La fatica dell’educare. Il burnout e le strategie di prevenzione

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Sabato 19 gennaio ho avuto il privilegio di partecipare al Convegno “La fatica dell’educare”, patrocinato dall’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale e organizzato dal Team inRelazione in collaborazione con la cattedra del professor Raffone dell’Universita’ La Sapienza di Roma. Il convegno, non a caso, io credo, si è tenuto in un luogo meraviglioso, dove si è respirata tanta bellezza, la Promoteca del Campidoglio.

Si è parlato di burnout e di quanto sia importante la sua prevenzione.

Sono sempre più frequenti, nella cronaca, i racconti di episodi di maltrattamento di bambini o utenti “fragili” (anziani, disabili,…) da parte di educatrici o insegnanti. Racconti che, ogni volta, mi lasciano incredula. Attonita.

E’ doloroso pensare, in queste circostanze, alla paura che hanno provato i bambini maltrattati. È doloroso sentirsi parte di un “brutto mondo” perché si fa lo stesso mestiere. È doloroso percepire i pregiudizi delle famiglie e il loro peso.

Io sono una pedagogista. Prima ancora un’educatrice. Lavoro in un nido. E sono molto fiera del mestiere che faccio; lo amo molto e mi dà tante soddisfazioni.

Ho studiato per diventare ciò che sono. Ho fatto un lungo percorso, millemila ore di tirocinio con insegnanti che, in università, mi avrebbero fermata se si fossero resi conto che non ero motivata a sufficienza. Perché educare è fatica e senza una motivazione profonda non si può fare questo mestiere.

E come me, tante…tantissime colleghe, che rispettano i bambini, li ascoltano, partecipano con entusiasmo alle loro giornate.

Fa male sentire racconti di botte, grida, vessazioni.

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Tante persone…anche colleghe…sostengono che la soluzione a queste brutture siano le telecamere. Credetemi, non è così. Le telecamere possono essere un ottimo strumento di propaganda politica (e, infatti, persone che di pedagogia non ne sanno nulla stanno discutendo in Parlamento di un disegno di legge che vuole renderle obbligatorie nei nostri servizi per l’infanzia) ma non servono a prevenire i casi di maltrattamento. Potranno, forse, tamponare una situazione di emergenza ma non sono una soluzione definitiva.

Non credo che ci siano “cattive educatrici”. Ci sono, però, educatrici che, a un certo momento, iniziano a stare male. Non riescono più a emozionarsi. Si sentono inutili e inadeguate. Non trovano più soddisfazioni personali nella professione. Sono vittime del Burnout, uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale che deriva dal coinvolgimento prolungato nel tempo in situazioni lavorative emotivamente impegnative, proprio come quella che si verifica in un servizio educativo in cui ci si prende cura dei bambini.

Non sto sostenendo che tutte le educatrici, prima o poi, nella loro vita lavorativa, saranno assalite dal burnout…anzi…molte non ne saranno neppure sfiorate. Non dobbiamo però pensare che a noi non accadrà mai. È in agguato. È importante, quindi, focalizzarci sulle strategie di prevenzione.

Il burnout è una forma molto seria di stress cronico, in grado di compromettere la capacità lavorativa di una persona. Chi lavora nei servizi per l’infanzia è a rischio. Diciamolo. Diciamocelo. Riflettiamoci su. Con molta attenzione e coscienza. E, soprattutto, senza paura.

Nei servizi che si occupano di infanzia sono tanti gli zoccoli duri: c’è il problema di un eccessivo numero di bambini per educatrice/insegnante (1/28 è un numero molto alto, ma è quello consentito dalla legge nella scuola dell’infanzia); c’è il problema della precarietà, delle difficoltà relazionali tra colleghe, dello scarso riconoscimento all’esterno, dei rapporti con le famiglie che, sempre più spesso, sono difficili e problematici.

Ogni educatrice, inoltre, quando inizia il suo lavoro ha delle aspettative sull’importanza dei propri compiti e sul ruolo sociale che ha, aspettative che possono essere anche molto elevate. È possibile, però, che nella realtà si scontri con il mancato riconoscimento della propria professionalità da parte dei genitori, con l’idea di una paga (giustamente o ingiustamente) percepita come inadeguata per il delicato lavoro che si svolge, col trovarsi a dover sacrificare alcuni aspetti importanti della propria vita per il lavoro. E se non si hanno le risorse (interne ed esterne) per far fronte in maniera razionale a questo iato tra aspettative e realtà, si può facilmente andare incontro al burnout.

Si legge ad un certo punto, nel libro “inRelazione”: Gli antichi greci articolavano la conoscenza in “episteme”, “techne” e “phronesis”, vale a dire “conoscenze certe”, “abilità tecniche” e “saggezza pratica”. Sono sempre state enfatizzate l’episteme e la techne, mentre è stata messa a margine la phronesis, le abilità emotive che, se ben sviluppate, hanno la capacità di moderare e di limitare l’effetto dello stesso tipico del nostro ambiente lavorativo.

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Il metodo inRelazione è un percorso di formazione che ha proprio l’obiettivo di incrementare le competenze emotive e relazionali di chi fa un lavoro di natura educativa. E’ un percorso impegnativo; copre l’arco di un interno fine settimana e tutte sappiamo quanto abbiamo bisogno del sabato e della domenica per ricaricarci e riprenderci dalle fatiche della settimana. E’, però, anche un percorso che ti aiuta a prendere coscienza di te, della tua fragilità, delle tue fatiche di professionista che lavora con i bambini. Contribuisce a renderti più solida dal punto di vista emotivo e relazionale, aiutandoti a rinforzare il Sè e dandoti strumenti e occasioni per entrare in contatto con il tuo “bambino interiore”, per ritrovare la giusta motivazione e migliorare la qualità del lavoro con i bambini.

Quando ho partecipato al training, nel settembre 2018, ero molto affaticata nonostante l’anno educativo fosse appena agli inizi. Ero alle prese con un ambientamento che sentivo impegnativo e non ero certa di avere le risorse per portarlo a termine come avrei voluto.
La formazione mi aiutato a “centrarmi” nuovamente. Ed ho cambiato sguardo su ciò che mi stata accadendo nel lavoro.
Ho capito che, per poter procedere, dovevo ascoltare le emozioni che quella situazione lavorativa aveva fatto nascere in me. Frustrazione, senso di ansia, affanno. Ho capito che dovevo mettere in campo le mie emozioni nella relazione con quella bambina che stava affrontando l’ambientamento. Non dovevo metterle da parte queste emozioni.
Solo così, infatti, questa relazione sarebbe diventata autentica e di qualità. Ho capito che potevo portare la mia fatica, la frustrazione, la difficoltà a tollerare il pianto disperato.
Si pensa che quando si sente la fatica nella relazione, sia colpa dell’altro, che è strano, sbagliato. Ma siamo sicuri che sia così? Nel nostro lavoro ci misuriamo con le difficoltà, le fatiche, perché anche noi educatrici siamo persone con dei limiti e dei difetti e con aspetti problematici nel nostro Sè. Non è facile arrivare ad essere consapevoli di questo, ma, quando accade, assumiamo una postura che ci porta ad accogliere il nostro vissuto e a scegliere, in base ad esso, come rispondere nel modo migliore alla situazione che stiamo vivendo, con il rispetto dei vissuti e dei bisogni della persona con cui siamo entrate in relazione.

Ci vuole tanta concentrazione per riuscire ad assumere una postura di questo genere…così è stato per me…Forse mi ha aiutata l’esperienza che ho maturato in tanti anni di lavoro con i bambini, le formazioni passate, il bisogno di sentirmi bene nel mio contesto lavorativo…
Quando ho ripreso il lavoro dopo il fine settimana di formazione ho sentito che ero pronta per guardare a quell’ambientamento con occhi differenti. Mi ha aiutata il sintonizzarmi con lo stato emotivo della bambina in ambientamento…con la sofferenza per l’allontanamento della madre, con la fatica a stare in un luogo nuovo e poco conosciuto, con persone anch’esse nuove e poco conosciute…L’ho abbracciata tanto, le ho raccontato del gruppo di bambini di cui avrebbe fatto parte, le ho fatto vedere le fotografie dell’anno precedente…Ad un certo punto non era più importante, per me, che smettesse di piangere. Era importante che sentisse che accoglievo il suo pianto e che lo avrei accolto finchè ne avesse avuto il bisogno. Questo mi ha fatto sentire meglio…
Se ti focalizzi sul voler far cessare un pianto disperato di un bambino che sta male, può nascere dentro di te un grande senso di frustrazione e un elevato livello di stress; se, al contrario, lasci che il bambino si esprima con la modalità di cui sente la necessità, che può essere anche il pianto, piano piano ti accorgerai che lui si sente meglio e, con lui, accadrà anche a te di sentirti meglio.

Ci si deve, quindi, focalizzare sulla qualità della relazione: in questo modo si può prevenire il burnout. Perché le relazioni siano di qualità in un contesto educativo è importante mettere in campo una buona capacità di ascolto, esterno ma anche interno: bisogna saper mettersi in contatto con l’altro e, contemporaneamente con sé stessi; perché questo succeda bisogna avere una buona consapevolezza di sé.

Questo ho appreso nel corso del training inRelazione. E credo che sia molto importante per essere una professionista migliore.

La “gestione creativa” dei conflitti tra i bambini e le bambine

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Tutti i giorni, più volte al giorno, sul lavoro, al nido, mi accade di assistere a un conflitto tra bambini. Un conflitto che nasce per il possesso di un oggetto; per avere più attenzioni dall’adulto; perché, in un gioco, si vuole ricoprire il ruolo che si è preso un compagno; perché qualcuno vuole imporre una condotta che, in quel momento, non si ha voglia di seguire. E potrei aggiungere esempi all’infinito.

Per un adulto, per i valori che ha dentro di se’, non è facile assistere a un conflitto senza pensare di intervenire per separare i litiganti. Se ci occupiamo della crescita dei bambini, però, vale la pena di fare qualche riflessione in merito. Cerchiamo di guardare al conflitto da un punto di vista differente da chi semplicemente pensa di metterne fine.

La vita è un conflitto continuo, in cui si alternano desideri e delusioni, aspirazioni e frustrazioni; il conflitto determina in noi pensieri e pensieri, notti insonni, gastriti e mal di stomaco. Siamo immersi nel conflitto sin da quando veniamo al mondo, quando dobbiamo affrontare l’angoscia del taglio del cordone ombelicale per poi iniziare il nostro lungo percorso di autonomia e della creazione della nostra identità. Tutte le scelte che facciamo comportano un conflitto, perché quando si sceglie una strada, inevitabilmente, se ne scarta un’altra, pur non avendo la certezza che la decisione presa sia quella giusta o la migliore per noi.

Per i bambini il conflitto è occasione di crescita (cognitiva, emotiva e sociale); siamo noi adulti a vivere con grande tensione le contrapposizioni che nascono tra loro (anche perché possono avere conseguenze “dolorose”)  e, quindi, ci poniamo l’obiettivo di interromperli quanto più velocemente possibile. Così facendo, però, priviamo i bambini e le bambine di esperienze utili alla loro vita è al loro sviluppo. Pensiamo allora di non cercare a tutti i costi di interrompere un conflitto tra bambini. Anche se siamo tentati di farlo.

Il conflitto è, inoltre, un’esperienza non tanto diversa da qualsiasi altra; è carico sì di significato ma nel qui ed ora. È una parte inevitabile del giocare insieme. Pertanto la reazione dell’adulto che vuole a tutti i costi metterne fine, disorienta i bambini, attribuisce contenuti presunti (e spesso errati) a episodi che per i bambini sono marginali, modificando così il valore che i bambini danno al conflitto.

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Se interveniamo noi adulti, infatti, il più delle volte, imponiamo una risoluzione del conflitto molto diversa da quella che i bambini avrebbero trovato naturalmente; oppure non permettiamo che i bambini trovino da se’ una mediazione attraverso le loro abilità. Ricordiamo, in proposito, che i bambini sono competenti e, pertanto, sono in grado di risolvere in autonomia anche situazioni complesse.

Riflettiamo, a questo punto, su un nodo importante. Un bambino che risolve un conflitto è un bambino che riesce ad adattare i propri bisogni al contesto in cui si trova ad essere e all’interno del quale è maturato quel conflitto e, inoltre, riesce a comprendere che al mondo ci sono anche gli altri, con i loro bisogni e le loro emozioni. E con i loro punti di vista.

E’ importante, quindi, non tanto concentrarsi sul porre fine al conflitto, ma piuttosto invitare i litiganti a esprimere le emozioni che stanno provando (domandando, per esempio, “perché sei tanto arrabbiato”, “cosa ti dà più fastidio in questa situazione?”,…) e poi cercare di far sì che si mettano uno nei panni dell’altro (“secondo te perché il tuo compagno ce l’ha con te?”,”perché è tanto arrabbiato?”,…). L’adulto deve far capire ai bambini che sono in conflitto che tutti hanno una parte di ragione e che non è necessario che qualcuno soccomba perché, in questo modo, i litiganti sono pronti a un atto di autoregolazione e a giungere alla “gestione creativa del conflitto”. Il bambino che abbandona al compagno l’oggetto della contesa (un giocattolo che gli piace molto, per esempio) assume un atteggiamento conciliativo ma non soccombe, dato che ha ceduto ciò a cui ambiva di sua volontà. Non è vero che chi assume un atteggiamento conciliativo è il più debole; costui, infatti, ha la capacità di fare una rinuncia, agito che richiede molte risorse interne. Pertanto è molto importante che l’adulto metta da parte le proprie idee di giustizia, che sono molto lontane dal pensiero infantile. Riflettiamoci bene su questo punto.

il conflitto tra bambini è, inoltre, un’occasio e per appendere il linguaggio delle relazioni. La pedagogia moralista del passato leggeva il litigio come qualcosa di sconveniente per un “bravo bambino” ed è anche per questo retaggio che ancora oggi molti adulti faticano a gestirlo in maniera “creativa”. Il conflitto, invece, è un’esperienza che può trasformarsi in occasione di apprendimento: insegna a ricercare le proprie risorse interne, necessarie per risolverlo. È relazione, inoltre, perché ciascuno di noi lo sperimenta nella propria esperienza relazionale quotidiana. Grazie al conflitto e alla capacità di affrontarlo come un momento dello “stare con l’altro” facciamo quotidianamente esercizio di apertura e di accettazione reciproca. È, pertanto, fondamentale lasciare ai bambini la possibilita’ di litigare, perché litigare è un diritto. Il bambino che non sperimenta il conflitto facilmente diventerà un adulto che avrà difficoltà a riconoscere la differenza tra la violenza e la necessità legittima di esprimere le proprie opinioni e ad affrontare in maniera costruttiva le difficoltà relazionali.

L’importanza (e la fatica) di dare regole e porre limiti

Spesso le famiglie che incontro nel corso del mio lavoro come coordinatrice ed educatrice di un nido di infanzia raccontano che desiderano che il loro bambino o la loro bambina frequenti il nido perché possa “apprendere le regole”.

Nell’immaginario comune, quindi, il nido è un luogo in cui, tra le altre cose si apprendono le regole. Questo merita di fermarci a fare un ragionamento. Se davvero è così, che ne è della famiglia? Forse la famiglia è il luogo esclusivo degli affetti e l’istituzione (il nido e poi la scuola) è il luogo delle regole? Se condividiamo questo pensiero, allora riteniamo che i bambini siano costretti a transitare in luoghi che hanno valori diversi, senza continuità gli uni con gli altri, senza che gli adulti che li circondano condividano idee e intenzioni. Io, però, credo che famiglie, educatori ed insegnanti debbano trovare unità di intenti, benché con stili diversi, indirizzando i bambini al valore del limite, e quindi della regola, come valore fondamentale per la crescita, perché possano avere sicurezza, autonomia ed indipendenza ed orientarsi nella vita.

Sto parlando di poche regole. Regole certe, chiare, adeguate all’età, motivate. E, soprattutto, fatte rispettare senza infinite negoziazioni.

Non è facile educare alla regola. Questo è il motivo per cui spesso le famiglie chiedono aiuto a noi educatori o, addirittura, delegano questo aspetto…un poco scomodo…dell’educazione. Talvolta gli adulti credono che i bambini piccoli non abbiano le competenze per comprendere ed affrontare le regole e che, quindi, sia prematuro porle. O, addirittura, sbagliato. In realtà l’educazione non è tanto un problema di tempi, quanto piuttosto di esempi: non c’è un “momento giusto” in cui i bambini sono pronti per apprendere le regole, perché queste non sono frutto di un apprendimento disciplinare ma si interiorizzano con lentezza, nel corso di tutta la vita. Si apprendono fin da piccolissimi quando, per esempio, si aspetta, con grande fatica e frustrazione, il turno per mangiare e si comprende (emotivamente e cognitivamente) la regola dell’attesa.

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Incontri tra generazioni: il nido e il centro diurno per anziani

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Lo scorso anno educativo (2017-18) abbiamo messo a punto un progetto che ha coinvolto i bambini del nido e gli anziani di un centro diurno del territorio, una proposta nata all’interno delle progettazioni di percorsi intergenerazionali che si rifanno agli aspetti più pregnanti della psicologia del ciclo di vita. Una delle proposte più emozionanti che mi sia trovata a vivere nella mia carriera di educatrice e pedagogista.

L’idea di partenza di questo progetto è che gli anziani e i bambini stanno bene insieme e possono essere una ricchezza gli uni per gli altri. E’ molto importante che gli anziani siano messi nelle condizioni di conciliare l’identità passata con quella presente attraverso il recupero di un senso di continuità con il tempo trascorso e con l’insegnamento e il ricordo da lasciare alle generazioni future e il contatto con i bambini può far “rivivere” e restituire una dimensione progettuale sul domani che renda protagonisti della propria vita.

Allo stesso tempo, per i bambini è fondamentale creare un legame con il passato, conoscere quello che viene prima del qui ed ora e indagare le proprie origini e provenienze. Il tempo trascorso con gli anziani diventa, quindi, un’occasione per sperimentare forme di socialità diversa, di sentirsi parte di una comunità che non è fatta solo di bambini ma anche di persone molto diverse, ma con ritmi e tempi di vita simili.

La gestione del tempo quotidiano nelle nostre città non facilita gli scambi tra generazioni. Si ha la tendenza a pensare i diversi momenti della giornata come spazi e tempi monogenerazionali; i bambini stanno con i bambini, gli anziani con gli anziani. Lo scambio e l’incontro fra età diverse diventa pertanto raro e gli ambienti di vita e quelli educativi perdono la loro dimensione di comunità, di inclusione delle differenze anche anagrafiche, di appartenenza a un contesto vitale ampio.

442a1303-5cbf-4fb0-bbc5-032c3d56db0cE’ nata quindi la proposta di articolare un progetto che vede coinvolte due realtà diverse del territorio del Comune in cui lavoro: l’Asilo Nido  e la Residenza per Anziani. Due realtà che sono vicine nello spazio e perché entrambe hanno come fine la dimensione della cura. Una proposta concreta per il recupero e il consolidamento delle relazioni e della solidità intergenerazionale, che ha creato reali e concrete occasioni di scambio e condivisione tra bambini e anziani , superando gli elementi di separazione e di allontanamento.

Il giorno in cui il progetto, dopo tutto il lavoro di progettazione, pianificazione e organizzazione, è partito ho pensato a quanto fossi fortunata nel fare l’educatrice…Ero colma di felicità e non vedevo l’ora di vivere l’incontro tra i bambini e gli anziani. Ed ero curiosa di vedere come le parole scritte nel progetto si  potessero trasformare in comportamenti, voci, incontri concreti.

Quando, insieme ai bambini, siamo giunti alla residenza per anziani, eravamo tutti emozionati…i bambini erano un po’ sorpresi…i nonni sorridevano…hanno iniziato a studiarsi reciprocamente, tanto diversi eppure tanto simili.  Come programmato, nel corso del primo incontro, abbiamo letto un albo illustrato che al nido amiamo molto, “Un Gioco” di Tullet. I bambini conoscevano nel dettaglio la trama e hanno partecipato con il consueto entusiasmo alla narrazione, intervenendo, anticipando le risposte, ascoltando rapiti.I nonni si sono sforzati al massimo di essere espressivi e di partecipare con i bambini alla lettura. E ci sono riusciti benissimo.

Il lavoro pedagogico si costruisce attraverso la ricerca dei significati e l’ascolto delle emozioni presenti nelle diverse esperienze educative…pertanto, alla fine della lettura, abbiamo chiesto se qualcuno avesse voglia di  raccontare una storia… Si è alzata Vittoria, la bambina più taciturna e introversa del nido…Voleva raccontare lei una storia…E poi si è alzato Sebastiano, uno degli ospiti della residenza, e ha chiesto anche lui di raccontare…Ci ha mostrato una vecchia foto, di quando abitava a Siracusa…ci sono il principe Carlo e Lady Diana in viaggio di nozze…e lui…di spalle…Ci ha emozionate questo intervento…narrar-si aiuta a restituire al proprio essere dignità e senso, in una società del qui e ora che troppo spesso dimentica gli anziani.

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Dopo tre visite in RSA, abbiamo ospitato al nido alcuni dei “nonni” ospiti del centro diurno…Abbiamo dedicato tempo e cura al preparare la visita…ed è stato ancora più  emozionante di come ce l’aspettassimo!
Il contatto con gli anziani ha portato i bambini a ritmi più lenti, rendendoli più tranquilli e portandoli a concentrarsi di più…A loro volta gli anziani nel rapporto con i bambini sembravano tornati, sia pur per brevi momenti, giovani adulti responsabili…sono riaffiorate tracce di esperienze lontane, intime, vissute come genitori; in un momento della vita nel quale tutto sembra “restringersi”, la sfera emotiva dei “nonni”, sia pur per poco, si è allargata ancora grazie all’incontro con questi “nuovi nipotini”…È stata un’emozione pazzesca…Per tutti..

Ora mi propongo di far rivivere questo progetto, facendo incontrare nuovamente anziani e bambini e preparando delle interviste da somministrare agli ospiti della RSA incentrate sulle tematiche di cui ho parlato poco fa…le emozioni che riaffiorano negli incontri, le tracce delle antiche esperienze che sono tornate alla luce…E poi c’è un progetto ancora più grande, per cui, però, ci vorrebbe un finanziatore: costruire un nido all’interno di una residenza per gli anziani…Chissà…forse tra voi che leggete c’è qualcuno che potrebbe fare in modo che questo sogno diventi realtà…

Qualche riflessione sul pianto dei bambini

Cosa accade quando, di fronte a voi, un bambino scoppia in un pianto disperato? Cosa sentite dentro? Molti di voi, probabilmente, risponderanno che, se un bambino piange, la prima cosa che fanno è trovare il modo di calmarlo. Cercano di fare in modo che smetta di piangere. E cosa rispondono le educatrici e gli educatori che si prendono cura dei bambini molto piccoli? Probabilmente lo stesso. Aggiungono, forse, che cercherebbero di capire per quale motivo il bambino sta piangendo e, di conseguenza, proverebbero a soddisfare il suo bisogno.

Qualche mese fa ho avuto la fortuna di partecipare a un training formativo molto utile, condotto da due splendide persone e grandi professioniste, Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che hanno ideato il Metodo “in Relazione”, in cui si pongono al centro le emozioni e l’emotività di chi si occupa di educazione.
Nel corso della formazione, ad un certo momento, si sono fatte delle riflessioni sul pianto.
Che cos’è il pianto? E’ la prima modalità espressiva del neonato e l’unica modalità che ha di esprimere prima i bisogni e poi i desideri. Ed è la modalità che l’uomo utilizza, anche a linguaggio verbale ben acquisito, per esprimere emozioni non facilmente traducibili in parole.
Durante il pianto, la secrezione delle ghiandole lacrimali aumenta; queste, in condizione di quiete, producono una piccola quantità di liquido per mantenere idratata la cornea ed allontanare i corpi estranei, quando, però, la lacrimazione diventa abbondante e si piange, l’occhio si arrossa e le palpebre si gonfiano, come se il “lavaggio” fosse andato oltre le intenzioni.
Dal punto di vista fisiologico il pianto rappresenta uno stato di eccitazione seguito da un rilassamento. Tutti abbiamo provato la sensazione di profonda calma e tranquillità che invade il nostro corpo dopo aver pianto con intensità: il motivo di questo risiede nel fatto che il nostro organismo attraverso il pianto libera ossitocina, che agisce come un anestetico naturale. Quando si piange per dare sfogo a un’emozione si eliminano, inoltre, quelle sostanze tossiche in eccesso che il corpo produce in condizioni di stress.

Se è così…allora…perché affannarsi perché un bambino smetta di piangere?
Quando piange, infatti, un bambino, proprio come un adulto, libera la tensione che ha accumulato e può superare sensazioni di spavento, fatica, frustrazione. Scrive Aletha Solter in un meraviglioso libro che ho conosciuto grazie e Chiara ed Ornella, Lacrime e capricci. Cosa fare quando i bambini piangono., che è importante dare ascolto ai bambini che piangono. E’ importante accogliere il pianto. Il bambino che piange, quindi, non va ignorato, né distratto, né punito. Va accolto.

E’ tutt’altro che semplice mettersi in ascolto del pianto di un bambino, perché questo, spesso, suscita nell’adulto ansia, frustrazione, senso di colpa, che fanno sì che si chieda al bambino (a volte anche con insistenza) di smettere di piangere. Quando sentiamo un bambino piangere si crea in noi uno stress che è difficile placare o tenere sotto controllo e questo ci porta a pensare che se smetterà starà meglio. Ma, in realtà, saremo noi adulti a stare meglio se il bambino smetterà di piangere perché finiremo di essere sottoposti a tanto stress. E lui? Come si sentirà se non avrà potuto dare sfogo a tutte le tensioni che stava cercando di liberare? Siamo certi che si sentirà meglio?

Il chiedere a un bambino di smettere di piangere è anche un fatto di cultura. Nella nostra cultura occidentale il pianto è considerato sconveniente, a tutte le età, nonostante sia uno straordinario meccanismo di liberazione dalle tensioni e dallo stress e un modo non mediato e ragionato di essere in contatto con se stessi e con le proprie emozioni.
Non è sempre stato così e non è così ovunque.
Nella Grecia Antica, ad esempio, i grandi eroi omerici dell’Iliade e dell’Odissea non si vergognavano di piangere. Erano la viltà in guerra, il mancato rispetto dei patti, la violazione dei codici d’onore eroici o l’assenza di amor patrio che ne potevano macchiare la reputazione, non certo un pianto (di rabbia, commozione, disperazione…) che appariva invece come una spontanea manifestazione di vitalismo. Le lacrime, infatti, erano sentite dalla sensibilità dell’epoca eroica come un liquido vitale, al pari del sangue: un antidoto all’inerzia e all’aridità della morte.
Ci sono poi molte culture in cui il pianto ha un valore sociale. Ne sono una testimonianza tutti quei popoli di discendenza greca dove, per esempio, il valore di piangere per un defunto è tale da diventare, in certi casi, più importante del rito funerario stesso. In questa circostanza un coro di donne viene retribuito dalla famiglia del defunto per piangerlo e ricordarne la figura attraverso “frasi fatte”. Più grande è il coro delle piangenti, maggiore è l’importanza del trapassato.

I bambini nascono piangendo ma disimparano a piangere molto presto, a causa dei condizionamenti e dei meccanismi di controllo che i genitori (ma anche certi educatori, ahimè) mettono in atto per distrarli dal piangere.
Sostenere il pianto disperato e la rabbia di un bambino è una delle cose più difficili che mi sia mai capitata di fare, ma è di ascolto sincero e consapevole che i bambini hanno bisogno; distoglierli dal piangere o dall’arrabbiarsi sarebbe far loro una grande ingiustizia. E si contribuirebbe, in loro, alla creazione di un falso Sè.
Quando sono al nido e uno dei bambini che è con me piange, adesso, grazie alle riflessioni fatte dopo l’incontro con Chiara e Ornella, non cerco più di interrompere questo pianto, anche se per me questo è ancora molto faticoso e mi richiede tanta concentrazione. Cerco di mettermi in ascolto ed accolgo il pianto. Questo non vuol dire che “lascio piangere” il bambino, perché ciò significherebbe, da parte mia, assumere un atteggiamento passivo che il bambino percepirebbe e che sarebbe tutt’altro che di giovamento.
Attraverso il contatto fisico, l’abbraccio, le parole di conforto cerco di fare in modo che comprenda che io sono lì con lui e lo sto guardando senza giudicarlo; se ha bisogno di piangere, di liberare la sua ansia, le sue incertezze, è giusto che lo faccia ed è giusto incoraggiarlo in questo agito. In questo modo si sente compreso ed accettato e procede sereno nella crescita. Il pianto continuamente represso per un bisogno dell’adulto, invece, a lungo andare rende il bambino nervoso, incapace di concentrarsi, può causare dei malesseri. I bambini, a forza di piangere e non venire ascoltati, ad un certo punto smettono perchè si rassegnano al non ricevere riposte. Se, invece, rispondiamo al pianto con l’accoglienza di questo, il bambino avrà la conferma che il suo pianto, così come il sorriso, i suoi gesti, le sue espressioni, ha una qualche utilità, stabilisce un dialogo, lo pone nel ruolo di protagonista, gli dà fiducia in sé stesso e negli altri perché i suoi sforzi di comunicare non sono vani.

Se siete con un bambino che piange, fate uno sforzo e ditegli: “Piangi pure, caro, se vuoi farlo”…Questo potrà inizialmente spiazzarlo ma poi sarà per lui di grande conforto perché sentirà che state accogliendo un suo bisogno e lo accettate in modo autentico e incondizionato.

(Questo articolo è stato scritto dopo che ho partecipato al training inRelazione, condotto da Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che ringrazio e a cui sono debitrice di preziosi insegnamenti, e in seguito alla lettura del loro libro “inRelazione. Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola”)