Madri anaffettive e figli in cerca di affetto. Riflessioni che nascono da una lettura potente.

Sto leggendo un libro di un’autrice che conosco personalmente e che scrive parole che, insieme, hanno una potenza dirompente. Lei è Carmela Scotti, che ho incrociato nella vita perchè madre di Nina, una bambina che frequentava il nido in cui lavoravo qualche anno fa. Il libro è “La pazienza del sasso”, uscito poche settimane fa e pubblicato da Garzanti.

Non voglio fare una recensione. Non credo di essere particolarmente dotata per questo. Ce ne sono già alcune e certo rendono giustizia a Carmela e a quanto ha scritto. Del resto non ho ancora terminato il libro…lo sto gustando come faccio quando infilo le dita nella crema di pistacchio e poi lentamente le lecco. Non amo divorare i libri che, come questo, inizio ad amare profondamente sin dalla prima pagina.

Il libro ha mosso in me dei pensieri…Pensieri relativi all’impatto che può avere una madre anaffettiva sui figli…Un tema che da sempre mi sta a cuore.

Protagonista è Argia che, insieme alla sorella Dervia, sin da quando era bambina ha dovuto fare i conti con l’assenza dei genitori. Assenza soprattutto di amore. Argia ha potuto godere per un po’ della presenza della madre ma, dopo un incidente che ha costretto quest’ultima a smettere di suonare il pianoforte (forse sua unica ragione di vita), ha sofferto terribilmente per averla persa, prima solo la sua anima e poi, dopo il suicidio di lei, anche il corpo. Dervia, invece, non ha avuto che qualche briciola.

Le due sorelle non hanno ricevuto amore né affetto dai genitori quando erano bambine. La mancanza di affetto nella vita di un bambino ha conseguenze non indifferenti nella sua vita di adulto. la mancanza di affetto induce alla deprivazione emotiva; le persone che hanno avuto genitori che non hanno dato loro amore hanno la costante sensazione che ai loro rapporti e alla loro vita manchi sempre qualcosa, che gli altri non esprimano abbastanza affetto, calore, attenzione o emozioni profonde nei loro confronti. Nemmeno la nascita di un figlio, come possiamo leggere nel libro di Carmela, può riempire i vuoti lasciati da genitori non amorevoli.

Argia crede che lasciando l’aspra Sicilia dov’è nata e cresciuta, potrà tagliare i ponti con il suo passato pieno di frustrazione, rabbia e rancore. Non è così, però. I legami carnali restano per sempre e riaffiorano continuamente. Riporta Carmela nel libro una frase tratta da un altro libro che le prestai e che amo molto. “…la scommessa…è quella di saper stare in equilibrio tra le proprie zone buie, prendere le distanze dai propri vissuti interiori e assumere consapevolezza dei chiaroscuri che albergano nel profondo, perchè solo se messi in luce, questi chiaroscuri possono diventare leali compagni di viaggio.” (da “Le ombre dell’educazione. Ambivalente, impliciti, paradossi”. A cura di Vanna Iori).

Le relazioni sono animate da sentimenti profondi ma anche da intenzioni ambivalenti da motivazioni latenti o addirittura inconsce. Connesse con dimensioni problematiche come l’affettività e il potere, implicano sempre dei “lati oscuri”. E’ quindi importante cercare di prendere coscienza e di elaborare anche le “ombre” che sempre le accompagnano. L’ombra costituisce, per certi versi, il negativo e il “perturbante”, che costantemente minaccia, ma rappresenta anche l’implicito, ciò che è stato oscurato o trascurato o che semplicemente, in un dato momento della vita, non è (o non è più) in luce. L’ombra, del resto, è sempre una proiezione della luce: più si illumina qualcosa, più si lascia nell’oscurità il lato non esposto.

E se ne accorge Argia con Lucio, suo figlio; di questo. Il vuoto lasciato dal non-amore dei genitori non si può colmare nemmeno con l’amore che si cerca di dare e si riceve da un figlio. Anche se è doloroso dirselo. Se si riesce.

L’amore di una madre è prezioso per un figlio e per una figlia. La madre tiene in grembo il figlio o la figlia. Li tiene accanto a sé appena nati. E’ il contatto da cui si genera il primissimo legame di attaccamento.

L’assenza di amore materno è per i figli e soprattutto per le figlie qualcosa di drammatico. Non sempre le relazioni madre-figlia sono caratterizzate da amore incondizionato. Come accade tra Argia e sua madre. Ci sono madri che non vogliono o non possono amare. E figlie che rincorrono ossessivamente la gioia di un abbraccio, di una rassicurazione. Quando durante l’infanzia l’amore materno è assente si crea quello che Bowlby definiva “attaccamento insicuro”, che può influenzare le relazioni sociali per tutta la vita. Chi sperimenta questo tipo di attaccamento è come se poi avesse dentro di sé una voragine e dovrà gestire per tutta la vita l’ansia che essa provoca. Un figlio coglie il primo assaggio di sé specchiandosi nella madre; se quest’ultima è amorevole, il figlio si svilupperà in maniera solida e salda, saprà di essere degno di amore e di attenzione, di essere guardato e ascoltato.

Il bisogno di amore materno è una forza potente e primordiale da cui non ci si può sottrarre; se questo manca, il figlio non-amato facilmente svilupperà, crescendo, i sintomi dovuti alla mancanza di un legame di attaccamento sicuro e sano. In primo luogo svilupperà mancanza di fiducia e le sue relazioni adulte, di qualsiasi genere, ne soffriranno molto, oltreché essere caratterizzate da dubbi, paure, rabbia, incapacità di riporre fiducia nell’altro. Come ci si può fidare di chi incontriamo nel corso della vita se non possiamo fidarci di colei che ci ha messo al mondo? Un figlio che non è stato amato dalla propria madre non sa di avere valore, è cresciuto sentendosi ignorato e ciò non farà altro che corrodere i talenti di lui adulto, a meno che non si intervenga per porre in qualche modo rimedio. La mancanza di “nutrimento” durante l’infanzia e le continue critiche da parte della madre, inoltre, possono causare una visione distorta di sé. Possono anche causare lo sviluppo delle “distanze di sicurezza” nelle relazioni; un figlio non-amato potrebbe dedicare troppo tempo agli altri trascurando se stesso, comportandosi sempre in maniera di compiacere gli altri, senza comprendere che è giusto porre dei limiti, fondamentali per sviluppare una giusta autostima. Un figlio che si è sempre sentito giudicato da sua madre sarà molto sensibile a certe parole o a certe espressioni che, se ascoltate, potranno innescare stati emotivi simili a quelli sperimentati nell’infanzia; anni di “abuso emotivo” lasciano poco spazio a sentimenti leggeri.

Prendere coscienza di tutto ciò è il primo passo per “guarire” dal non-amore materno. Potrebbe essere utile che un figlio che non ha sperimentato l’amore da parte delle madre intraprendesse una psicoterapia, con l’obiettivo di superare i sentimenti negativi, derivanti dal sentirsi non considerato e trascurato dalla mamma.
Concentrarsi eccessivamente sui sentimenti negativi provati nel contesto in cui si è nati e cresciuti questi e rimuginare, nella fasi della vita adulta, su di essi avrebbe come unico ed inevitabile risultato quello di sottrarre numerose energie, che potrebbero invece essere molto più proficuamente utilizzate nella costruzione di calorosi ed appaganti rapporti con gli altri.

E’ dolorosissima l’esperienza del non aver sperimentato l’affetto e l’amore genitoriale. Oltre alla terapia, però, ci sono alcune strategie che si possono mettere in atto una volta che si è riconosciuto che la mancanza di amore nell’infanzia fa sì che la conseguenza in età adulta sia la difficoltà nel provare a propria volta sentimenti di amore autentico.

Si può, in primo luogo, provare ad ammettere di aver avuto dei genitori anaffettivi. Spesso si preferisce mentirsi piuttosto che confrontarsi con la dura realtà. In questo caso, come in altri, non è però di alcun aiuto. Ammettere ad alta voce di non aver ricevuto amore dai propri genitori è un primo passo importante perché permette di riconoscere una mancanza che è stata con sé ogni giorno.

Inoltre, è importante essere consapevoli che razionalizzare l’esperienza, cercare di capire perché i genitori non hanno dato affetto, analizzare minuziosamente ogni dettaglio della relazione con loro aumenta il livello di comprensione (il che può essere comunque positivo), anche se non fa magicamente svanire la sofferenza.

Un figlio che non è stato amato, poi, deve saper riconoscere che di questo non ne ha colpa. I figli dei genitori anaffettivi crescono con la convinzione di non meritare l’amore di costoro. Una volta adulti però, è importante che riconoscano di non essere colpevoli per questa mancanza d’affetto. E’ importante sviluppare la consapevolezza che l’amore non può tutto, lasciando andare definitivamente l’illusione di poter cambiare i genitori e il rapporto con loro.

Una volta diventati adulti e consapevoli di aver avuto dei genitoriche non hanno saputo dare amore, una volta preso contatto con quella carenza, con bisogno di affetto che non è stato colmato è importante riconoscere che il vuoto che sentiamo non può essere colmato. Ciò non significa che non si riceverà mai amore da qualcun altro, dagli amici, dal partner…, ma significa accettare che quella ferita potrà essere pure guarita, benché abbia lasciato una cicatrice indelebile. Anche se improvvisamente il rapporto con i propri genitori dovesse migliorare, si riceverebbe l’amore di un genitore nei confronti di un figlio adulto e non quell’amore incondizionato e protettivo di cui invece ha bisogno un bambino piccolo.

Accettando questo fatto ci si protegge dal rischio di ricercare quell’amore in altre relazioni, per esempio nelle relazioni d’amore, e si evita di perpetuare un circolo di infelicità.

SI può tentare di agire come Argia, che torna in Sicilia con le ceneri della sorella, trova nel viaggio l’occasione per ripensare al suo doloroso passato, all’amore che è stato negato a lei e a Dervia, agli errori che sono stati commessi da tutti, genitori e figli. E, come scrive Carmela, è “l’ultima occasione per salvare dalle macerie ciò che resta e finalmente ricostruire”.

Le ombre della maternità

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Qualche giorno fa mi sono imbattuta, nella Rete, in un articolo che, davvero, mi ha fatto perdere la pazienza…Era un articolo sulla maternità, forse voleva essere ironico, ma a me ha solo fatto voglia di gettare a terra il portatile su cui lo stavo leggendo. Terminava così…Capirete…che è vero che le mamme hanno i superpoteri. In primis quello di trovare sempre nuove inaspettate risorse.

Ho ripensato a quando sono diventata madre per la prima volta. A quando le giornate con mia figlia non passavano mai. Alla solitudine. Ai pianti. Alle passeggiate sotto la pioggia che facevo pur di uscire un po’ di casa. Ai silenzi che erano interrotti solo dalle urla e dal pianto. Al bisogno di leggerezza. Alla voglia di essere donna.
Altro che risorse sempre nuove e inaspettate!

A tante maternità segue lo svuotamento, il buio, l’angoscia. E lo svuotamento, il buio, l’angoscia accompagnano tante maternità. Manca il coraggio di dirlo. Di urlarlo. Ma accade.

La nostra società, l’Occidente moderno e progredito ci sbatte violentemente in faccia il mito della madre eternamente appagata e felice. Ogni figlio è un dono. Che ci piaccia o no.
Spesso, però, una volta che si sono cambiati i pannolini, che si è allattato (non senza dolore…l’allattamento non sempre è il “momento magico” che l’immaginario collettivo ci vuole far credere), che si è fatto addormentare il proprio neonato, tutto quello che sta intorno diventa grigio, perde di colore. Depressione, rabbia, amarezza per le rinunce, per le aspirazioni professionali non realizzate, stanchezza, solitudine si parano davanti, rendendo la maternità un vissuto realmente umano, come la felicità di avere un figlio, la commozione, la dedizione, il senso di autorealizzazione che si prova.

La maternità è anche parti in ombra.

Ancor prima di partorire, però, una donna deve dare segni di felicità e deve stare molto attenta a non far trapelare la minima ambivalenza.
E’ successo anche a me. E la cosa più devastante, all’inizio, è stata quella di scoprirmi dei lati che non credevo di avere.
Il diventare madre è l’esperienza che mi ha cambiato di più in assoluto, nonostante la mia vita sia segnata da tante cesure. L’iniziare per tre volte una nuova vita in una nuova città. Cambiare, alla soglia dei trent’anni, professione e ricominciare da capo a studiare. Tanto per fare qualche esempio.
Quando è nata la mia prima figlia, che ho desiderato con tutta me stessa come pure suo fratello e sua sorella, ho scoperto di essere isterica, egoista, collerica. Ho scoperto che, dopo un po’, non riesco più a sopportare le richieste dei miei figli, che in loro compagnia ci si può anche annoiare. Che dopo un weekend passato a sentirli litigare, a riordinare il loro disordine, ho una gran voglia di iniziare una nuova settimana di lavoro, anche se so che sarà la settimana più pesante dell’anno.

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Quando nasce suo figlio, una madre deve potersi raccontare. Se non se lo permette, può accadere che la relazione con il suo bambino non si avvii in modo sano. Deve poter dire che ha bisogno di aiuto, che non vorrà mai offrire il suo seno al bambino perché ha paura di farlo, che il parto è stata l’esperienza più dolorosa della sua vita e che non lo dimenticherà, che ha fame anche lei, ha sete, ha bisogno di silenzio, che ha paura, che non sa se ce la fa.

Non si può non pensare al fatto che dietro a un bambino c’è una donna che lo ha messo al mondo e il suo compagno e che la nascita può anche non essere accompagnata da una felicità immensa. E non si può non pensare che nella nostra società ci sono tante madri che soffrono di solitudine, non perché siano sole, ma perché in una società dove conta la performance, la sofferenza di una madre non può esprimersi. Ci si deve dimostrare capace di passare indenne il passaggio da donna a madre, perché la maternità non è solo un fatto privato ma è fatta di sociale e la società chiede alle madri di mostrarsi capaci di trovare sempre nuove risorse, come dicevo all’inizio.

Le donne oggi sono molto preparate culturalmente, ma al contempo sono più colpite degli uomini dalla crisi economica, dalla precarietà, e quasi non ci sono politiche pubbliche di sostegno alla genitorialità. Spesso la fatica della maternità, la stanchezza, la frustrazione creano difficoltà nel prendersi cura di sé e difficoltà nel chiedere aiuto.
E’ importante allora cercare di stare insieme in gruppo perché sentirsi sostenute da un gruppo è sicuramente un’esperienza che può aiutare madre e figlio a “separarsi” in modo sano nel senso di trovare strade parallele su cui camminare fianco a fianco.

Sul territorio in cui vivo è nato e vive da qualche anno un progetto che si configura come un percorso di supporto, solidarietà, a una fascia di popolazione fragile, più esposta di altre ai colpi e ai contraccolpi della società, vale a dire le neo-madri sole o con una rete personale che non è adatta a dar loro sostegno.
Questo progetto, che è stato chiamato “Colazione delle mamme” ed è diventato piuttosto noto nel territorio del rhodense, è nato dall’incontro di madri che faticavano nel loro nuovo ruolo ma che hanno avuto il coraggio di riconoscere le loro fatiche e che sono arrivate prima delle istituzioni locali nel dare una risposta a un bisogno sociale che sta diventando sempre più forte e che non si può né si deve tenere nell’ombra.
Queste madri, queste donne, hanno saputo creare una realtà che favorisce l’incontro tra coloro che sono madri da poco e vivono questa loro nuova condizione in solitudine, una realtà per promuovere dialogo su un tema di cui si ha paura di parlare perché può sembrare sconveniente, che si propone di aiutare chi non ce l’ha a crearsi tutt’intorno una solida rete.

E noi pedagogisti? Noi educatori? Come possiamo metterci in gioco?

Sappiamo che è normale che una donna provi sentimenti ambivalenti durante la gravidanza e sappiamo anche che la società da una parte riconosce alle donne uno status sociale rilevante quando sono in attesa dei loro figli e dall’altra parte le chiuse in una sorta di gabbia fatta di aspettative che spesso lasciano alle donne la sensazione di una frattura interiore.
Si è portati, inoltre a considerare la gravidanza e il post-partum due momenti importanti nella vita di una donna, ma separati da tutto il resto di questa stessa vita. E’ facile, allora, comprendere perché i vissuti emotivi di una donna in gravidanza e nel momento appena dopo il parto siano spesso negati, soprattutto quelli negativi..
In realtà, la gravidanza e il post partum non sono una parentesi destinata a chiudersi ma sono strettamente intrecciati ad un prima e ad un dopo che li condizionano. Il passato, l’infanzia, il rapporto che una donna ha con sua madre condizionano fortemente il suo modo di vivere la gravidanza, così come la sua gravidanza e il suo puerperio ci raccontano già molto del tipo di rapporto che vorrà instaurare con suo figlio e con quell’uomo che dal momento in cui il bambino nascerà non sarà più solo il suo compagno ma anche il padre di suo figlio.

Per questi motivi, noi pedagogisti possiamo pensare di elaborare dei percorsi teorici ma anche pratici in grado di accogliere e contenere i vissuti delle donne.
In primo luogo sarebbe importante dare spazio alla narrazione e lasciare che le donne facciano uscire quei vissuti emotivi che non hanno quasi mai il coraggio di raccontare. Una madre che non ha vissuto serenamente la gravidanza e il periodo dopo il parto, infatti, rischia di non riuscire a essere protagonista del ruolo educativo nei confronti del figlio e del rapporto affettivo con lui.
E poi si potrebbe pensare a percorsi di preparazione al parto che non siano, come speso accade oggi ai corsi pre-parto (e l’ho vissuto in prima persona), occasioni mancate, pensate per dare alla donna informazioni pratiche senza preoccuparsi di dare ascolto alle sue paure e alle sue difficoltà. E’ importante informare le donne su cosa accadrà al momento del parto ma non è sufficiente. La scelta di avere un figlio è complessa ed è fondamentale che le donne non solo siano destinatarie di sapere in questo momento della vita, ma devono essere anche fonte di questo stesso sapere, perché nessuno meglio di loro sa che cosa vuol dire essere in gravidanza.

E una volta che una donna diventa madre, dopo il parto, si deve pensare alla possibilità di sostenerla nei primi mesi di vita del bambino.
Una volta uscita dall’ospedale, infatti, la nuova famiglia si trova spesso in balia di sentimenti ed eventi nuovi e sconvolgenti, che, sulla base di come sono vissuti, possono condizionare in maniera determinante la qualità della relazione dei nuovi genitori con il bambino e tra di loro.
La madre vede mutare radicalmente i propri ritmi di vita, si trova costretta in casa per la maggior parte della giornata, impegnata solo a prendersi cura del piccolo, il quale spesso, impegnato nell’adattamento alla nuova condizione, piange. Per questo si trova spesso in preda di sentimenti ambivalenti: paura e sicurezza, amore e insofferenza, senso di inadeguatezza e gioia. C’è inoltre spesso la pressione della rete sociale, con le sue aspettative e con i suoi consigli, a rendere ancora più difficile questi momenti.

Noi professionisti dell’educazione, allora, possiamo pensare, in appoggio alle realtà come quella della “Colazione delle mamme”, a mettere a punto percorsi finalizzati a offrire sostegno alle donne in questo particolare momento, organizzando un clima facilitante in cui le donne possano sentirsi libere di esprimere paure, rabbie, delusioni, gioie, certe di poter contare su un facilitatore esperto e su un gruppo di donne che vivono le stesse situazioni. Un pedagogista, in queste circostanze, può essere un importante punto di riferimento. Può aiutare le donne a sciogliere i dubbi sull’educazione, sulle regole e sul sonno. Può far sì che le donne diano voce alle loro paure, dal momento che la sua formazione lo rende un professionista attento ed empatico, in grado di allargare le maglie spesso troppo strette di quello che viene comunemente considerato normale. Un approccio di tipo pedagogico può inoltre far sì che le donne individuino le risorse residue da attivare per poter acquistare sicurezza in sé.