Quando la scuola è davvero “buona scuola”

E’ difficile oggi dar forma alle parole. Si affollano nella testa, son lì da giorni ma non riesco a fissarle sul foglio come vorrei. Perché devo raccontare di mio figlio Francesco, del suo difficile percorso a scuola. Percorso difficile per lui e per me, benchè mi intenda di processi di apprendimento e conosca infinite strategie per tirar fuori le risorse ai ragazzini che vivono la scuola con più fatica degli altri.

Francesco ha un deficit attentivo grave e, forse, uno o più disturbi dell’apprendimento…Ha sempre avuto difficoltà di lettura, scrittura e calcolo. Oltrechè a star seduto al banco. Se avesse frequentato la scuola negli anni Ottanta come me, sarebbe di certo stato etichettato come un “fannullone” e confesso che, nei momenti più complicati, ho pensato anche io che fosse svogliato e per nulla interessato alle cose di scuola. E casco in questo pensiero ancora oggi quando lui, per difendersi e per togliersi di dosso un po’ della sua fatica, decide di non andare a lezione. Anzi…non ce la fa. E’ successo tante mattine che si sia lavato e vestito e che sia uscito per poi rientrare in casa affranto dicendo “mamma, non ce la faccio…è come se qualcuno mi stringesse il collo e non passa l’aria per respirare…e non riesco a muovere un passo…lasciami entrare in casa”. E in quelle circostanze, da madre, non riesci che ad accogliere tuo figlio e il macigno che lo schiaccia, senza nemmeno provare a capire che cosa sta succedendo.

Quando Francesco ha iniziato la prima media, consapevole delle sue fatiche, abbiamo subito pensato che fosse necessario far rete con la scuola.

Ogni ragazzino che vive l’esperienza scolastica con bisogni, comuni o speciali, ha il diritto di vivere le risorse della comunità fatta di alunni, famiglie, docenti, educatori e collaboratori che a vario titolo sono presenze educative all’interno della scuola. Quest’ultima poi è inserita in strutture più ampie e il dirigente scolastico ha il compito di relazionarsi con le strutture del territorio per fare della scuola un ambiente aperto e che possa beneficiare delle risorse locali. Dentro e intorno alla scuola esiste un fitto mondo di relazioni alle quali i ragazzi sono connessi e che possono rimanere uno sfondo inerte o diventare preziose per una scuola aperta, ricca, vitale che sa gestire le differenze chiedendo aiuto, collaborazione e professionalità ai suoi diversi interlocutori. La scuola che hanno frequentato Francesco e le sue sorelle, l’istituto comprensivo Europa Unita di Arese (MI) è una scuola così…aperta, ricca, vitale e che sa gestire le differenze.

Ed è una scuola che è riuscita a mettere a punto per lui una didattica universale, plurale, accessibile, capace di valorizzare le differenze e i suoi punti di forza. I docenti hanno lavorato giorno dopo giorno per garantirgli la massima adattabilità nel gruppo classe e per garantirgli possibilità di espressione e molteplici mezzi di coinvolgimento (interattività, collaborazione in gruppo, tutoring, auto-apprendimento…tra le altre cose). Tutto ciò per favorire la motivazione ad apprendere, senza cui è complicatissimo far crescere i ragazzi a scuola e con la scuola. 

Nonostante ciò, nonostante la grandissima professionalità dei docenti e il loro continuo cercare di tenere Francesco “agganciato”, la frequenza è stata assai discontinua. Molti sono stati i giorni di assenza, tanto che, fino all’ultimo, abbiamo temuto che non venisse ammesso agli esami di terza media.

Da educatrice e pedagogista, ho lavorato per qualche tempo con la tutela minori e ho incontrato, ahimè, insegnanti che mancavano di sensibilità e peccavano di presunzione. Ho seguito un bambino con una famiglia tanto conflittuale e priva di strumenti che ha dovuto vivere l’esperienza della comunità e che aveva difficoltà a leggere e scrivere (oltrechè, come prevedibile, comportamentali); è stato ‘bollato’ come svogliato, pigro, distratto, oltrechè inadeguato. Ed è stato “fermato” in prima media. Per esempio.

Non sempre gli insegnanti si mettono in ascolto e sono disposti a cecare le cause vere che determinano certe problematiche. E così è facile che i ragazzi si perdano. Che, a seguito di una bocciatura, escano dalla scuola senza tornarci mai più, come il ragazzo di cui parlo sopra. La bocciatura favorisce la dispersione, anche nei ragazzi che sono in età di scuola dell’obbligo.

I ragazzini che hanno dei bisogni non sono stupidi, anzi. Hanno solo bisogno di essere incoraggiati, seguiti, stimolati e gratificati. Devono sapere che possono farcela. E hanno il diritto di essere ascoltati.

E i docenti di Francesco si sono messi in ascolto. Hanno messo in atto tutte le strategie possibili per tenerlo agganciato alla scuola, comprendendo che era possibile, al di là di qualsiasi diagnosi proveniente dalla neuropsichiatria infantile, mettere a punto un percorso personalizzato pur in un contesto di gruppo.

Hanno sospeso verifiche e interrogazioni per un periodo per abbassare il suo livello d’ansia e cercare di tenerlo in classe, l’insegnante di sostegno ha creato un gruppo di studio pomeridiano ad hoc, tutti i professori hanno lavorato con i ragazzi affinchè i compagni spesso lo spronassero a frequentare e ad impegnarsi…addirittura lo sono venuti a prendere a casa per essere sicuri che tornasse in classe.

La scuola non è sempre così. Ma questa scuola, l’istituto Europa Unita di Arese, con i suoi docenti e la sua dirigente, ha mostrato che la “buona scuola” può esistere. Al di là dei piani di offerta formativa, al di là degli obiettivi da centrare e dei programmi da terminare ad ogni costo. Può esistere una scuola dove si lavora a servizio dei ragazzi, dove non ci si limita a trasmettere contenuti ma si mettono in luce i punti di forza e si valorizzano le persone, ognuna per quello che dà alla comunità.

“Se si perde loro, i ragazzi difficili, la scuola non è più scuola. E’ un ospedale che cura i sani e respinge i malati” scriveva Don Milani, il cui motto era “I care”, cioè “mi importa”. E come moderni Don Milani, i docenti di Francesco si sono preoccupati delle esigenze di ogni studente e di aiutare ciascuno tramite il dialogo, perché potessero avere tutti gli strumenti di apprendimento, assieme a una presa di coscienza generale sulla propria posizione nel mondo.

E da madre di un ragazzino in un certo modo “difficile” sono molto grata a tutti loro. So bene che “è dovere”, che la deontologia professionale richiede che si lavori per far sì che chi è più in difficoltà possa tagliare il traguardo insieme a tutti i compagni, ma può capitare che ci si interessi più al risultato finale che alla strada per arrivarci. E, allora, si lascia indietro chi è più lento, chi ha bisogno di incoraggiamento continuo. Scegliendo in questo modo la via più agevole, soprattutto in contesti dove accade spesso che il proprio lavoro non sia valorizzato e (diciamolo) gli stipendi sono tanto bassi da far passare qualsiasi fantasia.

Sono grata agli insegnati di Francesco. E sono grata alla dirigente dell’istituto comprensivo Europa Unita di Arese. Sono grata perché sono stati accoglienti e disponibili a far rete con noi famiglia e con le agenzie territoriali a cui ci siamo rivolti a causa delle difficoltà di nostro figlio. Sono grata perché hanno lavorato dal primo all’ultimo secondo per non perdere chi era in difficoltà, nonostante i muri che, spesso, i ragazzi sono capaci di costruire. Sono grata perchè hanno dato a Francesco la possibilità di continuare il percorso scolastico aiutandolo nella costruzione del suo futuro (che al di là di ogni risultato scolastico, è ciò che realmente mi interessa).

A volte, nella vita, è questione di fortuna. E sì…Francesco è stato molto fortunato ad avere i professori della sezione E della scuola media Leonardo da Vinci di Arese. 

Grazie alla dirigente Dott.sa Maria Teresa Tiana e ai professori Enzo Tandoi, Elena Radice, Cristina Caccia, Serena Bottega, Bruna Parisi, Laura Sacco, Elena Airaghi, Luciana Mantovani, Agostino Barbieri e Don Danilo Bononi.

Cosa c’è dietro al lavoro di noi educatori?

Sono una pedagogista. Mi occupo di formazione e supervisione. Lavoro con gli educatori e le educatrici dei servizi 0/6. Mi occupo anche, a margine, di coordinamento. Sempre con gli educatori e le educatrici dei servizi 0/6.

Sono anche un’educatrice. Lavoro in un servizio 0/3, un nido. E sono molto fiera di questo. Non potrei lavorare insieme agli educatori e alle educatrici se non conoscessi bene ciò che accade nella loro quotidianità. Se non sapessi che cosa vuol dire “avere le mani in pasta” giorno, dopo giorno.

E cosa accade nelle giornate di educatori ed educatrici dei servizi per l’infanzia?

Accogliamo bambini e genitori sorridendo, cercando di lasciare oltre la soglia delle nostre sezioni quello che viviamo quotidianamente al di fuori del lavoro, compreso quello che ci ha tormentato fino a poco prima di entrarvi. Sì…è così…chi svolge un lavoro di natura educativa ha il compito (e direi il dovere) di separare l’educazione dalla vita. Perchè solo in questo modo può creare un’esperienza unica che possa essere assorbita ed elaborata dagli individui che la sperimentano (i bambini nel nostro caso) ed entrare nel contesto lavorativo realmente da professionista, ricoprendo un ruolo attivo e sviluppando un senso critico che permetta di interrogarsi sia sulle dinamiche in atto sia sul significato e sugli esiti.

Nel lavoro di cura, gli educatori e le educatrici, devono anche fare i conti con le proprie angosce e con le proprie perturbazioni emotive che spesso si trovano ad essere non solo sollecitate ma anche amplificate dal compito e dalla cultura implicita dei sistemi di welfare. E’ pertanto richiesto loro di possedere una “competenza emotiva” che consenta di accogliere la realtà nella sua complessità e di poter comprendere la qualità di ciò di cui si fa esperienza. E’ fondamentale assumersi non solo una responsabilità professionale nei confronti di chi si educa ma anche di se stesso. Aver cura del proprio pensare e del proprio sentire è condizione preliminare per aver cura del pensare e del sentire dei destinatari dei propri atti di cura. E’ fondamentale anche prestare la massima attenzione ad affetti, emozioni, relazioni in cui ci si trova inevitabilmente e costantemente coinvolti. In caso contrario, non è semplice svolgere un “buon”lavoro.

Tutto questo per dire che arriviamo in sezione già con un grosso carico sulle spalle, che dobbiamo continuamente “risistemare” per far sì che i bambini possano vivere le esperienze educative di cui hanno necessità e (mi piace aggiungere) diritto.

Dobbiamo poi essere ben attente a saper leggere criticamente le specificità del contesto in cui agiamo, che, pur sembrando sempre uguale, inevitabilmente muta un giorno dopo l’altro. Dobbiamo poterne valutare risorse e limiti e, parallelamente, essere in grado di rivedere continuamente le nostre premesse e la nostra prassi educativa. Il fatto poi che ogni azione sia situata in un preciso contesto sociale e che noi educatori ed educatrici ci troviamo immersi in una complessa rete di relazioni costituita da colleghi e da altre figure professionali che attraversano i nostri servizi (oltreché da una molteplicità di soggetti dei quali abbiamo la responsabilità educativa…i bambini, nel nostro caso), necessita di specifiche competenze relative tanto al lavoro di gruppo, quanto alla conduzione di gruppo. Non basta amare tanto i bambini, per fare un “buon” lavoro…L’indeterminatezza delle azioni educative e la imprevedibilità dei processi attivati e dei contesti sociali con cui, nel tempo, si interagisce, comporta la capacità di tollerare il dubbio e l’incertezza, di porsi “in ascolto” di quanto accade e delle proprie emozioni, di accettare uno “stato di sospensione”, non rifugiandosi immediatamente in categorizzazioni o teorizzazioni rassicuranti. E vi posso assicurare che tutto ciò non è una passeggiata.

E’ necessario essere consapevoli che ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo fa parte di un dispositivo più ampio che solo in parte può essere dominato. Questo vuol dire che si deve praticare una professione di natura educativa avendo (o acquisendo) sempre maggior consapevolezza di quanto si agisce nella pratica.

E che cosa realmente agiamo noi nella pratica? Noi educatori ed educatrici dei servizi per la prima infanzia, che appariamo sempre sorridenti e sereni…quasi perfetti…Benchè, non dimentichiamolo, come scrive Sergio Tramma, uno dei professori che più ho amato negli anni dell’università, “l’educatore è incerto…perchè nella società contemporanea tale figura professionale è la risultante di molte chiamate in causa, di molte assunzioni di responsabilità…sia per il ventaglio di compiti progressivamente attribuiti alla figura, sia per i soggetti di riferimento”.

Gli educatori e le educatrici sono sì incerti…e, nonostante sorridano, si mostrino sempre sereni e propositivi, questo loro essere incerti li rende decisamente affaticati…esausti a tratti.

Lo stress tipico del lavoro di cura a volte si fa elevato e non è facile ridurlo nel qui ed ora, benché sappiamo bene che, se interpretate secondo le loro potenzialità e fatte proprie dalle educatrici, le routine tipiche dei servizi per l’infanzia, possono aiutare a ridurre lo stress, fornendo motivo di soddisfazione e contribuendo così al benessere di educatori ed educatrici. Si può trovare grande soddisfazione nelle interazioni con i bambini (e quindi nel proprio lavoro) se si presta attenzione al bambino come soggetto individuale, e non al singolo compito di volta in volta da eseguire…Può, però, accadere che ci si affatichi più di quanto si riesca a sopportare e che i compiti risultino più gravosi di quanto in realtà non lo siano. Anche se ci vedete sempre sorridenti.

Cambiare un pannolino per noi è un gesto di cura fondamentale nei confronti dei bambini…Se ci capita di svolgerlo senza troppo entusiasmo…e può succedere…possiamo essere prese da sensi di colpa più o meno importanti…Per esempio.

Le routine negli asili nido possono assumere una grande valenza educativa. E il cambio di un pannolino, come qualsiasi routine, non soddisfa solo il bisogno immediato del bambino, ma considera anche i suoi bisogni complessivi e, di conseguenza, mira a fornire soddisfazioni in termini di attenzione, stimolazione tattile (contatto, holding,…), interazione visiva (contatto oculare), fisica e verbale, di affetto e di emozioni.
In altre parole, non si tratta di cambiare il pannolino in un modo o nell’altro, ma di come si interagisce mentre si cambia il pannolino…Si capisce, quindi, perchè se lo si fa controvoglia, magari più di una volta, a fine giornata ci si può sentire giù di tono e insoddisfatti.

Noi educatori ed educatrici dei servizi per l’infanzia accogliamo sorridendo e cerchiamo di mostrarci sereni e con tanta voglia di stare insieme e di fare insieme con i bambini nel corso di tutta la giornata…che può durare dalle sei alle sette ore e fischia…se va bene.

E’ faticoso, però, prendersi cura dei bambini con professionalità. Non è uno scherzo il nostro lavoro. Ogni bambino (e di questi tempi ne abbiamo in media sette a testa) viene portato in bagno, per le cure che si dedicano al cambio del pannolino, come minimo tre volte al giorno…Si sveste, si lava con cura, si increma, si mette un pannolino pulito, si riveste…Con cura, passione e fatica. Fatica che non vorrei che si desse per scontata. E magari, appena, finito, si torna in bagno con uno, due o tre bambini perchè hanno fatto la cacca e si ripete ogni gesto. Con cura, passione e fatica.

E tutto ciò va moltiplicato per sette. E moltiplicato per tre fa ventuno. Si ripetono con cura, passione e fatica questi gesti ventuno volte ogni giorno. O forse qualcuna di più.

Spesso, soprattutto di questi tempi, i genitori, candidamente ti chiedono “Siete usciti?”. E tu, che magari hai dormito poco e male la notte, non te la sei sentita perchè la giornata è fredda e piovosa e un po’ ti assale un senso di colpa perchè hai privato i bambini di un’esperienza. Uscire con un gruppo di sette bambini, da soli, magari con qualcuno che non cammina ancora è tutt’altro che un’esperienza rilassante! Ti tiri su le maniche, infili la tuta da esterno, le scarpe, la giacca, la sciarpa, il cappello e poi, al rientro, di nuovo…ti tiri su le maniche, li spogli con cura, togli il fango e i sassi che sono rimasti sotto alle scarpe. Sette volte prima di uscire e sette volte quando rientri. E non è finita. Ci sono gli abiti da esterno da insacchettare per poterli consegnare ai genitori che li riporteranno puliti o per portarli nella lavanderia del nido.

E questo, è innegabile, comporta fatica. E non è scontato che tutti lo riconoscano. Perchè il senso comune dice che il lavoro con i bambini è “Il lavoro più bello del mondo”. Come può essere anche faticoso?

Ci vuole motivazione. Tanta. E coraggio, io credo.

Gli educatori, prima di diventarlo, nel corso degli anni dell’università, delle tante ore di tirocinio (ai miei tempi erano quasi trecento, tra teoria e pratica) si interrogano mettendosi in discussione in merito propria identità professionale: su chi siano, che cosa si aspettino, quali competenze debbano acquisire e quali potrebbero spettar loro.

Gli educatori e le educatrici, per poter accogliere ogni giorno bambini e famiglie sorridendo, molto prima di varcare la soglia del servizio in cui lavoreranno cercano i motivi che li spingono a svolgere proprio quella professione. E continuano a farlo anche dopo anni di esperienza. Ve lo assicuro, perchè è ciò che è accaduto ed accade a me. Cercare i motivi che ti spingono a svolgere una professione è fondamentale, soprattutto nei momenti più faticosi, quando desideri solo buttarti in un angolo e poter chiudere gli occhi per un po’. Le domande che ci facciamo quotidianamente ci aiutano a dare un senso ai nostri agiti e, soprattutto, alla nostra motivazione, senza cui il nostro lavoro non potrebbe svolgersi nemmeno per un minuto.

Ecco. Tutto questo è ciò che sta dietro al nostro lavoro. Al lavoro di noi educatori ed educatrici che, comunque, sorridiamo all’accoglienza e al ricongiungimento e che lavoriamo perchè i bambini possano vivere esperienze autentiche e cariche di senso. Anche se la giornata è partita storta o siamo preoccupati o stanchi.

Prendersi cura di chi si prende cura. Come sono cambiate le pratiche di supervisione pedagogica nei servizi?

Fin da quando, molti anni fa, ho iniziato a lavorare come educatrice, ho creduto nell’importanza di “essere curati” nei nostri contesti educativi. Di poter sapere che qualcuno si fa carico, orienta, guida chi si prende cura per professione.

Che significa prendersi cura di chi si prende cura? E’ complesso da dirsi, soprattutto in un tempo come questo, dove di cura ce n’è assoluto bisogno ma le urgenze del Setting spesso non lasciano il tempo affinché uno sguardo altro si posi sulle équipes e si faccia interprete delle loro fatiche.

La cura educativa o, meglio, pedagogica, è, intanto, cura di un soggetto, proprio di quel soggetto lì, ponendosi dentro il suo processo di formazione, intesa come formazione umana. È processo di cura (del maestro) che si sviluppa come “risveglio”, come “dialettica”, come “ascesa” e come “maieutica”, insieme, nei confronti dell’allievo, come già ci insegnava Socrate nella Grecia del V secolo a. C. Questo aver-cura si delinea come stare vicini (interiormente) ed esser-pronti-a …, è presenza-sostegno e presenza-stimolo, orientata al promuovere verso … e a interpretare i segni dell’autoformazione in corso, al porre traguardi e modelli, da rivivere sempre secondo libertà.

Tale cura è sostegno e dono e dialogo. Trova nel sostegno (che orienta senza essere direttivo) il proprio imprinting. Si contrassegna attraverso il donare, un atto libero che può esser recepito o no nel suo messaggio dal ricevente, un atto gratuito, ma dovuto e necessario per essere nella cura come formazione. Si sostanzia del dialogo, che è e deve essere aperto e reciproco tra i due “attori”, chi si prende cura e chi cura riceve. E così la cura come formazione produce pariteticità e uguaglianza, cancellando ogni aspetto di asimmetria e di direttività del prendere-in-cura e ponendo la cura come aver-cura e aver-cura-insieme, in particolare. E’, inoltre, maieutica e libertà ed è rivolta a creare condizioni di autoformazione, di ricerca costante dell’identità del proprio sé, di struttura in equilibrio (pro tempore), di dare identità il cui segno più profondo può e deve permanere come contrassegnato da inquietudine, apertura, ricerca di sé.

Con l’autoformazione entra in gioco un altro modello di cura: la cura sui, la cura di sé, che è autoanalisi e riflessione su se stessi. Il soggetto guida e sostiene se stesso, reclamando tra io e sé una serie di pratiche, che oggettivano questa presa-in-cura e la riattivano. Sono le tecnologie del sé e gli esercizi spirituali di cui ha parlato anche Foucault in alcuni dei suoi ultimi testi (La cura di sé; Ermeneutica del soggetto; Tecnologie del sé).

Tale tipo di cura esige la mediazione di una pratica di cui il soggetto stesso è l’artefice. Una pratica riflessiva, interpretativa, ri-orientativa.

La cura sui, inoltre, è auto-maieutica che ha bisogno di pratiche per consolidarsi e rendersi oggettiva e operativa e efficace. Essa produce auto-formazione cercando di rendere il soggetto più consapevole e controllato. È dialogo-con-se-stessi: costante, aperto, sempre rinnovato e capace di farsi habitus del soggetto stesso. È controllo di sé, reiterato, reso programmatico, esercitato in modo costante. Ed è interiorizzazione di queste prassi che si fanno forma-del-sé e identitaria per l’io.

E qui si inserisce il discorso relativo alla supervisione pedagogica, che tanti professionisti dell’educazione vogliono fortemente nei servizi.

La supervisione pedagogica è una forma complessa e raffinata di cura dei professionisti che operano all’’interno di un servizio educativo e cura anche del servizio stesso. E’ luogo di parola e di ascolto, di attivazione e promozione del pensiero riflessivo. E’ contesto di apprendimento professionale, collettivo e comunitario, a partire da una condivisione di narrazioni di pratiche. E’ spazio di confronto con un punto di vista altro, differente, dissonante (proposto dal supervisore). E’ spazio di rielaborazione delle prospettive progettuali che orientano l’’azione e di individuazione di strategie per affrontare situazioni critiche e problematiche.

La supervisione, inoltre, si fa tavolo di lavoro, in cui interrogarsi sui significati assunti dal lavoro educativo in diversi settori e per i differenti attori, in costante tensione e rapporto con il tavolo della “progettazione” o riprogettazione del lavoro educativo stesso. L’attenzione è sul senso dell’intervento formativo: la supervisione mira, infatti, a promuovere una graduale ma radicale problematizzazione delle pratiche educative per poter ripensare il progetto educativo che sta alla base degli interventi agiti in un determinato contesto, provocando così micro-cambiamenti in fieri nelle pratiche educative e nel modo di pensarle.

E in questo tempo? Come si configurano le pratiche di supervisione? Come sono cambiate? Se qualcosa è cambiato…

Subito dopo le prime disposizioni sull’isolamento e la sospensione di molti dei servizi educativi, a molte équipe è capitato di ritrovarsi, in primis. pervase da un senso di spaesamento. In molti casi la modalità telematica e le urgenze hanno imposto di entrare subito in una fase operativa, per agire in fretta e non perdere troppo tempo. Man mano che il tempo trascorreva lento, però, alla necessità di agire si è affiancato il bisogno di dedicare uno spazio, anche contenuto, per la condivisione delle preoccupazioni. Il cambio repentino della quotidianità e i timori per la situazione, non solo rispetto al contagio, ma anche quelli economici e sociali, hanno avuto effetti diversi sui componenti delle diverse équipe e di certo spazi, seppur virtuali, in cui incontrarsi (guidati o no) e verbalizzare le preoccupazioni, confrontarsi, sentirsi accolti e riconosciuti, è stato di enorme aiuto.

Questa possibilità, se intesa come spazio di riflessione profonda su sé e sulla nuova configurazione dell’agire educativo, ha spesso permesso non solo di ritrovare la stessa lunghezza d’onda con i colleghi, ma anche di rafforzare i legami dei diversi gruppi, condividendo insieme le emozioni dei momenti più critici. Questo, però, se guidati da chi aveva gi strumenti per gestire al meglio questi spazi, per capirne i limiti e poterli chiudere prima che diventassero esageratamente carichi e quindi dannosi per qualcuno.

Ma come adattare i colloqui di supervisione al setting on line? Come rendere efficaci gli incontri di supervisione senza poter respirare i corpi? Senza poter volgere lo sguardo sulle innumerevoli sfaccettature del linguaggio non verbale che, spesso, urla più forte di quanto non si riesca a fare con la voce?

Non è stata cosa facile…tanto che, in parecchi casi, dopo due o tre incontri le équipe hanno preferito rimandare a quando ci si sarebbe potuti riunire in presenza. Un incontro di supervisione è uno spazio per se stessi, per l’equipe…per questo, in diversi casi, dopo la prima fase di lockdown e isolamento, è capitato a molti di sentirsi allo stretto nel salotto di casa, dove non era garantito un setting in cui poter essere liberi di tirar fuori fatiche e difficoltà perchè spesso disturbati, benché involontariamente, da qualche componente della famiglia.

Ci si è chiesti in tanti se gli incontri di supervisione online, tramite videochiamata, avessero la stesa efficacia di quelli tenuti all’interno dei servizi. Molti di noi si interrogavano sul come si sarebbero potuti sentire accolti e compresi anche stando seduti in soggiorno. D’altra parte la possibilità di organizzare incontri in presenza, consentiti già all’inizio della scorsa estate, generava in qualcuno un forte senso d’ansia legato alla paura del contagio.

Cruciale, in tutti i casi, perchè gli incontri su piattaforma fossero davvero di senso, (così come lo è per il buon funzionamento di un’équipe) è indubbiamente stato chi questi incontri li ha guidati e condotti; è dovuto essere in grado, pur in assenza di tutto il non verbale che, come ho detto prima, riveste una grande importanza negli incontri di supervisione, di presidiare la condivisione delle responsabilità in un tempo mai vissuto prima e il riconoscimento delle diversità individuali e professionali (che spesso si sono accentuate); ha dovuto, inoltre, affinare le capacità di tessere connessioni funzionali tra il gruppo di lavoro e la rete territoriale per tanto tempo non più attraversata, cercando di mantenere un buon equilibrio tra le nuove fatiche del lavoro a distanza e quelle comunemente generate dal lavoro educativo.

E’ stato necessario, in molte circostanze, capire come potesse essere possibile avviare processi di confronto informale in situazioni destrutturate, che, di norma si verificavano incontrando ogni giorno i colleghi e gli utenti e che erano in grado di illuminare zone d’ombra e di ri-significare gli eventi educativi.

Nel confronto con i colleghi, l’educatore ha la possibilità di riflettere sui racconti ascoltati per analizzarli e comprenderli, lasciandosi contaminare da altri punti di vista e modelli interpretativi. Per questo motivo, in un tempo in cui il focus era quotidianamente sull’incertezza esistenziale che la pandemia stava generando, è stato necessario che si riportassero le riunioni d’équipe e gli incontri di supervisione (benché online) ad essere luoghi di riflessione, di condivisione di informazioni, riflessioni, impressioni, narrazioni, cosa che avviene quotidianamente quando storie, pensieri e i vissuti di utenti e di operatori s’intrecciano e si respirano. E’ stato necessario riorganizzare spazi e tempi in cui emozioni e pensieri potessero sedimentare, tenendo presente che, talvolta, il carico emotivo delle situazioni da sostenere oppure l’urgenza operativa richiedono una condivisione immediata al fine di ridurre i margini d’errore legati all’improvvisazione. E tenendo presente che l’esiguità dello spazio di riflessione attiva risorse relative alla gestione dell’ansia e al problem solving.

Dove ciò si è verificato, spesso, alla ripartenza dei servizi educativi (avvenuta tra giugno e luglio o a settembre), gli educatori si sono trovati ben attrezzati per affrontare un tempo che sapevano sarebbe stato carico di incertezza e in cui, spesso, se non quotidianamente, sarebbe stato necessario ritrovare l’orientamento. Per affrontare un tempo mai vissuto, in cui sanitario ed educativo si sarebbero dovuti necessariamente meticciare, attraverso sguardi che prima non si avevano, senza perdere di vista che l’obiettivo sarebbe stato quello di fare vivere agli utenti esperienze educative di senso.

E oggi, io credo, chi si occupa di supervisione pedagogica nei diversi servizi educativi deve affrontare questa non facile sfida. Fare sì che gli educatori, in un tempo di restrizioni, distanze, nuove regole difficili da condividere, possano comunque sperimentare il potenziale generativo della riflessività, del confronto con i colleghi, dell’attivazione di un circolo dialogico ricorsivo tra i saperi acquisiti sul campo, le teorie che fondano le prassi operative e le strategie d’intervento adottate in relazione agli utenti e ai contenuti rivisitati.

Complesso? Certo che sì. Ma questo è un lavoro che si configura, io credo, come essenziale e irrinunciabile se vogliamo che i nostri servizi educativi continuino ad essere tali e di alta qualità.

Il dopo Covid e la “creatività educativa”

Una delle prime (e rare) lezioni che ho seguito all’università verteva sul fatto che l’educatore, oltre a essere una figura di riferimento, di fiducia e di accompagnamento, esplicitamente o implicitamente veicola idee, pensieri, possibilità e limiti. E queste variabili agiscono anche nel campo della creatività che l’educatore ha la responsabilità di gestire o meno.

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Che cosa intendo per creatività? E’, senza dubbio, un termine dal significato assai vasto, che definisce quel processo nel quale coesistono aspetti cognitivi, conativi, emotivi e contestuali; è uno stato mentale comune a chi fa lavorare insieme tutte le intelligenze (e qui penso a Gardner e alle sue “intelligenze multiple”), coinvolgendo la ricerca, il pensiero, l’innovazione. E’un processo possibile ovunque vi sia un’intelligenza umana attivamente impegnata ed è considerata essenziale per un’educazione realmente efficace.

Creatività è una caratteristica propria di chi si accinge a fare educazione. Senza di quella, non si può fare educazione. Aggiungo io.

Scriveva Bauman: “L’interazione tra individui può essere…letta come una rete dinamica caratterizzata da traiettorie sociali, culturali ed economiche che condividono elementi di fluidità, velocità, saturazione, frenesia e immediatezza”. E’, pertanto, rilevante la capacità di adattarsi, come un liquido, al contesto/contenitore nel quale si è inseriti. Questo è possibile solo se si è creativi.
E se la società è in continuo movimento, in termini di avanzamento, nei settori più diversi, allora anche chi si occupa di educazione e di formazione dovrà interrogarsi intorno al senso da assegnare a questo movimento/cambiamento e all’educazione dei bambini, dei giovani, degli adulti…, alle modalità processuali attraverso le quali si apprende, ci si accosta alla conoscenza e si dà senso all’agire nel mondo.

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La pedagogia contemporanea ha fatto sua l’idea che la creatività sia caratteristica non esclusiva delle persone “talentuose”: la creatività, infatti, è una capacità più che una dote innata, e può essere “educabile” (come affermava Dewey) e sviluppata, ragion per cui i contesti formativi in cui la divergenza viene promossa e sollecitata aiutano a potenziare e rinforzare atteggiamenti e comportamenti creativi.

Chi si occupa di educazione, qualunque sia l’utenza, cerca di far sì che l’altro coltivi la creatività e il pensiero divergente, cioè che affini lo spirito critico che permette di analizzare e valutare tante soluzioni possibili per un dato problema, riconoscendo tra pensieri e oggetti connessioni originali, proponendo innovazioni e cambiamenti, modellando e adattando le conoscenze acquisite ai vari e differenti contesti che si presenteranno nel corso della vita.
Chi si occupa di educazione ha l’intento di esporre l’altro a diversi punti di vista e , attraverso il confronto con i suoi pari, lo aiuta a indagare e a scoprire quel che lo circonda e a utilizzare prospettive differenti.

Per poter far sì che ciò accada, però, è importante che chi si occupa di educazione, in qualsiasi contesto egli operi, coltivi egli stesso la propria creatività e il proprio pensiero divergente. In questo momento storico più che mai.

Chi sta nei servizi educativi per l’infanzia e a scuola (cito questi perchè sono quelli che conosco meglio, dal momento che lavoro da anni nei nidi d’infanzia dopo una non breve esperienza alla scuola secondaria di primo e secondo grado) ha il dovere, io credo, oggi di essere creativo. Deve avere il coraggio di essere creativo. Altrimenti, facilmente, sarà un mediocre. E la mediocrità ricadrà su bambini e ragazzi che avranno a che fare con questa persona.

La creatività richiede coraggio perché ha a che fare con la paura di sbagliare. Colui che dice “io non sono creativo” in realtà accampa scuse, perché ha paura di non essere abbastanza competente e si convince che non vale nemmeno la pena provare.

La creatività è anche incertezza. Sai da dove inizi, ma non sai mai dove andrai a finire.
Ha a che fare con l’imperfezione e con la capacità dell’uomo di accoglierla. Il processo creativo è fatto di false partenze ed errori, e se vogliamo abbracciarlo dobbiamo essere capaci di sospendere il giudizio su noi stessi. Ricordandoci che nulla è giusto o sbagliato in assoluto, che la bellezza è relativa, e che la creatività ha molto a che fare con il processo più che con il risultato.

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Sono tanti giorni, mesi, che chi fa il mio lavoro nei servizi e chi insegna parla di ripartenza e immagina possibili scenari.

Le polemiche, come sempre, non sono mancate. Molte, a mio avviso, sono state fatte senza tener conto del benessere dei bambini e dei ragazzi che, dopo sei mesi, hanno bisogno come l’aria di ripopolare servizi e scuole…E questo è un vero peccato: non ci si rende spesso conto che nei dibattiti assurdi fra adulti sono sempre i bambini e i ragazzi ad avere la peggio.

La scuola funziona non benissimo nel nostro paese e sono convinta che gli interventi da fare siano tanti. Adesso, però, credo che la cosa più importante sia concedere ai bambini e ai ragazzi di ripopolare le loro aule, con tutte le restrizioni che, per lo meno all’inizio, saranno necessarie. Milioni di loro per lunghi mesi hanno perso la scuola. Non solo. Hanno anche perso la strada, i giardinetti, lo sport in compagnia, gli amici. Chiusi in casa. Non solo. Sono stati attraversati dall’ignoto e invisibile virus e da un bombardamento mediatico, sentito di scorcio o nelle parole dei genitori, sul morire da soli dei nonni, sulle mascherine, sul distanziamento. La noia e la solitudine hanno accompagnato fantasie e pensieri contorti. Non voglio generalizzare, ma davvero per tanti è andata così.

La scuola era in sofferenza prima dell’emergenza sanitaria e un po’ lo erano anche i servizi. Non siamo riusciti, in questo lungo tempo a cambiare le cose tutte…se ne è parlato tanto, però, e forse qualcosa accadrà. Voglio credere che gli e le insegnanti che già lavoravano bene, continueranno a farlo. Così come i mediocri continueranno ad essere tali.
Sarà fondamentale, però, almeno all’inizio, che tutti si concentrino sul rientro dei bambini e dei ragazzi…Bisognerà essere in grado di farli raccontare…di far emergere i vissuti di un tempo che ci ha colti di sorpresa, ci ha impauriti ed angosciati, ci ha fatto vacillare e perdere tante certezze, ci ha messo di fronte a noi stessi.
Il tempo per le polemiche, per le lotte contro il sistema (che, non dimentichiamolo, sta fronteggiando comunque una situazione di emergenza mai vista prima) potranno attendere. Credo che questo sia etico, per quanto, forse, non troppo condivisibile. Per me è etico ed è anche l’unica strada che voglio percorrere alla ripresa.

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Credo che tutti noi dovremmo essere abili, come ho già scritto in precedenza nel mescolare il sanitario e l’educativo. Perchè le scuole ed i servizi non sono ospedali, ma i luoghi della cura educativa. “Ogni persona vorrebbe essere oggetto di cura” e “il mondo sarebbe un luogo migliore se tutti noi ci
curassimo di più gli uni degli altri”, ci ricorda Luigina Mortari.
Scuole e servizi sono luoghi in cui si dovrebbe imparare ad entusiasmarsi della vita.
Non scordiamoci, infatti, che se un ragazzo o una ragazza hanno attraversato la scuola senza che essa sia riuscita ad entusiasmarli, senza che i loro mondi interiori ne siano stati sfiorati, senza che le loro emozioni si siamo accese, anche se arrivano alla fine del percorso con un diploma e con un voto, possiamo parlare di una forma latente di dispersione scolastica, come scrisse un po’ di tempo fa il professor Raffaele Mantegazza.

Questo richiederà da parte di noi adulti che nei servizi e nelle scuole ci lavoriamo una forte dose di coraggio. Io stessa ho preso alcune delle decisioni più importanti della mia vita bloccando il flusso di un inarrestabile turbinio di pensieri che aveva il solo effetto di imbrigliarmi in una rete di inestricabili paure.
Non è retorica. E’ quanto davvero mi è accaduto. Ma non sono qui per raccontare la mia storia.

E, per concludere, non ci sono altre parole che quelle di un grande autore che ci ha da poco lasciati, Luis Sepulveda. “Sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba. “Ah sì? E che cosa ha capito?” chiese l’umano. “Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba. Osiamo. Lo dobbiamo ai bambini e ai ragazzi.

 

Abbiamo bisogno di tornare a sentire i corpi, di riabitare i “nostri” servizi

E’ più di un mese che non scrivo nulla. E’ un periodo faticoso questo. Un periodo in cui a chi come me lavora nei servizi per l’infanzia ancora non è dato di ri-abitare i nostri luoghi di educazione. Un periodo in cui, a fronte di troppi pensieri, manca l’accadere concreto, l’accadere entro una certa fisicità corporale, spaziale e temporale.
L’educazione, infatti, è innanzi tutto qualcosa che accade, è una “prassi situata” (come diceva Riccardo Massa), concreta. Senza la possibilità di toccare, mettere le mani in pasta nei nostri servizi, entriamo in uno stato di fatica molto elevato. Almeno…questo è ciò che è accaduto a me.

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L’educazione è anche (e soprattutto) relazione; la relazione è un elemento che compone la persona umana, fa parte della persona umana. Noi non siamo soltanto quello che c’è dentro: stomaco, fegato, polmoni; c’è anche una mente, c’è anche una
psiche, siamo anche relazione. La relazione fa parte del nostro essere persona, essere in relazione con altri è elemento costitutivo della persona.

Dobbiamo, quindi, prestare attenzione a come, all’interno di un contesto educativo, si curano le relazioni; questo significa comprendere se e con quale frequenza e come, in quel determinato contesto, sia possibile ‘fare manutenzione’ del contesto stesso.
La cura delle relazioni si mostra forse proprio nella possibilità che un contesto ha di rinnovarsi attraverso la coltivazione di quelle stesse relazioni in quanto campo di esperienza in cui si può giocare la formazione di ognuno, aprendo, magari, a percorsi auto formativi. E rinnovarsi significa non solo modificarsi e fare la propria manutenzione, ma anche comprendere che la vita e la funzione di quel contesto sono unite.

La relazione, inoltre, appartiene al campo educativo in quanto parte integrante dell’esperienza di sé, degli altri e del mondo che in tale contesto si può attraversare; tuttavia trae il suo senso proprio dall’essere inclusa nella cornice di quel particolare mondo formativo che si viene a istituire in una determinata situazione; ciò vuol dire che ha senso a partire dalle condizioni materiali, ma anche culturali che ne consentono l’espressione e lo svolgimento. Ha senso a partire dal contesto in cui si instaura la relazione e dai corpi che lo attraversano.

Ci siamo ingegnati in questo lungo tempo di chiusura dei servizi (quasi quattro mesi). Intorno alla metà di maggio il Ministero dell’Istruzione ha trasmesso un documento in cui si parla di “Orientamenti pedagogici sui Legami educativi a Distanza”, un modo diverso per fare nido e scuola dell’infanzia elaborato dalla Commissione nazionale per il sistema integrato zerosei. Abbiamo attinto a tutta la nostra creatività per instaurare e mantenere relazioni educative a distanza, con bambini e genitori, in una situazione di grande difficoltà e di interruzione temporanea del funzionamento in presenza dei servizi.

Il lavoro educativo è, per sua natura, pronto ad accogliere l’imprevisto e l’incertezza, ma dinanzi al vacillare di quasi tutti i paradigmi relazionali noti è stato necessario mettere in campo pensieri nuovi ed assolutamente originali. Siamo entrati in un’epoca in cui occorreva limitare i contatti e attivare canali alternativi possibili, offrendo a famiglie ed utenze suggerimenti per affrontare la quotidianità, valorizzandone la resilienza.

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Adesso, però, sentiamo forte il bisogno di tornare a fare il nostro lavoro in presenza.
Abbiamo pensato a come sarebbe potuto essere il rientro; alle strategie che avremmo potuto utilizzare; a come relazionarci quando ci avevano detto che avremmo dovuto mantenere il distanziamento tra i bambini. Pensieri di senso ne abbiamo fatti tanti. E’ arrivato il tempo della prassi.

Bernard Aucouturier sostiene che il corpo è mediatore di conoscenze e che l’educazione deve essere fatta scoprire al bambino, fatta vivere attraverso esperienze corporee; l’essere in situazione, infatti, permette al bambino di scoprire, vivere e in seguito astrarre le nozioni fondamentali che sono alla base di ogni processo cognitivo (grandezza, velocità, durata…). Il corpo non è qualcosa da allenare e addestrare o a cui insegnare maggiore controllo o coordinazione; il corpo è qualcosa da “informare ” attraverso le varie esperienze (corporee appunto) così che poi possa costruirsi come asse centrale delle proprie modalità di essere nei confronti di sé stesso, del mondo, degli altri e delle cose. Dobbiamo, quindi, prenderci la responsabilità di permettere ai bambini di farle queste esperienze corporee. Adesso più che mai.

Negli ultimi anni si è sostenuto con forza sempre maggiore che tutte le conoscenze passano attraverso l’uso del corpo. La conoscenza della realtà. La conoscenza dei rapporti spazio-temporali. La conoscenza del proprio corpo. La conoscenza di sé e degli altri. Il bambino non è più considerato come un piccolo adulto, che deve imparare come l’adulto, ma gli è riconosciuta una specifica via alla conoscenza che è, appunto, quella corporea.
I bambini spesso ci chiedono “stai vicino a me?”; la vicinanza dei corpi per loro è fondamentale, ci vogliono accanto a loro, concretamente. Non bastano le parole. Non bastano le nostre immagini. Ci vuole la vicinanza dei corpi, che più di tutto dà loro sicurezza e serenità.

Scrive ancora Aucouturier: “il corpo non è soltanto lo strumento razionale al servizio di un pensiero conscio. Il corpo è anche, e prima di tutto, luogo di piacere e dispiacere, riserva di pulsioni, mezzo d’espressione dei fantasmi individuali e collettivi della nostra società…”. Del corpo, dei corpi, non possiamo più fare a meno. Dobbiamo iniziare di nuovo a respirarli. Almeno a respirarli. Poi verrà il tempo in cui ci si toccherà ancora.

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Riporto, per concludere, uno stralcio di un interessante articolo di Dafne Guida, presidente della cooperativa Stripes, che apre a interessanti spunti di riflessione:

I servizi “di prima” non torneranno. La visione pedagogica deve imparare a dialogare con quella sanitaria e organizzativa, in una logica di contaminazione reciproca e non di esclusione. «Innovare d’altronde significa desiderare talmente tanto qualcosa di diverso dall’esistente, che alla fine una via insieme si trova»… Un esempio? L’educatore di condominio o di giardino. I bambini ne hanno bisogno: «già oggi registriamo tante regressioni, frutto della mancanza di spazi di autonomia».

I servizi di prima non torneranno. Non subito. Non a breve. Dobbiamo però tornare ad abitare quei servizi con i nostri corpi. Dobbiamo permettere che tornino ad abitarli i corpi dei bambini. C’è stato un tempo per la paura. Adesso è tempo di coraggiosamente tornare.