Una delle prime (e rare) lezioni che ho seguito all’università verteva sul fatto che l’educatore, oltre a essere una figura di riferimento, di fiducia e di accompagnamento, esplicitamente o implicitamente veicola idee, pensieri, possibilità e limiti. E queste variabili agiscono anche nel campo della creatività che l’educatore ha la responsabilità di gestire o meno.
Che cosa intendo per creatività? E’, senza dubbio, un termine dal significato assai vasto, che definisce quel processo nel quale coesistono aspetti cognitivi, conativi, emotivi e contestuali; è uno stato mentale comune a chi fa lavorare insieme tutte le intelligenze (e qui penso a Gardner e alle sue “intelligenze multiple”), coinvolgendo la ricerca, il pensiero, l’innovazione. E’un processo possibile ovunque vi sia un’intelligenza umana attivamente impegnata ed è considerata essenziale per un’educazione realmente efficace.
Creatività è una caratteristica propria di chi si accinge a fare educazione. Senza di quella, non si può fare educazione. Aggiungo io.
Scriveva Bauman: “L’interazione tra individui può essere…letta come una rete dinamica caratterizzata da traiettorie sociali, culturali ed economiche che condividono elementi di fluidità, velocità, saturazione, frenesia e immediatezza”. E’, pertanto, rilevante la capacità di adattarsi, come un liquido, al contesto/contenitore nel quale si è inseriti. Questo è possibile solo se si è creativi.
E se la società è in continuo movimento, in termini di avanzamento, nei settori più diversi, allora anche chi si occupa di educazione e di formazione dovrà interrogarsi intorno al senso da assegnare a questo movimento/cambiamento e all’educazione dei bambini, dei giovani, degli adulti…, alle modalità processuali attraverso le quali si apprende, ci si accosta alla conoscenza e si dà senso all’agire nel mondo.
La pedagogia contemporanea ha fatto sua l’idea che la creatività sia caratteristica non esclusiva delle persone “talentuose”: la creatività, infatti, è una capacità più che una dote innata, e può essere “educabile” (come affermava Dewey) e sviluppata, ragion per cui i contesti formativi in cui la divergenza viene promossa e sollecitata aiutano a potenziare e rinforzare atteggiamenti e comportamenti creativi.
Chi si occupa di educazione, qualunque sia l’utenza, cerca di far sì che l’altro coltivi la creatività e il pensiero divergente, cioè che affini lo spirito critico che permette di analizzare e valutare tante soluzioni possibili per un dato problema, riconoscendo tra pensieri e oggetti connessioni originali, proponendo innovazioni e cambiamenti, modellando e adattando le conoscenze acquisite ai vari e differenti contesti che si presenteranno nel corso della vita.
Chi si occupa di educazione ha l’intento di esporre l’altro a diversi punti di vista e , attraverso il confronto con i suoi pari, lo aiuta a indagare e a scoprire quel che lo circonda e a utilizzare prospettive differenti.
Per poter far sì che ciò accada, però, è importante che chi si occupa di educazione, in qualsiasi contesto egli operi, coltivi egli stesso la propria creatività e il proprio pensiero divergente. In questo momento storico più che mai.
Chi sta nei servizi educativi per l’infanzia e a scuola (cito questi perchè sono quelli che conosco meglio, dal momento che lavoro da anni nei nidi d’infanzia dopo una non breve esperienza alla scuola secondaria di primo e secondo grado) ha il dovere, io credo, oggi di essere creativo. Deve avere il coraggio di essere creativo. Altrimenti, facilmente, sarà un mediocre. E la mediocrità ricadrà su bambini e ragazzi che avranno a che fare con questa persona.
La creatività richiede coraggio perché ha a che fare con la paura di sbagliare. Colui che dice “io non sono creativo” in realtà accampa scuse, perché ha paura di non essere abbastanza competente e si convince che non vale nemmeno la pena provare.
La creatività è anche incertezza. Sai da dove inizi, ma non sai mai dove andrai a finire.
Ha a che fare con l’imperfezione e con la capacità dell’uomo di accoglierla. Il processo creativo è fatto di false partenze ed errori, e se vogliamo abbracciarlo dobbiamo essere capaci di sospendere il giudizio su noi stessi. Ricordandoci che nulla è giusto o sbagliato in assoluto, che la bellezza è relativa, e che la creatività ha molto a che fare con il processo più che con il risultato.
Sono tanti giorni, mesi, che chi fa il mio lavoro nei servizi e chi insegna parla di ripartenza e immagina possibili scenari.
Le polemiche, come sempre, non sono mancate. Molte, a mio avviso, sono state fatte senza tener conto del benessere dei bambini e dei ragazzi che, dopo sei mesi, hanno bisogno come l’aria di ripopolare servizi e scuole…E questo è un vero peccato: non ci si rende spesso conto che nei dibattiti assurdi fra adulti sono sempre i bambini e i ragazzi ad avere la peggio.
La scuola funziona non benissimo nel nostro paese e sono convinta che gli interventi da fare siano tanti. Adesso, però, credo che la cosa più importante sia concedere ai bambini e ai ragazzi di ripopolare le loro aule, con tutte le restrizioni che, per lo meno all’inizio, saranno necessarie. Milioni di loro per lunghi mesi hanno perso la scuola. Non solo. Hanno anche perso la strada, i giardinetti, lo sport in compagnia, gli amici. Chiusi in casa. Non solo. Sono stati attraversati dall’ignoto e invisibile virus e da un bombardamento mediatico, sentito di scorcio o nelle parole dei genitori, sul morire da soli dei nonni, sulle mascherine, sul distanziamento. La noia e la solitudine hanno accompagnato fantasie e pensieri contorti. Non voglio generalizzare, ma davvero per tanti è andata così.
La scuola era in sofferenza prima dell’emergenza sanitaria e un po’ lo erano anche i servizi. Non siamo riusciti, in questo lungo tempo a cambiare le cose tutte…se ne è parlato tanto, però, e forse qualcosa accadrà. Voglio credere che gli e le insegnanti che già lavoravano bene, continueranno a farlo. Così come i mediocri continueranno ad essere tali.
Sarà fondamentale, però, almeno all’inizio, che tutti si concentrino sul rientro dei bambini e dei ragazzi…Bisognerà essere in grado di farli raccontare…di far emergere i vissuti di un tempo che ci ha colti di sorpresa, ci ha impauriti ed angosciati, ci ha fatto vacillare e perdere tante certezze, ci ha messo di fronte a noi stessi.
Il tempo per le polemiche, per le lotte contro il sistema (che, non dimentichiamolo, sta fronteggiando comunque una situazione di emergenza mai vista prima) potranno attendere. Credo che questo sia etico, per quanto, forse, non troppo condivisibile. Per me è etico ed è anche l’unica strada che voglio percorrere alla ripresa.
Credo che tutti noi dovremmo essere abili, come ho già scritto in precedenza nel mescolare il sanitario e l’educativo. Perchè le scuole ed i servizi non sono ospedali, ma i luoghi della cura educativa. “Ogni persona vorrebbe essere oggetto di cura” e “il mondo sarebbe un luogo migliore se tutti noi ci
curassimo di più gli uni degli altri”, ci ricorda Luigina Mortari.
Scuole e servizi sono luoghi in cui si dovrebbe imparare ad entusiasmarsi della vita.
Non scordiamoci, infatti, che se un ragazzo o una ragazza hanno attraversato la scuola senza che essa sia riuscita ad entusiasmarli, senza che i loro mondi interiori ne siano stati sfiorati, senza che le loro emozioni si siamo accese, anche se arrivano alla fine del percorso con un diploma e con un voto, possiamo parlare di una forma latente di dispersione scolastica, come scrisse un po’ di tempo fa il professor Raffaele Mantegazza.
Questo richiederà da parte di noi adulti che nei servizi e nelle scuole ci lavoriamo una forte dose di coraggio. Io stessa ho preso alcune delle decisioni più importanti della mia vita bloccando il flusso di un inarrestabile turbinio di pensieri che aveva il solo effetto di imbrigliarmi in una rete di inestricabili paure.
Non è retorica. E’ quanto davvero mi è accaduto. Ma non sono qui per raccontare la mia storia.
E, per concludere, non ci sono altre parole che quelle di un grande autore che ci ha da poco lasciati, Luis Sepulveda. “Sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba. “Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba. Osiamo. Lo dobbiamo ai bambini e ai ragazzi.