Saper fare o saper essere? Cronache dai servizi per l’infanzia

All’università ci insegnano che l’educatore è colui che deve Sapere, Saper Essere, Saper fare. 

Vale a dire che colui che svolge una professione educativa intraprende un percorso caratterizzato da continui studi ed aggiornamenti (sapere) in quanto deve essere in grado di realizzare e attuare dei progetti educativi applicabili alle più diverse situazioni. Deve quindi avere acquisito e continuare ad acquisire delle specifiche conoscenze e competenze.

L’individuo nel corso della sua esistenza sviluppa, congiuntamente al sapere naturale e al sapere culturale, un sapere professionale, ovvero conoscenze, capacità e competenze (teoriche, pratiche ed esperienziali) richieste dalla professione che esercita. Questo sapere poi diventa un sapere orientato al proprio lavoro in modo deontologicamente corretto e finalizzato.

Il sapere di un educatore, quindi, lo porta a raggiungere la consapevolezza di saper essere, cioè l’integrarsi in un contesto specifico grazie a capacità di interazione e comportamento appropriate ad una relazione intersoggettiva efficace; saper essere è avere la consapevolezza di cosa si sta andando ad affrontare, conoscere se stessi e saper entrare in empatia con l’altro, mettendosi in gioco.

Tutto questo serve all’educatore per saper fare, ovvero un sapere empirico, procedurale, fatto di conoscenze operative e pratiche per la gestione di aspetti professionali specifici.

Attraversando come educatrice, pedagogista e supervisore diversi servizi per l’infanzia, oggi più che mai ho potuto osservare che nei contesti rivolti alla una fascia 0/3 o 0/6 c’è una prevalenza della spinta prestazionale che porta gli operatori a progettare per fare e non, in prima istanza, per essere. Raramente ci si sofferma su cosa significhi connettersi profondamente alle esperienze che si progettano, rintracciando il senso profondo che le azioni educative hanno per chi le pensa e le agisce.

Credo, quindi, che oggi serva portare nei servizi per l’infanzia una reale cura pedagogica; vale a dire accompagnare gli operatori a ricentrarsi e a ritrovare gli stimoli vitali per creare nei propri contesti lavorativi relazioni e azioni ricche di senso.

Come sottolinea Luigina Mortari “nella nostra tradizione culturale, tuttora gravata dal dualismo tra teoria e pratica, l’educatore (ma anche l’operatore sanitario, quello sociale ecc.), in quanto professionista “pratico”, è concepito come esecutore di saperi elaborati da altri, i cosiddetti teorici, quelli cioè che a vario titolo si occupano di costruire teorie.”. Questo ci fa capire che è sempre più necessario ripensare alla professionalità degli educatori, assumendo come fondamentali non solo le competenze tradizionalmente ad essa associate (disciplinari, progettuali, didattiche, metodologiche e valutative….) ma anche quelle che riguardano la persona in senso più ampio.

L’educatore sa che dovrà raggiungere determinati risultati con coloro che educa e ciò chiama in causa la capacità di leggere criticamente le specificità del contesto in cui si agisce per valutarne risorse e limiti e, parallelamente, la consapevolezza rispetto alle teorie e alle “comunità di pratiche” sottese al proprio operato; tale capacità porta con sé l’essere in grado di rivedere continuamente le proprie premesse e la propria prassi educativa. Non si tratta, quindi, di fare. Si tratta piuttosto di stare. In ascolto.

Se stiamo in ascolto di noi stessi e di quanto arriva a noi dal contesto educativo in cui ci troviamo, possiamo a-tendere, andare verso gli altri, dislocandoci dalla nostra individualità: l’ascolto inizia con il porre attenzione a ciò che sta intorno a noi. E per fare questo è necessaria una radicale trasformazione del modo di essere. La relazione al centro dell’interesse, al posto del proprio modo di essere e di imporsi; «non si tratta di un semplice sapere, ma di una trasformazione della personalità, attraverso un intenso esercizio di pensiero ovvero di immaginazione e di affettività» come asserisce Hadot. Si tratta, quindi di assumere un atteggiamento di concentrazione esterna sull’atto educativo e sull’altro, ma anche avere la capacità di osservare i cambiamenti corporei, le sensazioni e le percezioni che l’ambiente educativo rimanda. Si tratta di accorgersi dei cambiamenti meno evidenti, mettersi in ascolto delle emozioni, stare in allerta sui cambiamenti di umore dei soggetti.

Non si tratta di fare.

Pagine molto intense e partecipate sull’ascolto sono state scritte da Carl Rogers che ha evidenziato l’importanza dell’ascolto per la costruzione di relazioni educative. Rogers afferma alcune semplici, ma universali verità sull’attitudine all’ascolto e su cosa provino gli umani ascoltando. Innanzitutto, è necessario distinguere fra un ascolto superficiale e un ascolto profondo…Quando dico che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascoltare profondo. Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali, al significato personale e anche al significato che è sotteso all’intenzione cosciente di colui che parla. […] Così ho imparato a chiedermi: posso sentire i suoni e percepire le forme del mondo interno di quest’altra persona? Può esservi in me una risonanza così profonda per ciò che egli dice al punto di intuire i significati che egli teme e tuttavia vorrebbe comunicare, come fa con quelli che conosce? 

L’ascolto in un ambiente di apprendimento è un processo che inizia dal desiderio di ascoltare. Non si ascolta se si è costretti a farlo, ma se ci si predispone, perché ascoltare ha sempre delle conseguenze, implica un cambiamento, una trasformazione. E questo predisporsi bisogna che chi lavora nei servizi per l’infanzia lo apprenda o sia guidato perchè lo apprenda.

Alla base della costruzione di competenze per educare, infatti, vi è la competenza del sé, personale e professionale. Vale a dire conoscersi per avere la capacità di fare attenzione, di porgere ascolto, di sentire i pensieri e pensare i sentimenti. E’ necessario porsi in una condizione di apertura alla trasformazione del sé per lasciare spazio all’altro, alle sue ragioni e alle sue emozioni, al suo punto di vista.

Il saper fare, proporre tante e innovative esperienze concrete ai bambini che attraversano i nostri servizi è importante e fa parte del lavoro educativo con la prima infanzia ed attiene alle competenze tecniche e professionali che si acquisiscono nel corso degli studi e soprattutto con l’esperienza e con la formazione continua. Tali competenze tecniche (le cosiddette hard-skills) da sole non bastano più. Il complesso periodo storico in cui viviamo, i cambiamenti che si sono verificati nel recente passato, richiede agli educatori sempre più il possesso delle cosiddette soft-skills, le abilità e le competenze trasversali che caratterizzano un professionista, necessarie per potersi rapportare con le persone che fanno parte dell’ecosistema lavorativo. Questo perchè nei contesti lavorativi (come sono i servizi per l’infanzia) si è prima di tutto persone che hanno necessità di star bene con sé stessi perchè possano stare bene coloro di cui si prendono cura. E’ pertanto necessario diventare dei bravi gestori di relazioni per saper condividere, negoziare, ascoltare, stare in contatto, mantenendo alta la propria autostima. E in seguito si mettono in campo le competenze pratiche. Non viceversa.

Quando un bambino arriva al nido (o alla scuola dell’infanzia) ha bisogno di conoscere gli spazi (gli ambienti, gli arredi, i giocattoli), i tempi della giornata, gli altri (adulti e i compagni). C’è pertanto bisogno di adulti che sappiano leggere e riconoscere la curiosità orientata dei bambini nei confronti dei nuovi spazi e dei compagni di gioco, che sono piccole persone da conoscere ed anche veicolo di conoscenza. Pertanto, è importante che chi si occupa di educazione nei servizi per l’infanzia sappia, in primo luogo, leggere il contesto e poi agire in maniera coerente adottando comportamenti di aiuto per lo sviluppo armonioso dei bambini. C’è bisogno di adulti che sappiano sostenere il bisogno del bambino di condividere le proprie esperienze con i pari e di stare a proprio agio negli spazi del servizio. E perchè ciò avvenga è necessario, prima che ogni altra cose, che tali adulti riconoscano le proprie risorse personali e professionali (e quelle dei colleghi), che abbiano uno sguardo empatico e valorizzante nei confronti di sé stessi e di tutti gli attori che compongono la comunità educante rivolta all’infanzia, che migliorino la relazione con se stessi e con gli altri componenti della comunità educante e che imparino a significare il proprio linguaggio espressivo e a metterlo a servizio del contesto.

Abbiamo bisogno di tornare a sentire i corpi, di riabitare i “nostri” servizi

E’ più di un mese che non scrivo nulla. E’ un periodo faticoso questo. Un periodo in cui a chi come me lavora nei servizi per l’infanzia ancora non è dato di ri-abitare i nostri luoghi di educazione. Un periodo in cui, a fronte di troppi pensieri, manca l’accadere concreto, l’accadere entro una certa fisicità corporale, spaziale e temporale.
L’educazione, infatti, è innanzi tutto qualcosa che accade, è una “prassi situata” (come diceva Riccardo Massa), concreta. Senza la possibilità di toccare, mettere le mani in pasta nei nostri servizi, entriamo in uno stato di fatica molto elevato. Almeno…questo è ciò che è accaduto a me.

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L’educazione è anche (e soprattutto) relazione; la relazione è un elemento che compone la persona umana, fa parte della persona umana. Noi non siamo soltanto quello che c’è dentro: stomaco, fegato, polmoni; c’è anche una mente, c’è anche una
psiche, siamo anche relazione. La relazione fa parte del nostro essere persona, essere in relazione con altri è elemento costitutivo della persona.

Dobbiamo, quindi, prestare attenzione a come, all’interno di un contesto educativo, si curano le relazioni; questo significa comprendere se e con quale frequenza e come, in quel determinato contesto, sia possibile ‘fare manutenzione’ del contesto stesso.
La cura delle relazioni si mostra forse proprio nella possibilità che un contesto ha di rinnovarsi attraverso la coltivazione di quelle stesse relazioni in quanto campo di esperienza in cui si può giocare la formazione di ognuno, aprendo, magari, a percorsi auto formativi. E rinnovarsi significa non solo modificarsi e fare la propria manutenzione, ma anche comprendere che la vita e la funzione di quel contesto sono unite.

La relazione, inoltre, appartiene al campo educativo in quanto parte integrante dell’esperienza di sé, degli altri e del mondo che in tale contesto si può attraversare; tuttavia trae il suo senso proprio dall’essere inclusa nella cornice di quel particolare mondo formativo che si viene a istituire in una determinata situazione; ciò vuol dire che ha senso a partire dalle condizioni materiali, ma anche culturali che ne consentono l’espressione e lo svolgimento. Ha senso a partire dal contesto in cui si instaura la relazione e dai corpi che lo attraversano.

Ci siamo ingegnati in questo lungo tempo di chiusura dei servizi (quasi quattro mesi). Intorno alla metà di maggio il Ministero dell’Istruzione ha trasmesso un documento in cui si parla di “Orientamenti pedagogici sui Legami educativi a Distanza”, un modo diverso per fare nido e scuola dell’infanzia elaborato dalla Commissione nazionale per il sistema integrato zerosei. Abbiamo attinto a tutta la nostra creatività per instaurare e mantenere relazioni educative a distanza, con bambini e genitori, in una situazione di grande difficoltà e di interruzione temporanea del funzionamento in presenza dei servizi.

Il lavoro educativo è, per sua natura, pronto ad accogliere l’imprevisto e l’incertezza, ma dinanzi al vacillare di quasi tutti i paradigmi relazionali noti è stato necessario mettere in campo pensieri nuovi ed assolutamente originali. Siamo entrati in un’epoca in cui occorreva limitare i contatti e attivare canali alternativi possibili, offrendo a famiglie ed utenze suggerimenti per affrontare la quotidianità, valorizzandone la resilienza.

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Adesso, però, sentiamo forte il bisogno di tornare a fare il nostro lavoro in presenza.
Abbiamo pensato a come sarebbe potuto essere il rientro; alle strategie che avremmo potuto utilizzare; a come relazionarci quando ci avevano detto che avremmo dovuto mantenere il distanziamento tra i bambini. Pensieri di senso ne abbiamo fatti tanti. E’ arrivato il tempo della prassi.

Bernard Aucouturier sostiene che il corpo è mediatore di conoscenze e che l’educazione deve essere fatta scoprire al bambino, fatta vivere attraverso esperienze corporee; l’essere in situazione, infatti, permette al bambino di scoprire, vivere e in seguito astrarre le nozioni fondamentali che sono alla base di ogni processo cognitivo (grandezza, velocità, durata…). Il corpo non è qualcosa da allenare e addestrare o a cui insegnare maggiore controllo o coordinazione; il corpo è qualcosa da “informare ” attraverso le varie esperienze (corporee appunto) così che poi possa costruirsi come asse centrale delle proprie modalità di essere nei confronti di sé stesso, del mondo, degli altri e delle cose. Dobbiamo, quindi, prenderci la responsabilità di permettere ai bambini di farle queste esperienze corporee. Adesso più che mai.

Negli ultimi anni si è sostenuto con forza sempre maggiore che tutte le conoscenze passano attraverso l’uso del corpo. La conoscenza della realtà. La conoscenza dei rapporti spazio-temporali. La conoscenza del proprio corpo. La conoscenza di sé e degli altri. Il bambino non è più considerato come un piccolo adulto, che deve imparare come l’adulto, ma gli è riconosciuta una specifica via alla conoscenza che è, appunto, quella corporea.
I bambini spesso ci chiedono “stai vicino a me?”; la vicinanza dei corpi per loro è fondamentale, ci vogliono accanto a loro, concretamente. Non bastano le parole. Non bastano le nostre immagini. Ci vuole la vicinanza dei corpi, che più di tutto dà loro sicurezza e serenità.

Scrive ancora Aucouturier: “il corpo non è soltanto lo strumento razionale al servizio di un pensiero conscio. Il corpo è anche, e prima di tutto, luogo di piacere e dispiacere, riserva di pulsioni, mezzo d’espressione dei fantasmi individuali e collettivi della nostra società…”. Del corpo, dei corpi, non possiamo più fare a meno. Dobbiamo iniziare di nuovo a respirarli. Almeno a respirarli. Poi verrà il tempo in cui ci si toccherà ancora.

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Riporto, per concludere, uno stralcio di un interessante articolo di Dafne Guida, presidente della cooperativa Stripes, che apre a interessanti spunti di riflessione:

I servizi “di prima” non torneranno. La visione pedagogica deve imparare a dialogare con quella sanitaria e organizzativa, in una logica di contaminazione reciproca e non di esclusione. «Innovare d’altronde significa desiderare talmente tanto qualcosa di diverso dall’esistente, che alla fine una via insieme si trova»… Un esempio? L’educatore di condominio o di giardino. I bambini ne hanno bisogno: «già oggi registriamo tante regressioni, frutto della mancanza di spazi di autonomia».

I servizi di prima non torneranno. Non subito. Non a breve. Dobbiamo però tornare ad abitare quei servizi con i nostri corpi. Dobbiamo permettere che tornino ad abitarli i corpi dei bambini. C’è stato un tempo per la paura. Adesso è tempo di coraggiosamente tornare.

Affrontiamo (e superiamo) insieme la paura

In questo tempo fatico a mettermi nell’ottica della progettualità. Accade perchè il terreno su cui costruire è ancora sabbia mobile e ho come la sensazione che, dopo un po’, tutto crolla. Non sarà così per sempre. No, ne sono certa. E’ così adesso.

Mi trovo, quindi a scrivere di argomenti che affronto con chi si rivolge a me perchè è in difficoltà in questo lungo momento di emergenza.

Succede che si parli di paura. La paura dei bambini e dei ragazzi. Di perdere qualcuno di caro. Di non vedere per tanto, troppo tempo gli amici, i familiari. Di non tornare più a scuola. Ma anche la paura degli adulti. Di ammalarsi. Di non potersi prendere cura dei figli o dei genitori anziani. Di perdere il lavoro. Del vuoto. E, da qualche giorno, anche la paura di tornare ad uscire rischiando di ammalarsi.

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Che cos’è la paura? E’ un’emozione. E’  una condizione pervasiva ed imprevista. E’ anche uno stato di preoccupazione e di incertezza.
Quando abbiamo paura sentiamo una forte spiacevolezza e un intenso desiderio di evitamento nei confronti di un oggetto o situazione che giudichiamo pericolosa.
La paura fornisce la motivazione necessaria alla mobilitazione delle energie; soltanto quando è eccessiva porta a compiere azioni avventate e controproducenti. Una persona senza paura non potrebbe sopravvivere a lungo. Potrebbe, ad esempio, attraversare, incurante, la strada con il rosso.
Sotto l’effetto della paura i battiti del cuore aumentano, la pressione del sangue accelera, gli occhi sono sbarrati oppure serrati, le pupille dilatate, le orecchie tese a cogliere ogni rumore sospetto oppure tappate con le mani, la pelle d’oca, la sudorazione intensa, le pulsazioni accelerate. In questo stato di allerta, anche gli organi interni, come intestino e reni, lavorano ad un ritmo vorticoso, tanto da produrre diarrea e disturbi di digestione, gli zuccheri si riversano nel sangue, aumentano le secrezioni da parte dell’ipofisi e della midollare del surrene. Aumentano l’attenzione e la velocità delle reazioni. Più estesa è la situazione che provoca paura, più sembrerà minacciosa al soggetto e più violente saranno le emozioni provate.

E i bambini? Che succede nei bambini quando dicono di avere paura?

La forma primaria di paura nei bambini è la perdita del contatto fisico con la mamma. Poi hanno paura dell’estraneo; della separazione. A 3/5 anni arriva la paura del temporale, del buio, dei mostri, delle streghe, di Babbo Natale e della Befana, elementi che affascinano ed al tempo stesso spaventano; poi la paura dei pericoli fisici, di ferirsi, ammalarsi.
Dopo i 6 anni alcune paure degli anni precedenti possono essere padroneggiate perché ora il bambino ha maggiori competenze; può, però, cogliere altre minacce come quella dei ladri, dei danni fisici, della morte e dell’abbandono. Fanno, inoltre, la loro comparsa i timori legati al proprio stato sociale, come scolaro per esempio, e alle interazioni con gli altri: esami, litigi, sopraffazioni, nonché la paura di essere rifiutato dai compagni.

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Può accadere, ad un certo punto dello sviluppo, che alcune paure legate a periodi precedenti si ripresentino come regressioni a stadi precedenti dello sviluppo; ciò si spiega con la condizione di instabilità che contraddistingue tutta l’età evolutiva. Dopo un forte spavento, infatti, o di fronte a situazioni angoscianti che si protraggono nel tempo è normale che i bambini regrediscano temporaneamente a comportamenti tipici di uno stadio precedente del loro sviluppo e se ciò avviene è perché in quello stadio si sentivano più protetti e sicuri.

L’atteggiamento dei genitori, può influire positivamente o negativamente sulle paure nei bambini. Ci sono, infatti, paure dovute alle raccomandazioni insistenti dei genitori: “Non toccare le forbici”, “Attento ai cani grandi”, “Non arrampicarti sugli alberi”…per esempio. Ce ne sono altre che derivano anche dalle continue lamentele circa lo stato di salute, che fanno temere al bambino la malattia del padre o della madre; altre ancora che nascono dalla iperprotezione dei genitori e dalla conseguente perdita di fiducia in sè.
La fiducia in sè va costantemente valorizzata, cosicché il bambino si senta ”capace”. Non si devono pretendere prestazioni inadeguate alle sue reali capacità.

Cosa possiamo fare se i nostri bambini oggi più che mai ci dicono di avere paura? Come possiamo stare accanto a loro?

Facciamoli esprimere. Chiediamo di raccontarci le emozioni e le fantasie che li inquietano, con dolcezza e senza forzarli. Riuscire a parlarne e sentirsi accolti riduce la tensione e aiuta ad affrontare il problema. Accogliamo le paure senza offrire soluzioni, mostriamo empatia, vicinanza emotiva. Così li aiuteremo a scoprire qual è il loro modo di affrontare le paure.

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Ed evitiamo di costringerli a tenere le paure per se stessi; spesso i bambini imparano a reprimere le proprie paure, imparano a viverle in silenzio per compiacere le figure di riferimento, per non preoccuparli o inquietarli.
Non diciamo mai: “Affronta la paura, devi essere forte”; spingere un bambino a viso aperto contro una paura è sbagliato, perché può trasformare la paura in terrore e ingigantire il problema. Non costringiamo il bambino ad affrontare le sue paure in modo troppo diretto e brutale. Per superare una paura spesso ci vuole tempo e pazienza. Bisogna rispettare i tempi e le modalità del bambino. Ricordiamoci che potrà superare i suoi timori solo se sceglie personalmente di farlo: il quando e il come affrontare le paure lo sceglierà lui stesso. E’ fondamentale che non ci sia mai nessuna pressione ansiogena da parte nostra per il superamento delle paure, altrimenti si sentirà costretto più dal nostro desiderio che dal suo, e la costrizione genera molta paura.

I bambini vanno educati a comportamenti positivi: meglio proporre sempre degli eroi positivi attraverso favole e fiabe che sconfiggono i cattivi grazie alle loro doti di bontà e gentilezza.

E vanno evitati i confronti: ogni bambino ha i suoi tempi, che devono essere rispettati.

E, inoltre, si deve comunicare ai propri bambini la consapevolezza che la paura fa parte della vita. E’ fondamentale trasmettere loro la certezza che la paura fa parte della vita di tutti i giorni, “che anche noi quando eravamo bambini abbiamo provato paura e continuiamo ad averla anche da adulti”, ma che può essere affrontata e talvolta anche superata con serenità.

Non facciamo sentire i bambini dei “fifoni”: proveranno un forte senso di colpa e si sentiranno inadeguati. Quindi l’umorismo va evitato.

Va anche evitato di rassicurarli in maniera eccessiva, perché si convincerebbe che c’è veramente qualcosa da temere. L’iperprotezione non favorisce la formazione del coraggio. Evitare di parlare spesso davanti a loro di paure o fobie potrebbero aggravarle. I bambini vivono la realtà attraverso i significati del mondo reale che noi adulti gli trasmettiamo. Alcune paure dei bambini, infatti, sono apprese per imitazione: molte madri, pur senza rendersene conto, trasmettono le loro ansie e proiettano i propri allarmi ai figli. Essi, così, incominceranno a temere i temporali, l’aereo, il dentista, i ladri, le ferite, gli aghi allo stesso modo della madre e a imitazione del suo comportamento.

La nocività delle paure nei bambini non è direttamente proporzionale all’intensità della situazione di pericolo temuta, quanto piuttosto all’intensità del vissuto di solitudine con cui queste paure nei bambini vengono affrontate. I bambini, quando sono assaliti dalla paura sono preoccupati più che delle minacce provenienti dall’oggetto fonte di paura, dalla possibile lontananza dei genitori. Spesso, infatti, si domandano: dov’è mia madre? cosa sta facendo mio padre? posso correre da loro? possono venirmi in aiuto? I bambini possono esprimere la paura attraverso varie modalità comportamentali: con scoppi d’ira, con l’irrigidimento del corpo, con l’aggrapparsi in modo esasperato alla figura di riferimento, con l’evitamento della situazione minacciosa.

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Tre suggerimenti

Può essere molto utile lasciare una piccola luce accesa, lasciare la porta della sua camera aperta, lasciare che dorma con il cane o il gatto di casa oppure con il suo peluche preferito.

È utile inventare giochi di ruolo attorno alla paura del buio, senza mai però prendere in giro i bambini oppure giocare a farlo spaventare. È un modo di prendere sul serio il suo timore, anche se giocando. Incoronate, per esempio, il bambino “esploratore” oppure “cavaliere”, raccontando una storia in cui sia chiaro che questo personaggio non teme i mostri e vince sempre i cattivi nelle battaglie. Regalategli poi un kit di sopravvivenza che contenga una formula magica per allontanare mostri e fantasmi, uno spray anti-mostro (che puoi realizzare riciclando uno spruzzino ben lavato nel quale puoi mettere acqua e qualche goccia di olio essenziale) e una torcia elettrica.

Ed è bene evitare di creare fantasie negative nella mente del bambino tipo lupi cattivi, mostri che rubano i piccoli oppure ipotesi di abbandono (“Se fai il cattivo viene il lupo cattivo/viene il mostro/ti prende l’uomo nero,…). Nella gestione dei capricci quotidiani può essere momentaneamente efficace come strategia incutere il timore di un terzo ma a lungo andare può creare disagi di altro genere come, appunto, la paura del buio.

 

Arriverà un momento per ogni cosa. “Spannolinamento” in quarantena?

Arriverà un momento per ogni cosa…fermiamoci ad attendere, è il momento di sostare, senza rincorrere conquiste che oggi ci metterebbero a dura prova e che, invece, domani potremmo raggiungere in un battito d’ali.

Tanti genitori, in questi giorni, però, stanno chiedendo ai noi che lavoriamo nei nidi suggerimenti per fare il passaggio dal pannolino al vasino. E’ arrivato il caldo e la bella stagione. Parrebbe proprio il momento.

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Credo che sia una richiesta legittima. Comprendo i genitori i cui figli fino a poco tempo fa frequentavano il nido e che a settembre andranno alla scuola dell’infanzia. Con alcuni di loro, probabilmente, le educatrici avevano iniziato a parlare di questo argomento e ci si aspettava di fare il passaggio in una prospettiva di alleanza e collaborazione. Adesso che, però, tutto è fermo, alcuni genitori sono un po’ in ansia e pensano che i bambini se la dovranno cavare facendo affidamento soltanto su mamma e papà.

La richiesta, però, mi ha spiazzata. Sono una persona molto fisica, ho bisogno di comunicare con gli abbracci, le mani sulle spalle, le carezze, i sorrisi, i respiri. E ora che tutto ciò è negato, fatico a mettermi in ascolto di una madre che sente il bisogno di togliere il pannolino al suo bambino. È più facile parlare di emozioni, di sentimenti…come stanno i bambini? Cosa dicono? Come vivono questo tempo? Non sono sicura che sia il momento degli “spannolinamenti”.
Anzi…credo proprio che la “quarantena” non sia una buona occasione per togliere il pannolino.
La buona occasione è quando è pronto il bambino, non quando siamo “comodi” noi adulti o quando siamo a casa (molto probabilmente impegnati nello smart working o con i figli più grandi alle prese con video lezioni e compiti).

E, a distanza, attraverso uno schermo se va bene, non mi sento di confrontarmi in merito a un passo tanto delicato. Il momento è particolare. Ai bambini stiamo già chiedendo di non vedere i nonni, gli amichetti, di non uscire fuori a giocare, di sopportare le nostre ansie e i nostri nervosismi. Dobbiamo chieder loro un ulteriore sforzo? Tanto più che adesso molti di loro hanno bisogno di fermarsi e consolidare le competenze che avevano acquisito nei mesi in cui hanno frequentato i nidi e, probabilmente, data la situazione ci sono state delle regressioni, piccole o grandi.

Proviamo a fare qualche riflessione. Può venirci in aiuto la lettura di un delicato albo illustrato che mi ha consigliato la dottoressa Jessica Omizzolo dei servizi educativi di Fano, mia preziosissima amica. Il fatto è di Gek Tessaro, che racconta con la più assoluta semplicità la complessissima mente dei bambini, che segue logiche estranee agli adulti.

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L’albo racconta di un paperotto e il fatto è che quando un paperotto non pensa sia il momento di fare il bagno non c’è anatra o catena animale o lupo che tenga: resta incollato al prato!!! Non lo smuove nulla, proprio com succede con i bambini.
La paura non ferma il papero; semplicemente non ha voglia di fare il bagno e ancor meno di essere spinto a farlo, anzi, più è spinto meno è collaborativo!
Non è difficile da capire ma pare che per i grandi sia pressoché impossibile: tutti pensano che il paperotto stia facendo i “capricci” o che abbia paura. Invece sta solo chiedendo di essere rispettato. Non è il momento. Non se la sente di fare il bagno. Ma lo farà! Sul finire della mattinata, quando il sole avrà scaldato l’acqua, senza nessuno intorno che spinga o controlli, il paperino, infatti, si tuffa perché ne ha voglia. Per il suo piacere. Perchè sente che quello è il momento.

Ogni bambino, proprio come i paperotti, ha il proprio tempo per fare conquiste. Non è bene mettere fretta. E’ frustrante.
Il tempo giusto per togliere il pannolino si capisce dopochè abbiamo osservato attentamente i nostri bambini. E’ vero! La primavera è generalmente la stagione in cui i bimbi dell’ultimo anno di nido, quelli delle sezioni “grandi” lo abbandonano…Io credo, però, che quest’anno si possa rimandare e che si debba tralasciare di fare paragoni o di ascoltare quello che suggeriscono gli altri.

Forzare i tempi è irrispettoso. Ce la faranno comunque. Ma quando sentiranno che è il momento. E vi stupiranno tanto saranno veloci e precisi.

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E quando il momento arriverà, i bambini lo faranno capire. Ricordate, però, che come il camminare, anche l’autonomia dal pannolino è un percorso fatto di incidenti. Che sono fisiologici e non devono buttarci a terra. Non è come accendere o spegnere un interruttore. Quindi…calma e tanto, tanto sangue freddo.

Cercate di sintonizzarvi con il vostro bambino. Concentratevi sulla relazione. Non fate paragoni con nessun altro e non guardate che succede intorno a voi. Guardate il vostro bambino. E vedrete che andrà bene. Andrà da se’.

La quarantena può essere un momento in cui beneficiare del tempo che normalmente non si ha a disposizione. Questo tempo va sfruttato in maniera creativa e generativa, facendo in modo che sia il tempo dell’ascolto. Il benessere di un bambino oggi, e in questo tempo più che mai, dipende dalle relazioni che i genitori instaurano dentro casa e con lui, pertanto è fondamentale rendere lo sfondo di queste giornate autenticamente educativo, oltreché amorevole. I bambini piccoli in questa fase hanno, infatti, ancor più bisogno di comprendere che i genitori sono una risorsa.

Siete ancora convinti di volere togliere il pannolino al vostro piccolo?

Pensateci con cura…e, quando sarà il momento, provate ad affrontare questo passo con un po’ di arguzia e ironia. Sarà di grande aiuto. Ridiamoci su. Delicatamente, ma ridiamoci su. Degli incidenti. Delle chiazze sul divano. Delle pozze sul pavimento. Viviamo, adesso ma anche dopo, la quotidianità con leggerezza…ridere aumenta la produzione di dopamina nel cervello, un neurotrasmettitore che attiva anche meccanismi naturali che agevolano l’apprendimento.

Il “sistema di riferimento” al nido

Quando ho iniziato ad operare come educatrice al nido, lavoravo basandomi sul modello della “figura di riferimento”. Perché le linee pedagogiche erano quelle. Perché Elinor Goldschmied e le sue idee facevano decisamente presa.
Lavoravamo facendo sì che ci fosse un’educatrice con cui il bambino (e la sua famiglia) potesse avere una relazione speciale e che costituisse un punto fermo all’interno del servizio per quella particolare famiglia.

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Le relazioni con i bambini passano, in primo luogo, attraverso il contatto corporeo, attraverso i gesti di cura delle routines, poi attraverso gli sguardi, che il bambino cerca per trovarvi attenzione e verificare se egli esiste nella mente di qualcuno. E proprio per questo, i bambini piccoli, quando iniziano l’ambientamento al nido, hanno bisogno di trovare qualcuno che sostenga le loro fatiche, che contenga i momenti di stanchezza e di frustrazione, qualcuno che percepiscano come autorizzato dalla madre a divenire un nuovo partner e di cui percepiscono che la madre si fida. Questa persona è la cosiddetta “educatrice di riferimento”, che, insieme al bambino, conosce i genitori, parla con loro, ne ascolta i racconti, le domande, i dubbi, li rassicura, presenta il servizio…E’ una figura che non è la madre, che ha nella mente anche altri bambini e altri genitori, che lavora in equipe con altre persone a cui, via via, presenta il piccolo e con cui nel tempo ne condivide la cura. E’ una persona che si preoccupa di stabilire un raccordo tra le modalità di accudimento familiari e quelle del nido.

L’affrontare l’ambientamento in modo individuale e attraverso la “figura di riferimento” implica, però, una semplificazione della ricchezza dell’occasione che attraverso la transizione nel nuovo ambiente del nido si offre al bambino; questo approccio, infatti, sottostima la potenzialità dei bambini di fronte all’esperienza del cambiamento e compie un sovradimensionamento delle figure adulte nel contesto di primo ambientamento dei bambini nel nido.Questa modello, però, può avere dagli inconvenienti. Si può arrivare a tendere a un rapporto esclusivo tra l’educatrice di riferimento, la madre e il bambino e a stabilire, in qualche caso un rapporto di dipendenza della madre e del bambino nei confronti dell’educatrice.

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Queste riflessioni portano a sostituire la figura di riferimento con il cosiddetto “sistema di riferimento”, costituito da due o più educatrici. Questo approccio presuppone un’idea di bambino collocato all’interno di una rete di relazioni plurime, competente, desideroso di stabilire nuovi contatti con adulti e bambini, di esplorare mondi e realtà. Si passa quindi dalla dimensione del contenere e mediare a quella del condividere tra bambini e adulti, tra equipe di educatori e genitori. Questa scelta deve essere accompagnata da un’attenzione grande ai tempi e agli interscambi tra adulti (educatori e genitori); e dalla convinzione che il bambino possegga le risorse necessarie per affrontare un’esperienza in cui non si relaziona con una figura sola che ne sostiene le fatiche, ma con più figure che sostengono lui e insieme altri bambini.

La figura di riferimento è la persona che accompagna in modo privilegiato il percorso al nido di ciascun bambino e della sua famiglia. Si occupa di tenere a mente le specificità del sistema familiare e di seguire i processi di crescita e le inevitabili crisi del bambino comprendendole nel loro significato evolutivo, potendo così concentrare le proprie energie su un numero ridotto di bambini e famiglie. Così facendo, può rispondere alle esigenze di stabilità e di sicurezza di bambini e genitori. Questa persona non potrà, però, essere sempre presente, per cui è indispensabile che il bambino e i genitori, col tempo, instaurino relazioni significative anche con le altre educatrici.
La figura di riferimento, in relazione ai bambini, effettua la prima accoglienza in occasione della fase iniziale dell’ambientamento e interagisce col bambino e col genitore come aiuto per il graduale distacco, in relazione al genitore, è costante supporto per il bambino nel momento della sua permanenza al nido ed è supporto per il genitore, soprattutto nelle prime fasi dell’ambientamento.
Se, invece, si lavora, utilizzando il sistema di riferimento si lascia la possibilità al bambino, per quanto piccolo sia, di scegliere, di volta in volta, a quale degli adulti presenti orientarsi. Con questo modello è il gruppo degli educatori che detiene la regia e la responsabilità della mediazione del nuovo contesto e del relativo ambientamento del bambino al nido. Inoltre viene riconosciuta al bambino l’effettiva potenzialità all’esperienza dell’espansione e del cambiamento del proprio consueto contesto di vita nonché la capacità di mediare rispetto al gruppo dei pari.
Il bambino, infatti, realizza il suo processo di crescita non solo soggettivamente ma anche intersoggettivamente, cioè in relazione agli altri e con gli altri, e sotto l’influenza di fattori sociali e culturali fra loro interagenti. E’ importante, quindi, che il nido riconosca alla famiglia il ruolo attivo di interlocutore e non solo di fruitore del servizio, valorizzando l’importanza del legame di attaccamento alle figure famigliari, legame che costituisce il “sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita”. Inoltre, deve offrire al bambino la possibilità di mantenere un rapporto di vicinanza con le persone che gli assicurano protezione, permettendogli di sentirsi sicuro anche quando queste figure si allontanano nella certezza del ritorno. Questa consapevolezza ci consente di affrontare il passaggio ad una modalità di ambientamento che prevede un piccolo gruppo di educatrici con l’iniziale costante presenza dei genitori e che è maggiormente rispettosa delle capacità e competenze del bambino.
Lavorando col modello della figura di riferimento, si stabiliscono relazioni non con il sistema ma con le singole figure facenti parti del sistema; viceversa quando si lavora con il modello del sistema di riferimento le relazioni si stabiliscono con un gruppo e non con i singoli.

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Le riflessioni relative al lavoro seguendo il modello del sistema di riferimento nascono dal fatto che al nido non è quasi mai possibile che la stessa persona possa accogliere il bambino quando arriva la mattina e riconsegnarlo alle famiglie al momento delle dimissioni. Questo può generare ansia nei genitori che si aspettano di trovare sempre la stessa persona con cui relazionarsi e, in certi casi, fatica nel bambino che si sente rassicurato da una sola persona e conosce poco il resto del gruppo di lavoro, per lo meno all’inizio dell’ambientamento.
Allo stesso modo è possibile che l’educatrice di riferimento si debba assentare per un periodo breve o prolungato, causando ansie nel genitore che teme di perdere un punto fermo e insicurezza e fatica nel bambino che non è abituato (o lo è poco) a relazionarsi con altri adulti. Se, invece, si è abituati fin dal primo giorno a relazionarsi con un sistema di educatrici, l’assenza di una figura non potrà costituire un problema né per la famiglia né per il bambino, che avranno comunque un punto di riferimento all’interno del nido.

Queste riflessioni nascono in seguito alla mia personale esperienza di lavoro. Dopo anni trascorsi ad utilizzare il modello della “figura di riferimento”, che, ultimamente trovavo addirittura poco rispettoso del bambino, da quando lavoro secondo il modello del “sistema di riferimento” ho potuto constatare quanto siano più ricche le relazioni che il bambino che entra in un nido instaura con gli adulti presenti e ruotano intorno a lui e quanto minori siano le fatiche che si trova ad affrontare; questo modello permette davvero ai bambini di trovare più punti fermi e soprattutto di trovarli nel corso di tutta la giornata che trascorrono al nido.