Di cattive madri

E’ cronaca recente. Sono bastati 60 minuti, forse meno, perché si consumasse una tragedia familiare a Voghera, dove Elisa, una madre, ha strangolato e ucciso il figlio Luca, che ancora non aveva compiuto un anno, mentre si trovava da sola con lui.

I notiziari hanno ripetuto “Erano cinque anni che volevano questo bambino”. E anche che Elisa, ultimamente, era stanca, tanto che aveva preso una pausa dal lavoro. Una vicina ha raccontato che avrebbe sofferto di “depressione post partum”. Che “era un po’ agitata ma stava bene”.

Soffriva di depressione o stava bene?

Le madri con depressione post partum sperimentano emozioni come paura, tristezza, rabbia, gioia a un’intensità più alta o più bassa del solito. Provano un’eccessiva preoccupazione o ansia per situazioni che prima erano in grado di affrontare e gestire senza troppa fatica o possono essere molto irritabili nei confronti di se stesse o degli altri, o sentirsi sovraccariche e sotto pressione anche quando non ce ne sarebbe motivo.

Le madri con depressione post partum certo non stanno bene.

Parlare di sofferenza e di depressione legando i due termini alla maternità è difficile, perché viviamo in una società in cui è potente lo stereotipo della maternità come condizione ideale nella vita di una donna, ricca di benessere e piena di gioia. E’ come se non fosse consentito alle madri di dire che la maternità può essere un’esperienza tutt’altro che serena, caratterizzata da ombre a volte molto scure. Come appunto la depressione che può seguire al parto.

Depressione che non è una colpa. Ma un malessere che, come tale, va affrontato e curato, soprattutto perchè alcuni sintomi di essa riguardano la relazione con il proprio bambino: sentimenti di colpa, vergogna e senso di inadeguatezza rispetto al ruolo di madre.

Molto spesso le madri si sentono giudicate per i comportamenti inadeguati dei figli, anche quando sono molto piccoli, sentono il peso di dover essere perfette, soprattutto nei casi in cui sono loro a trascorrere la maggior parte del tempo in casa ad occuparsi della cura dei bambini. E da ciò nascono pensieri disfunzionali che fanno sì che si sentano inadeguate, incapaci, non in grado di crescere i figli.

Winnicott parlava di “madre sufficientemente buona“, cosa che implica che la madre possa non essere buona. Maledetto! Perchè una “madre sufficientemente buona” si contrappone a una madre cattiva e chiunque lo può essere…E se posso essere una “madre cattiva” ecco che la mente si affolla di pensieri disfunzionali che non fanno altro che portare ansia, tristezza e sensi di colpa.

E quando questo senso di inadeguatezza diventa opprimente, si è pervasi dalla tristezza, dall’impotenza, dai sensi di colpa, fatto che comporta una incapacità di relazionarsi adeguatamente con il proprio bambino, con il rischio di conseguenze negative per lo sviluppo psico-fisico dello stesso. Quando va bene.

Le “cattive madri” esistono da sempre. Anche nella letteratura, nella storia, nell’arte…Penso alla Signora Bennet di Orgoglio e Pregiudizio, madre della protagonista del libro, Elizabeth. Capricciosa, frivola e assolutamente priva di buon senso. O alle “Cattive madri” dipinte da Segantini, un’opera in cui, immersa in un paesaggio invernale, una donna seminuda è imprigionata tra i rami contorti di un albero; nei capelli della donna, in una posa scomposta e disperata, è avvolto il corpo di un neonato, di cui si scorge la piccola testa. E’ una peccatirce questa donna e viene punita in quanto non assolve al ruolo ad essa deputato e durissima è la punizione a lei riservata. Penso anche a Medea, che addirittura ha dato il nome ad una particolare patologia che affligge le madri depresse, la “Sindrome di Medea”. Nella versione di Euripide della tragedia greca, Medea, nipote della maga Circe, dalla quale eredita poteri magici, si innamora di Giasone. Per amore lo aiuta a impossessarsi del vello d’oro, uccide il proprio fratello, spargendone le membra, in modo che il padre, raccogliendo i resti del figlio, non possa impedire a Giasone, agli Argonauti e a Medea stessa, la fuga. La donna sposerà il suo amato e avrà dei figli. Dopo qualche anno, però, Giasone ripudia Medea per un’altra donna e lei, lacerata dall’odio, uccide i figli avuti dall’uomo che la lascia, per porre fine alla discendenza.

E potrei citare tante altre famose cattive madri. Joan Crawford, la famosa attrice, la Mrs Robinson de Il laureato (il noto film con Dustin Hoffmann), Sophie Portnoy, madre ossessiva e opprimente del protagonista di “Lamento di Portnoy”, romanzo di Philip Roth, Enid Lambert, la madre apprensiva dell’opera di Jonathan Franzen “Le correzioni”.

Ho conosciuto donne che hanno abbandonato i figli, che figli non ne hanno voluti, che li hanno picchiati o dimenticati da qualche parte. Donne che si sono sentite perse, sole, incomprese ma anche molto consapevoli di se stesse, delle proprie forze ma anche delle proprie vulnerabilità. Donne che mi hanno fatto comprendere (io che sono madre di tre figli) che la maternità non sempre va a braccetto con l’istinto materno, ma è una condizione complessa, lontana dai canoni in cui continua ad essere imbrigliata.

Ho conosciuto anche donne che raccontano della loro difficoltà a sentirsi “buone madri”: c’è chi ci ha rinunciato alla propria realizzazione professionale per i figli, chi si definisce “madre di merda”, chi parla di stress della maternità.

Credo che tutte le madri, prima o poi, dovrebbero rendersi protagoniste di un’azione di denuncia dell’ideale materno e dei canoni irraggiungibili ai quali questo ideale richiede di conformarsi. L’abnegazione della maternità e la resistenza a tale abnegazione provocano grande sofferenza, ma nel momento in cui si controlla la maternità (e non ci si fa da essa controllare) si rinasce come donne e come madri consapevoli e “sufficientemente buone”. E’ doloroso tutto ciò, ma necessario.

Se non si riesce a compiere questo cammino realmente catartico, il rischio è che la madre arrivi a compiacersi del suo annullamento nell’esperienza di maternità. E’ ciò è disumano. Non diversamente dall’arrivare all’infanticidio.

E, allora, si deve fare un atto di coraggio e mandare in frantumi la mistica della maternità, il “mito della madre” irraggiungibile, inimitabile, ineguagliabile. La madre che non scende a patti con la realtà, con l’esperienza umana, ma la trasfigura e così facendo ingabbia le donne nelle loro stesse aspettative sulla maternità, creando dolore, frustrazione, sensi di colpa a non finire.

Come, io credo, è accaduto a Elisa. E lei, senza sostegno, senza chi si mettesse in ascolto del suo profondo malessere, non ha potuto far altro che uccidere il suo bambino. Non è riuscita a reagire negativamente ad aspettative sovrumane e allora ha uacciso suo figlio e se stessa come madre. Con tutto ciò che questo comporterà.

Oggi diventare madre non è più un destino inevitabile, benché la pressione sociale resti fortissima grazie al mantenimento di un immaginario punitivo nei confronti delle donne che scelgono di tutelare la propria libertà individuale. Condanna che traspare non tanto rispetto alle donne che scelgono di non fare figli ma soprattutto nei confronti delle donne che, pur scegliendo di fare un figlio, non si immolano totalmente sull’altare della maternità e che non considerano il benessere del bambino come priorità assoluta rispetto al quale sacrificare ambizioni, desideri e libertà.

Al giorno d’oggi c’è chi sceglie di non avere figli, chi di farli e dedicarsi totalmente a loro, chi di averli senza rinunciare a portare avanti un lavoro o una vita sociale. Il giudizio sociale nei confronti di queste tre possibilità, però, non è il medesimo: le donne che fanno figli e si sacrificano per loro spesso sono considerate le “buone madri”; quelle che non rinunciano al soddisfacimento personale derivante dal lavoro o dalle passioni sono considerate ancora “frivole” o “carrieriste”.

Una possibile soluzione potrebbe essere la promozione sociale di un modello femminile vasto, libero da stereotipi, capace di anteporre le scelte e la volontà della donna a quella della madre. Un modello in cui uomini e donne, i cui compiti non siano rigidamente divisi per genere, sono gli autentici promotori di una parità che si riversa positivamente anche sui figli. Un modello che potrebbe rimettere in equilibrio la triade familiare – che nei secoli è stata sbilanciata in termini di obblighi morali verso la donna – trovando il giusto compromesso tra i bisogni e i desideri di tutti.

A quanti infanticidi dovremo ancora assistere prima che ciò accada? Quante madri moriranno insieme ai loro bambini? E sempre nello stesso modo?