglie;
definire come si intende coinvolgerle: soltanto da un punto di vista comunicativo e informativo (ovvero il progetto inizierà̀ da…, si svolgerà̀ secondo questi obiettivi…) oppure con modalità̀ di partecipazione più attive;
conoscere che cosa pensano le famiglie dell’educazione in natura e quali informazioni hanno in merito.

Quando alla fine dell’emergenza i servizi educativi potranno ripartire è possibile che molti sperimentino, in una situazione che verosimilmente sarà nuova per tutti, percorsi di Outdoor Education. Anche servizi che non vi si erano approcciati in precedenza o lo avevano fatto in maniera assolutamente marginale al progetto educativo.
Ed è possibile che, da parte di molti genitori, ci siano delle resistenze, soprattutto dopo un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo.
A parole sembra tutto bello e facile quando si sta all’aperto con i bambini, ma, invece, le resistenze sono tante. Soprattutto quando l’approccio è nuovo e poco conosciuto. E ai dubbi e alle perplessità dei genitori si aggiungono quelli
che attanagliano anche noi educatori: “e se i bambini prendono troppo freddo? Oggi è troppo umido che rischiamo di farli ammalare…,hanno già tutti il raffreddore….”.
Le resistenze possono essere legate al fatto che purtroppo tendiamo ad aver uno stile di vita estremamente casalingo e si tende a proteggere i bambini da tutto, tanto che, a volte, un ginocchio sbucciato può diventare una tragedia.
Compito dell’educazione è, però, aiutare il bambino a saper riconoscere e gestire le situazioni di rischio e di pericolo. Crescere significa costruire valore di sé incontrando i propri limiti e cercando di superarli. Il bambino ricerca il rischio come opportunità di mettersi alla prova, confrontandosi e imparando a gestire paure, pericoli e rischi inventandosi e sperimentando strategie e soluzioni adatte.

Siamo, del resto, nati per vivere all’aria aperta e una vita passata il più possibile fuori consente di crescere meglio e di essere più sicuri e intraprendenti.
Il gioco in un ambiente esterno è molto più variato rispetto a quello svolto in un ambiente strutturato, è una realtà quotidiana piena di sorprese, esplorazioni, osservazioni continue e sempre differenti.
E poi ci sono tutti i benefici sulla salute che derivano dal vivere all’aperto facendo passeggiate e “temprandosi” alle variazioni climatiche: i bambini corrono meno rischi di contagiarsi stando all’aperto che non nei luoghi chiusi.

Io credo che le resistenze, tutte quelle che ci saranno, dovranno essere accolte, ma ci si dovrà concentrare, insieme, educatori e famiglie, sui benefici di questo approccio. E sarà importante che il gruppo di lavoro sostenga con i genitori le argomentazioni che trattano i benefici delle esperienze in natura presentando le motivazioni alla base della progettazione del servizio e sostenendo le competenze genitoriali nella direzione di uno stile educativo aperto al possibile e al ripensarsi nell’ambiente esterno.

L’educazione in natura è l’occasione per condividere, problematizzare e riflettere con le famiglie, sugli stili educativi e sul rapporto con la natura. La comunicazione con le famiglie non si può̀ improvvisare.

 

Lettera alle famiglie…tentiamo di salvare i servizi

Cara mamma, caro papà,

forse ci conosciamo, forse no…nel dubbio, mi presento…
Mi chiamo Marta, sono una pedagogista e un’educatrice…Lavoro in un nido comunale, Il “Girotondo” di Bresso, vicino a Milano. In questo periodo, come tutte le colleghe educatrici, sono a casa perché il governo ha stabilito la chiusura di tutti i nostri servizi.
Non sono in vacanza, però. Come non lo è nessuna delle mie colleghe. Ognuna di noi, in modo più o meno visibile, sta cercando di portare avanti del lavoro. Si fa progettazione, si seguono corsi di formazione, webinar, si leggono e rileggono libri di pedagogia che ci torneranno utili al rientro, si pensa alla riaccoglienza dei vostri bambini. Personalmente, faccio riunioni di equipe con le colleghe, seguo dei corsi di aggiornamento e formazione e preparo io stessa dei corsi di formazione che poi erogo. Non mi annoio di sicuro. Benché senta terribilmente la mancanza dei bambini, delle loro voci, del “mio” nido, insomma.

Non ti scrivo, però, per parlarti di me. Sono altre le cose che voglio dirti.

Se il tuo bambino sta frequentando un servizio privato, un nido o una scuola dell’infanzia, probabilmente ora ti stai domandando perchè il gestore ti chiede il pagamento della retta benché non abbiate usufruito del servizio.
Sono tanti soldi, in fondo! Come minimo 400 euro.
Lo so bene…Ho tre figli che hanno frequentato il nido e fino allo scorso anno io stessa gestivo un nido privato…So perfettamente a quanto ammontano le rette dei servizi per l’infanzia privati.
Hai il sacrosanto diritto di protestare. Quei soldi, probabilmente, ti fanno comodo. E perché pagare un servizio di cui non si è usufruito? Tanto più che le strutture pubbliche hanno sospeso i pagamenti delle rette. Perchè mai ci deve essere questa disparità?

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Hai ragione, cara mamma. Hai ragione a dire che la retta non va pagata. Lo dice anche il Codacons. Lo dicono gli avvocati. L’hanno detto anche a Striscia la notizia!

Vado indietro nel tempo…a un anno fa. A quando ero io a gestire un nido. Se il Coronavirus fosse arrivato allora ti avrei chiesto anche io, in qualità di gestore, di pagare la retta.
Non tutta. No. Non tutta. Forse avrei calcolato i costi del personale, delle utenze, di quanto non si può lasciare indietro (magari un piccolo mutuo), del canone di affitto. Avrei lasciato perdere il mio stipendio…il rischio di impresa c’è e se ne deve tenere conto…per fortuna mio marito lavora e proprio senza ossigeno non siamo…ma non puoi aspettarti che per tutti sia così. I titolari dei servizi privati lavorano in media 10/12 ore al giorno (tanto…tranquilli…i sindacati non si interessano dei padroni) ed è molto frustrante non avere un corrispettivo economico per tanto lavoro…ma qui si tratta di un’emergenza…se serve a salvare il servizio, del mio stipendio faccio a meno fino a emergenza finita.

Fatti i debiti calcoli, se tutto questo fosse accaduto un anno fa, avrei scritto a tutte le famiglie del nido chiedendo se fossero disposte a dividere la cifra necessaria a tenere il piedi il servizio che avevano scelto. Con cui più che un contratto avevano firmato un patto di alleanza educativa.

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Avrei scritto senza avanzare nessuna pretesa, sia chiaro. Semplicemente, con onestà e crudezza, avrei detto che quella era la cifra necessaria per coprire i costi del mese. Non l’avevo e nessuna banca mai mi avrebbe concesso un prestito. In tanti, però, forse avremmo potuto racimolarla e andare avanti.

Cara mamma, caro papà…
se ci conosciamo è perché tu avevi scelto il mio servizio per il tuo bambino. Hai, pertanto, avuto fiducia in me. Ci siamo abbracciati. Abbiamo pianto insieme guardando lui o lei e i suoi cambiamenti. Probabilmente ci siamo anche trovati in conflitto…so di avere un carattere non troppo morbido…ma ne siamo anche venuti a capo. Abbiamo sempre dialogato. Non smettiamo proprio ora.

So che non ho diritto di chiederti dei soldi. Ed è difficile, difficilissimo farlo. Tante relazioni, del resto, si rompono proprio per questioni di denaro. Non ho, però, altre soluzioni. Io desidero che il nido possa sopravvivere. Certo…ci ho investito tanto in tanti anni…e non mi riferisco solo agli investimenti economici. Ho investito tempo, che ho tolto ai miei bambini perché le giornate sono solo di 24 ore, ho investito cuore, perché io in questo servizio ci credo e voglio che sia un luogo in cui si respira educazione. Mi aggiorno costantemente per garantire qualità a tutti voi.
E adesso potrei…potremmo…perdere il nido. Io non ho un conto in banca milionario a cui attingere in casi di emergenza come questo. E sul conto aziendale sono rimasti pochi spiccioli. A marzo sono riuscita a coprire tutte le spese. Ad aprile non ce la farò. Non pagherò le educatrici, non pagherò le utenze e nemmeno l’affitto…Riceverò lettere da avvocati che nemmeno aprirò…non mi metteranno in mezzo alla strada perché ho tre figli minori. E, alla fine, visto che un po’ di sale in zucca ancora mi è rimasto, chiuderò l’attività. Perché i giochi al massacro fanno per me solo fino a un certo punto. I debiti in qualche modo li salderò…le educatrici potranno ottenere il sussidio di disoccupazione e proveranno a cercarsi un altro lavoro…non sarà semplice…ma in qualche modo faranno.

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Il nido, però, non ci sarà più. Quando l’emergenza sarà finita non accoglierà più il tuo bambino o la tua bambina. E sarà difficile trovarne un altro perché sono in tanti i gestori di servizi educativi che vivono questa stessa situazione.
Questa cosa mi fa male. Tanto male.

E a te? Cosa farete tu e il tuo bambino quando tutto sarà finito? Dove lo lascerai quando tornerai a lavorare? Intendiamoci, cara mamma, io non credo che il nido sia un luogo in cui semplicemente tu lasci il tuo bambino perché non hai altre soluzioni. Porti il tuo bambino al nido perché credi nel suo valore educativo; sei sicura, mentre sei al lavoro, che in quel luogo il tuo bambino o la tua bambina fanno delle esperienze belle e importanti per lo sviluppo e la crescita e stanno insieme a persone competenti e di cui tu hai piena fiducia.

Tra poco, però, sarai costretta ad iniziare a pensare ad un’altra soluzione. Te lo dico con un groppo in gola. Ma sarà necessariamente così.

Se, però, vuoi aiutarmi in un momento di enorme difficoltà io accolgo il tuo aiuto e ti ringrazio. Continuerò a insistere perché il governo intervenga e sia lo Stato a sostenermi e appena questo accadrà, stanne certa, cara mamma, restituirò tutto. Sono brava a tenere i conti…non ti preoccupare…riavrai quanto mi hai anticipato…Tutto fino all’ultimo centesimo.

Non posso aggiungere altro…ho detto tutto…Ho il cuore gonfio di angoscia e mi vergogno un po’ per le richieste che ti ho fatto. Non ho, però, nessun altro modo per salvare il nostro nido. Almeno adesso. Ti prometto, però, che continuerò a pensare a soluzioni alternative.

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Ti abbraccio. Virtualmente per ora. Sono certa che presto torneremo ad abbracciarci. Uniti ce la possiamo fare.
Non sulla pelle dei bambini. Non sulla pelle delle famiglie. Non sulla pelle dei servizi.

Marta, educatrice del nido comunale Il girotondo di Bresso (MI)

 

Essere comunità educante

L’idea di scrivere questo articolo nasce all’inizio di questo caldo mese di luglio, quando ho avuto la fortuna di prendere parte ad un percorso di formazione di tre giorni, messo a punto dalla notissima nel nostro ambiente Silvia Iaccarino.

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E’ stata una formazione densa, carica di tanti significati, emozioni. Ho ritrovato amiche, donne che fanno il mio mestiere perché desiderano diffondere una nuova cultura pedagogica, fatta di sguardi in profondità, pensieri che circolano, apertura alla novità. Una formazione potente, che mi ha regalato tanta energia per affrontare le fatiche dell’educare e le nuove sfide che ho intenzione di affrontare. E che mi ha donato una bellezza tanto grande che non si può esprimere fino in fondo con le parole.

Prima della fine del percorso formativo ho scritto un biglietto che ho messo in una scatola…diceva…”è stato un momento di condivisione profonda, di circolo di idee e soprattutto emozioni…un momento in cui ho sentito la potenza di un gruppo coeso che ti sostiene e ti accompagna”…

Mi sono sentita parte di un gruppo…non una pedina su una scacchiera…una persona senza cui il gruppo non sarebbe potuto essere e senza cui non avrebbe potuto creare tutto ciò che è stato creato…Una nuova cultura pedagogica…una cultura in cui il bambino è al centro e l’adulto, in punta di piedi, appresta occasioni e osserva che accade.

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Nel corso di quel residenziale si è formata una vera comunità educante…persone, professioniste dell’educazione, pedagogiste, educatrici, che hanno dato il via a un cerchio in cui si è fatto esercizio di virtù’, di relazioni, di condivisioni che hanno assunto e assumono ogni giorno grande rilevanza educativa…E’ nata in quei tre giorni una reale comunità educante…una comunità che è stata ed è spazio di partecipazione, che continua ad abilitare all’esercizio di certi valori (soprattutto la centralità del bambino nelle nostre pratiche) e che si assume ogni santissimo giorno responsabilità ed iniziative educative. Una comunità che si nutre ora di interrelazioni, di scambi, di reciprocità. E che sta crescendo…si sta diffondendo nei nostri servizi per l’infanzia. Con mia grande, grandissima gioia.

E’ un grande onore, per me, essere parte di questa meravigliosa comunità educante, perché, io credo, nella problematica pedagogica contemporanea è di fondamentale importanza preoccuparsi della dimensione sociale del processo educativo. Tale preoccupazione nasce dal fatto che il soggetto dell’educazione (così come noi pedagogiste, noi educatrici) va visto nel contesto sociale in cui esiste, e, proprio per questo motivo, ha senso parlare di “comunità educante”. Ognuno di noi è inserito in una pluralità di comunità (i familiari, gli amici, il sistema di relazioni economiche, produttive, giuridiche…) entro cui sviluppa le proprie azioni e si disegna la propria identità; e la comunità, attraverso le interazioni dei suoi membri, assume una propria fisionomia e, a poco a poco, si pone in relazione con altre comunità e con la cornice che le rende possibili, vale e dire la società.

La società di oggi, ricca di sfaccettature, liquida, magmatica, richiede che nei processi educativi sia impegnata tutta la comunità…Per questo è fondamentale che noi professioniste dell’educazione assumiamo la postura di chi vuole operare nel mondo e con esso continuamente rinnovarsi, cercando di appropriarci della realtà “mettendo le mani in essa”, tutti insieme. La sfida di oggi è lavorare affinché educhiamo alla responsabilità, alla partecipazione, al dialogo, alla tolleranza.

Nei giorni del residenziale si percepiva chiaramente che tutte eravamo lì per costruire, tramite percorsi riflessivi, una progettazione partecipata dell’azione educativa. Ognuna di noi ha portato un pezzetto di sé, tasselli, mattoni, perché si possa trasformare i contesti educativi in cui lavoriamo in comunità educanti attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutti coloro che li attraversano. E questo a partire dalla comunità a cui abbiamo dato origine in quei giorni.
Tutti insieme è importante. Perché tutti insieme possiamo contribuire alla realizzazione degli obiettivi condivisi che ci diamo. E’ solo collaborando in senso partecipato che possiamo rivolgerci ai bambini e alle loro famiglie non solo come destinatari dei servizi, ma come protagonisti e attori attivi delle iniziative programmate e attivate.
E questo è di una potenza incredibile. E’ un ribaltamento di prospettive. Servizi portati aventi e costantemente migliorati da operatori che si confrontano con altri operatori e soprattutto da tutti coloro che li attraversano quotidianamente. Tutti.

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Educare è un verbo che ha radici latine: deriva da ex ducere = tirare fuori, rendere realizzabile (visibile) ciò che è possibile, ciò che è implicito in ogni persona, fin da bambino, la sua potenza, le sue potenzialità, il suo valore di persona, la sua dignità umana. Ma non basta. Educare è soprattutto un atto di reciprocità. Chi educa è anche educato e il suo sapere si gioca nell’atto dell’educazione. Educare non è solo formare. Educare è costruire insieme identità e futuro. Per questo il gruppo che abbiamo costituito in quei giorni, la nostra comunità educante, si è caricata di un ruolo molto importante verso chi frequenta i nostri servizi per l’infanzia: dobbiamo ora espandere i concetti e i valori che sono circolati tra di noi nel corso di quei tre giorni attraverso le nostre buone pratiche e il nostro lavoro. Abbiamo ora il dovere di mettere le conoscenze che sono circolate al servizio di fini costruttivi.

Abbiamo costituito una comunità educante che sta vivendo ed è in fermento; e come tale dobbiamo avere ben chiaro che una società plurale come quella in cui viviamo ha bisogno, come non mai prima di ora, di persone che sappiano assumersi responsabilità delle proprie opinioni e che sappiano accettare che le proprie opinioni possano cambiare nel confronto con quelle degli altri.

E, soprattutto, si è costituito un bel gruppo di colleghe che sono anche amiche. Un gruppo di amiche che hanno voglia di condividere pensieri ed esperienze, che hanno voglia di formarsi consapevoli che, per chi fa lavoro educativo e pedagogico, aggiornarsi è un dovere, oltreché un grande piacere. C’è un filo rosso che serpeggia, ormai, tra i nostri servizi, da Milano alla Toscana, passando per l’Emilia Romagna e le Marche…un fil rouge che ci unisce e ci rammenta la potenza del nostro incontro.

Concludo con una parte di una poesia scritta dalla cara collega Ilenia Schioppetti…ricordando a chi mi legge di guardare…anzi di “sguardare” con attenzione le persone a cui affidate i vostri bambini…

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“perdere il discorso.
tenere il filo.
che lega.
unisce.
protegge.
aiuta.
allunga.
di mano in mano.
storie.
scritte.
da un filo.
perdere il discorso.
tenere il filo.
che scrive.
storie.
di mano in mano.
e allunga.
aiuta.
protegge.
unisce.
lega.
rete.
di filo.
tenuto.
da un discorso perso.”