Qualche giorno fa mi sono imbattuta, nella Rete, in un articolo che, davvero, mi ha fatto perdere la pazienza…Era un articolo sulla maternità, forse voleva essere ironico, ma a me ha solo fatto voglia di gettare a terra il portatile su cui lo stavo leggendo. Terminava così…Capirete…che è vero che le mamme hanno i superpoteri. In primis quello di trovare sempre nuove inaspettate risorse.
Ho ripensato a quando sono diventata madre per la prima volta. A quando le giornate con mia figlia non passavano mai. Alla solitudine. Ai pianti. Alle passeggiate sotto la pioggia che facevo pur di uscire un po’ di casa. Ai silenzi che erano interrotti solo dalle urla e dal pianto. Al bisogno di leggerezza. Alla voglia di essere donna.
Altro che risorse sempre nuove e inaspettate!
A tante maternità segue lo svuotamento, il buio, l’angoscia. E lo svuotamento, il buio, l’angoscia accompagnano tante maternità. Manca il coraggio di dirlo. Di urlarlo. Ma accade.
La nostra società, l’Occidente moderno e progredito ci sbatte violentemente in faccia il mito della madre eternamente appagata e felice. Ogni figlio è un dono. Che ci piaccia o no.
Spesso, però, una volta che si sono cambiati i pannolini, che si è allattato (non senza dolore…l’allattamento non sempre è il “momento magico” che l’immaginario collettivo ci vuole far credere), che si è fatto addormentare il proprio neonato, tutto quello che sta intorno diventa grigio, perde di colore. Depressione, rabbia, amarezza per le rinunce, per le aspirazioni professionali non realizzate, stanchezza, solitudine si parano davanti, rendendo la maternità un vissuto realmente umano, come la felicità di avere un figlio, la commozione, la dedizione, il senso di autorealizzazione che si prova.
La maternità è anche parti in ombra.
Ancor prima di partorire, però, una donna deve dare segni di felicità e deve stare molto attenta a non far trapelare la minima ambivalenza.
E’ successo anche a me. E la cosa più devastante, all’inizio, è stata quella di scoprirmi dei lati che non credevo di avere.
Il diventare madre è l’esperienza che mi ha cambiato di più in assoluto, nonostante la mia vita sia segnata da tante cesure. L’iniziare per tre volte una nuova vita in una nuova città. Cambiare, alla soglia dei trent’anni, professione e ricominciare da capo a studiare. Tanto per fare qualche esempio.
Quando è nata la mia prima figlia, che ho desiderato con tutta me stessa come pure suo fratello e sua sorella, ho scoperto di essere isterica, egoista, collerica. Ho scoperto che, dopo un po’, non riesco più a sopportare le richieste dei miei figli, che in loro compagnia ci si può anche annoiare. Che dopo un weekend passato a sentirli litigare, a riordinare il loro disordine, ho una gran voglia di iniziare una nuova settimana di lavoro, anche se so che sarà la settimana più pesante dell’anno.
Quando nasce suo figlio, una madre deve potersi raccontare. Se non se lo permette, può accadere che la relazione con il suo bambino non si avvii in modo sano. Deve poter dire che ha bisogno di aiuto, che non vorrà mai offrire il suo seno al bambino perché ha paura di farlo, che il parto è stata l’esperienza più dolorosa della sua vita e che non lo dimenticherà, che ha fame anche lei, ha sete, ha bisogno di silenzio, che ha paura, che non sa se ce la fa.
Non si può non pensare al fatto che dietro a un bambino c’è una donna che lo ha messo al mondo e il suo compagno e che la nascita può anche non essere accompagnata da una felicità immensa. E non si può non pensare che nella nostra società ci sono tante madri che soffrono di solitudine, non perché siano sole, ma perché in una società dove conta la performance, la sofferenza di una madre non può esprimersi. Ci si deve dimostrare capace di passare indenne il passaggio da donna a madre, perché la maternità non è solo un fatto privato ma è fatta di sociale e la società chiede alle madri di mostrarsi capaci di trovare sempre nuove risorse, come dicevo all’inizio.
Le donne oggi sono molto preparate culturalmente, ma al contempo sono più colpite degli uomini dalla crisi economica, dalla precarietà, e quasi non ci sono politiche pubbliche di sostegno alla genitorialità. Spesso la fatica della maternità, la stanchezza, la frustrazione creano difficoltà nel prendersi cura di sé e difficoltà nel chiedere aiuto.
E’ importante allora cercare di stare insieme in gruppo perché sentirsi sostenute da un gruppo è sicuramente un’esperienza che può aiutare madre e figlio a “separarsi” in modo sano nel senso di trovare strade parallele su cui camminare fianco a fianco.
Sul territorio in cui vivo è nato e vive da qualche anno un progetto che si configura come un percorso di supporto, solidarietà, a una fascia di popolazione fragile, più esposta di altre ai colpi e ai contraccolpi della società, vale a dire le neo-madri sole o con una rete personale che non è adatta a dar loro sostegno.
Questo progetto, che è stato chiamato “Colazione delle mamme” ed è diventato piuttosto noto nel territorio del rhodense, è nato dall’incontro di madri che faticavano nel loro nuovo ruolo ma che hanno avuto il coraggio di riconoscere le loro fatiche e che sono arrivate prima delle istituzioni locali nel dare una risposta a un bisogno sociale che sta diventando sempre più forte e che non si può né si deve tenere nell’ombra.
Queste madri, queste donne, hanno saputo creare una realtà che favorisce l’incontro tra coloro che sono madri da poco e vivono questa loro nuova condizione in solitudine, una realtà per promuovere dialogo su un tema di cui si ha paura di parlare perché può sembrare sconveniente, che si propone di aiutare chi non ce l’ha a crearsi tutt’intorno una solida rete.
E noi pedagogisti? Noi educatori? Come possiamo metterci in gioco?
Sappiamo che è normale che una donna provi sentimenti ambivalenti durante la gravidanza e sappiamo anche che la società da una parte riconosce alle donne uno status sociale rilevante quando sono in attesa dei loro figli e dall’altra parte le chiuse in una sorta di gabbia fatta di aspettative che spesso lasciano alle donne la sensazione di una frattura interiore.
Si è portati, inoltre a considerare la gravidanza e il post-partum due momenti importanti nella vita di una donna, ma separati da tutto il resto di questa stessa vita. E’ facile, allora, comprendere perché i vissuti emotivi di una donna in gravidanza e nel momento appena dopo il parto siano spesso negati, soprattutto quelli negativi..
In realtà, la gravidanza e il post partum non sono una parentesi destinata a chiudersi ma sono strettamente intrecciati ad un prima e ad un dopo che li condizionano. Il passato, l’infanzia, il rapporto che una donna ha con sua madre condizionano fortemente il suo modo di vivere la gravidanza, così come la sua gravidanza e il suo puerperio ci raccontano già molto del tipo di rapporto che vorrà instaurare con suo figlio e con quell’uomo che dal momento in cui il bambino nascerà non sarà più solo il suo compagno ma anche il padre di suo figlio.
Per questi motivi, noi pedagogisti possiamo pensare di elaborare dei percorsi teorici ma anche pratici in grado di accogliere e contenere i vissuti delle donne.
In primo luogo sarebbe importante dare spazio alla narrazione e lasciare che le donne facciano uscire quei vissuti emotivi che non hanno quasi mai il coraggio di raccontare. Una madre che non ha vissuto serenamente la gravidanza e il periodo dopo il parto, infatti, rischia di non riuscire a essere protagonista del ruolo educativo nei confronti del figlio e del rapporto affettivo con lui.
E poi si potrebbe pensare a percorsi di preparazione al parto che non siano, come speso accade oggi ai corsi pre-parto (e l’ho vissuto in prima persona), occasioni mancate, pensate per dare alla donna informazioni pratiche senza preoccuparsi di dare ascolto alle sue paure e alle sue difficoltà. E’ importante informare le donne su cosa accadrà al momento del parto ma non è sufficiente. La scelta di avere un figlio è complessa ed è fondamentale che le donne non solo siano destinatarie di sapere in questo momento della vita, ma devono essere anche fonte di questo stesso sapere, perché nessuno meglio di loro sa che cosa vuol dire essere in gravidanza.
E una volta che una donna diventa madre, dopo il parto, si deve pensare alla possibilità di sostenerla nei primi mesi di vita del bambino.
Una volta uscita dall’ospedale, infatti, la nuova famiglia si trova spesso in balia di sentimenti ed eventi nuovi e sconvolgenti, che, sulla base di come sono vissuti, possono condizionare in maniera determinante la qualità della relazione dei nuovi genitori con il bambino e tra di loro.
La madre vede mutare radicalmente i propri ritmi di vita, si trova costretta in casa per la maggior parte della giornata, impegnata solo a prendersi cura del piccolo, il quale spesso, impegnato nell’adattamento alla nuova condizione, piange. Per questo si trova spesso in preda di sentimenti ambivalenti: paura e sicurezza, amore e insofferenza, senso di inadeguatezza e gioia. C’è inoltre spesso la pressione della rete sociale, con le sue aspettative e con i suoi consigli, a rendere ancora più difficile questi momenti.
Noi professionisti dell’educazione, allora, possiamo pensare, in appoggio alle realtà come quella della “Colazione delle mamme”, a mettere a punto percorsi finalizzati a offrire sostegno alle donne in questo particolare momento, organizzando un clima facilitante in cui le donne possano sentirsi libere di esprimere paure, rabbie, delusioni, gioie, certe di poter contare su un facilitatore esperto e su un gruppo di donne che vivono le stesse situazioni. Un pedagogista, in queste circostanze, può essere un importante punto di riferimento. Può aiutare le donne a sciogliere i dubbi sull’educazione, sulle regole e sul sonno. Può far sì che le donne diano voce alle loro paure, dal momento che la sua formazione lo rende un professionista attento ed empatico, in grado di allargare le maglie spesso troppo strette di quello che viene comunemente considerato normale. Un approccio di tipo pedagogico può inoltre far sì che le donne individuino le risorse residue da attivare per poter acquistare sicurezza in sé.
Marta sei sempre puntuale, ogni articolo arricchisce e solleva interrogativi. Condivido ogni parola, avevo fatto la mia tesi di laurea in scienze dell’educazione sull’argomento ed è proprio così, in questa società sempre più social, non c’è spazio per la sofferenza, specie se conseguenza della gravidanza e della meo-maternità.
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Grazie Nadia del commento. È un tema che mi sta molto a cuore, sia come pedagogista sia come madre che ha attraversato la sofferenza di cui parlo
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Ho letto e condivido tutto, e come si fa ad accettare un figlio che non si voleva e si è fatto per amore del compagno? A tutti i sentimenti negativi dell’articolo io mi trovo a vivere anche il mio errore, che non mi perdono: non ho mai voluto un figlio e ho sbagliato a farlo….
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Grazie per la tua testimonianza. È importante che tu riesca a dire e a dirti di quello che tu chiami “errore”. Credo che sarebbe importante per te trovare risorse (dentro di te e al di fuori) per camminare serena a fianco di tuo figlio
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