Cosa c’è dietro al lavoro di noi educatori?

Sono una pedagogista. Mi occupo di formazione e supervisione. Lavoro con gli educatori e le educatrici dei servizi 0/6. Mi occupo anche, a margine, di coordinamento. Sempre con gli educatori e le educatrici dei servizi 0/6.

Sono anche un’educatrice. Lavoro in un servizio 0/3, un nido. E sono molto fiera di questo. Non potrei lavorare insieme agli educatori e alle educatrici se non conoscessi bene ciò che accade nella loro quotidianità. Se non sapessi che cosa vuol dire “avere le mani in pasta” giorno, dopo giorno.

E cosa accade nelle giornate di educatori ed educatrici dei servizi per l’infanzia?

Accogliamo bambini e genitori sorridendo, cercando di lasciare oltre la soglia delle nostre sezioni quello che viviamo quotidianamente al di fuori del lavoro, compreso quello che ci ha tormentato fino a poco prima di entrarvi. Sì…è così…chi svolge un lavoro di natura educativa ha il compito (e direi il dovere) di separare l’educazione dalla vita. Perchè solo in questo modo può creare un’esperienza unica che possa essere assorbita ed elaborata dagli individui che la sperimentano (i bambini nel nostro caso) ed entrare nel contesto lavorativo realmente da professionista, ricoprendo un ruolo attivo e sviluppando un senso critico che permetta di interrogarsi sia sulle dinamiche in atto sia sul significato e sugli esiti.

Nel lavoro di cura, gli educatori e le educatrici, devono anche fare i conti con le proprie angosce e con le proprie perturbazioni emotive che spesso si trovano ad essere non solo sollecitate ma anche amplificate dal compito e dalla cultura implicita dei sistemi di welfare. E’ pertanto richiesto loro di possedere una “competenza emotiva” che consenta di accogliere la realtà nella sua complessità e di poter comprendere la qualità di ciò di cui si fa esperienza. E’ fondamentale assumersi non solo una responsabilità professionale nei confronti di chi si educa ma anche di se stesso. Aver cura del proprio pensare e del proprio sentire è condizione preliminare per aver cura del pensare e del sentire dei destinatari dei propri atti di cura. E’ fondamentale anche prestare la massima attenzione ad affetti, emozioni, relazioni in cui ci si trova inevitabilmente e costantemente coinvolti. In caso contrario, non è semplice svolgere un “buon”lavoro.

Tutto questo per dire che arriviamo in sezione già con un grosso carico sulle spalle, che dobbiamo continuamente “risistemare” per far sì che i bambini possano vivere le esperienze educative di cui hanno necessità e (mi piace aggiungere) diritto.

Dobbiamo poi essere ben attente a saper leggere criticamente le specificità del contesto in cui agiamo, che, pur sembrando sempre uguale, inevitabilmente muta un giorno dopo l’altro. Dobbiamo poterne valutare risorse e limiti e, parallelamente, essere in grado di rivedere continuamente le nostre premesse e la nostra prassi educativa. Il fatto poi che ogni azione sia situata in un preciso contesto sociale e che noi educatori ed educatrici ci troviamo immersi in una complessa rete di relazioni costituita da colleghi e da altre figure professionali che attraversano i nostri servizi (oltreché da una molteplicità di soggetti dei quali abbiamo la responsabilità educativa…i bambini, nel nostro caso), necessita di specifiche competenze relative tanto al lavoro di gruppo, quanto alla conduzione di gruppo. Non basta amare tanto i bambini, per fare un “buon” lavoro…L’indeterminatezza delle azioni educative e la imprevedibilità dei processi attivati e dei contesti sociali con cui, nel tempo, si interagisce, comporta la capacità di tollerare il dubbio e l’incertezza, di porsi “in ascolto” di quanto accade e delle proprie emozioni, di accettare uno “stato di sospensione”, non rifugiandosi immediatamente in categorizzazioni o teorizzazioni rassicuranti. E vi posso assicurare che tutto ciò non è una passeggiata.

E’ necessario essere consapevoli che ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo fa parte di un dispositivo più ampio che solo in parte può essere dominato. Questo vuol dire che si deve praticare una professione di natura educativa avendo (o acquisendo) sempre maggior consapevolezza di quanto si agisce nella pratica.

E che cosa realmente agiamo noi nella pratica? Noi educatori ed educatrici dei servizi per la prima infanzia, che appariamo sempre sorridenti e sereni…quasi perfetti…Benchè, non dimentichiamolo, come scrive Sergio Tramma, uno dei professori che più ho amato negli anni dell’università, “l’educatore è incerto…perchè nella società contemporanea tale figura professionale è la risultante di molte chiamate in causa, di molte assunzioni di responsabilità…sia per il ventaglio di compiti progressivamente attribuiti alla figura, sia per i soggetti di riferimento”.

Gli educatori e le educatrici sono sì incerti…e, nonostante sorridano, si mostrino sempre sereni e propositivi, questo loro essere incerti li rende decisamente affaticati…esausti a tratti.

Lo stress tipico del lavoro di cura a volte si fa elevato e non è facile ridurlo nel qui ed ora, benché sappiamo bene che, se interpretate secondo le loro potenzialità e fatte proprie dalle educatrici, le routine tipiche dei servizi per l’infanzia, possono aiutare a ridurre lo stress, fornendo motivo di soddisfazione e contribuendo così al benessere di educatori ed educatrici. Si può trovare grande soddisfazione nelle interazioni con i bambini (e quindi nel proprio lavoro) se si presta attenzione al bambino come soggetto individuale, e non al singolo compito di volta in volta da eseguire…Può, però, accadere che ci si affatichi più di quanto si riesca a sopportare e che i compiti risultino più gravosi di quanto in realtà non lo siano. Anche se ci vedete sempre sorridenti.

Cambiare un pannolino per noi è un gesto di cura fondamentale nei confronti dei bambini…Se ci capita di svolgerlo senza troppo entusiasmo…e può succedere…possiamo essere prese da sensi di colpa più o meno importanti…Per esempio.

Le routine negli asili nido possono assumere una grande valenza educativa. E il cambio di un pannolino, come qualsiasi routine, non soddisfa solo il bisogno immediato del bambino, ma considera anche i suoi bisogni complessivi e, di conseguenza, mira a fornire soddisfazioni in termini di attenzione, stimolazione tattile (contatto, holding,…), interazione visiva (contatto oculare), fisica e verbale, di affetto e di emozioni.
In altre parole, non si tratta di cambiare il pannolino in un modo o nell’altro, ma di come si interagisce mentre si cambia il pannolino…Si capisce, quindi, perchè se lo si fa controvoglia, magari più di una volta, a fine giornata ci si può sentire giù di tono e insoddisfatti.

Noi educatori ed educatrici dei servizi per l’infanzia accogliamo sorridendo e cerchiamo di mostrarci sereni e con tanta voglia di stare insieme e di fare insieme con i bambini nel corso di tutta la giornata…che può durare dalle sei alle sette ore e fischia…se va bene.

E’ faticoso, però, prendersi cura dei bambini con professionalità. Non è uno scherzo il nostro lavoro. Ogni bambino (e di questi tempi ne abbiamo in media sette a testa) viene portato in bagno, per le cure che si dedicano al cambio del pannolino, come minimo tre volte al giorno…Si sveste, si lava con cura, si increma, si mette un pannolino pulito, si riveste…Con cura, passione e fatica. Fatica che non vorrei che si desse per scontata. E magari, appena, finito, si torna in bagno con uno, due o tre bambini perchè hanno fatto la cacca e si ripete ogni gesto. Con cura, passione e fatica.

E tutto ciò va moltiplicato per sette. E moltiplicato per tre fa ventuno. Si ripetono con cura, passione e fatica questi gesti ventuno volte ogni giorno. O forse qualcuna di più.

Spesso, soprattutto di questi tempi, i genitori, candidamente ti chiedono “Siete usciti?”. E tu, che magari hai dormito poco e male la notte, non te la sei sentita perchè la giornata è fredda e piovosa e un po’ ti assale un senso di colpa perchè hai privato i bambini di un’esperienza. Uscire con un gruppo di sette bambini, da soli, magari con qualcuno che non cammina ancora è tutt’altro che un’esperienza rilassante! Ti tiri su le maniche, infili la tuta da esterno, le scarpe, la giacca, la sciarpa, il cappello e poi, al rientro, di nuovo…ti tiri su le maniche, li spogli con cura, togli il fango e i sassi che sono rimasti sotto alle scarpe. Sette volte prima di uscire e sette volte quando rientri. E non è finita. Ci sono gli abiti da esterno da insacchettare per poterli consegnare ai genitori che li riporteranno puliti o per portarli nella lavanderia del nido.

E questo, è innegabile, comporta fatica. E non è scontato che tutti lo riconoscano. Perchè il senso comune dice che il lavoro con i bambini è “Il lavoro più bello del mondo”. Come può essere anche faticoso?

Ci vuole motivazione. Tanta. E coraggio, io credo.

Gli educatori, prima di diventarlo, nel corso degli anni dell’università, delle tante ore di tirocinio (ai miei tempi erano quasi trecento, tra teoria e pratica) si interrogano mettendosi in discussione in merito propria identità professionale: su chi siano, che cosa si aspettino, quali competenze debbano acquisire e quali potrebbero spettar loro.

Gli educatori e le educatrici, per poter accogliere ogni giorno bambini e famiglie sorridendo, molto prima di varcare la soglia del servizio in cui lavoreranno cercano i motivi che li spingono a svolgere proprio quella professione. E continuano a farlo anche dopo anni di esperienza. Ve lo assicuro, perchè è ciò che è accaduto ed accade a me. Cercare i motivi che ti spingono a svolgere una professione è fondamentale, soprattutto nei momenti più faticosi, quando desideri solo buttarti in un angolo e poter chiudere gli occhi per un po’. Le domande che ci facciamo quotidianamente ci aiutano a dare un senso ai nostri agiti e, soprattutto, alla nostra motivazione, senza cui il nostro lavoro non potrebbe svolgersi nemmeno per un minuto.

Ecco. Tutto questo è ciò che sta dietro al nostro lavoro. Al lavoro di noi educatori ed educatrici che, comunque, sorridiamo all’accoglienza e al ricongiungimento e che lavoriamo perchè i bambini possano vivere esperienze autentiche e cariche di senso. Anche se la giornata è partita storta o siamo preoccupati o stanchi.

Prendersi cura di chi si prende cura. Come sono cambiate le pratiche di supervisione pedagogica nei servizi?

Fin da quando, molti anni fa, ho iniziato a lavorare come educatrice, ho creduto nell’importanza di “essere curati” nei nostri contesti educativi. Di poter sapere che qualcuno si fa carico, orienta, guida chi si prende cura per professione.

Che significa prendersi cura di chi si prende cura? E’ complesso da dirsi, soprattutto in un tempo come questo, dove di cura ce n’è assoluto bisogno ma le urgenze del Setting spesso non lasciano il tempo affinché uno sguardo altro si posi sulle équipes e si faccia interprete delle loro fatiche.

La cura educativa o, meglio, pedagogica, è, intanto, cura di un soggetto, proprio di quel soggetto lì, ponendosi dentro il suo processo di formazione, intesa come formazione umana. È processo di cura (del maestro) che si sviluppa come “risveglio”, come “dialettica”, come “ascesa” e come “maieutica”, insieme, nei confronti dell’allievo, come già ci insegnava Socrate nella Grecia del V secolo a. C. Questo aver-cura si delinea come stare vicini (interiormente) ed esser-pronti-a …, è presenza-sostegno e presenza-stimolo, orientata al promuovere verso … e a interpretare i segni dell’autoformazione in corso, al porre traguardi e modelli, da rivivere sempre secondo libertà.

Tale cura è sostegno e dono e dialogo. Trova nel sostegno (che orienta senza essere direttivo) il proprio imprinting. Si contrassegna attraverso il donare, un atto libero che può esser recepito o no nel suo messaggio dal ricevente, un atto gratuito, ma dovuto e necessario per essere nella cura come formazione. Si sostanzia del dialogo, che è e deve essere aperto e reciproco tra i due “attori”, chi si prende cura e chi cura riceve. E così la cura come formazione produce pariteticità e uguaglianza, cancellando ogni aspetto di asimmetria e di direttività del prendere-in-cura e ponendo la cura come aver-cura e aver-cura-insieme, in particolare. E’, inoltre, maieutica e libertà ed è rivolta a creare condizioni di autoformazione, di ricerca costante dell’identità del proprio sé, di struttura in equilibrio (pro tempore), di dare identità il cui segno più profondo può e deve permanere come contrassegnato da inquietudine, apertura, ricerca di sé.

Con l’autoformazione entra in gioco un altro modello di cura: la cura sui, la cura di sé, che è autoanalisi e riflessione su se stessi. Il soggetto guida e sostiene se stesso, reclamando tra io e sé una serie di pratiche, che oggettivano questa presa-in-cura e la riattivano. Sono le tecnologie del sé e gli esercizi spirituali di cui ha parlato anche Foucault in alcuni dei suoi ultimi testi (La cura di sé; Ermeneutica del soggetto; Tecnologie del sé).

Tale tipo di cura esige la mediazione di una pratica di cui il soggetto stesso è l’artefice. Una pratica riflessiva, interpretativa, ri-orientativa.

La cura sui, inoltre, è auto-maieutica che ha bisogno di pratiche per consolidarsi e rendersi oggettiva e operativa e efficace. Essa produce auto-formazione cercando di rendere il soggetto più consapevole e controllato. È dialogo-con-se-stessi: costante, aperto, sempre rinnovato e capace di farsi habitus del soggetto stesso. È controllo di sé, reiterato, reso programmatico, esercitato in modo costante. Ed è interiorizzazione di queste prassi che si fanno forma-del-sé e identitaria per l’io.

E qui si inserisce il discorso relativo alla supervisione pedagogica, che tanti professionisti dell’educazione vogliono fortemente nei servizi.

La supervisione pedagogica è una forma complessa e raffinata di cura dei professionisti che operano all’’interno di un servizio educativo e cura anche del servizio stesso. E’ luogo di parola e di ascolto, di attivazione e promozione del pensiero riflessivo. E’ contesto di apprendimento professionale, collettivo e comunitario, a partire da una condivisione di narrazioni di pratiche. E’ spazio di confronto con un punto di vista altro, differente, dissonante (proposto dal supervisore). E’ spazio di rielaborazione delle prospettive progettuali che orientano l’’azione e di individuazione di strategie per affrontare situazioni critiche e problematiche.

La supervisione, inoltre, si fa tavolo di lavoro, in cui interrogarsi sui significati assunti dal lavoro educativo in diversi settori e per i differenti attori, in costante tensione e rapporto con il tavolo della “progettazione” o riprogettazione del lavoro educativo stesso. L’attenzione è sul senso dell’intervento formativo: la supervisione mira, infatti, a promuovere una graduale ma radicale problematizzazione delle pratiche educative per poter ripensare il progetto educativo che sta alla base degli interventi agiti in un determinato contesto, provocando così micro-cambiamenti in fieri nelle pratiche educative e nel modo di pensarle.

E in questo tempo? Come si configurano le pratiche di supervisione? Come sono cambiate? Se qualcosa è cambiato…

Subito dopo le prime disposizioni sull’isolamento e la sospensione di molti dei servizi educativi, a molte équipe è capitato di ritrovarsi, in primis. pervase da un senso di spaesamento. In molti casi la modalità telematica e le urgenze hanno imposto di entrare subito in una fase operativa, per agire in fretta e non perdere troppo tempo. Man mano che il tempo trascorreva lento, però, alla necessità di agire si è affiancato il bisogno di dedicare uno spazio, anche contenuto, per la condivisione delle preoccupazioni. Il cambio repentino della quotidianità e i timori per la situazione, non solo rispetto al contagio, ma anche quelli economici e sociali, hanno avuto effetti diversi sui componenti delle diverse équipe e di certo spazi, seppur virtuali, in cui incontrarsi (guidati o no) e verbalizzare le preoccupazioni, confrontarsi, sentirsi accolti e riconosciuti, è stato di enorme aiuto.

Questa possibilità, se intesa come spazio di riflessione profonda su sé e sulla nuova configurazione dell’agire educativo, ha spesso permesso non solo di ritrovare la stessa lunghezza d’onda con i colleghi, ma anche di rafforzare i legami dei diversi gruppi, condividendo insieme le emozioni dei momenti più critici. Questo, però, se guidati da chi aveva gi strumenti per gestire al meglio questi spazi, per capirne i limiti e poterli chiudere prima che diventassero esageratamente carichi e quindi dannosi per qualcuno.

Ma come adattare i colloqui di supervisione al setting on line? Come rendere efficaci gli incontri di supervisione senza poter respirare i corpi? Senza poter volgere lo sguardo sulle innumerevoli sfaccettature del linguaggio non verbale che, spesso, urla più forte di quanto non si riesca a fare con la voce?

Non è stata cosa facile…tanto che, in parecchi casi, dopo due o tre incontri le équipe hanno preferito rimandare a quando ci si sarebbe potuti riunire in presenza. Un incontro di supervisione è uno spazio per se stessi, per l’equipe…per questo, in diversi casi, dopo la prima fase di lockdown e isolamento, è capitato a molti di sentirsi allo stretto nel salotto di casa, dove non era garantito un setting in cui poter essere liberi di tirar fuori fatiche e difficoltà perchè spesso disturbati, benché involontariamente, da qualche componente della famiglia.

Ci si è chiesti in tanti se gli incontri di supervisione online, tramite videochiamata, avessero la stesa efficacia di quelli tenuti all’interno dei servizi. Molti di noi si interrogavano sul come si sarebbero potuti sentire accolti e compresi anche stando seduti in soggiorno. D’altra parte la possibilità di organizzare incontri in presenza, consentiti già all’inizio della scorsa estate, generava in qualcuno un forte senso d’ansia legato alla paura del contagio.

Cruciale, in tutti i casi, perchè gli incontri su piattaforma fossero davvero di senso, (così come lo è per il buon funzionamento di un’équipe) è indubbiamente stato chi questi incontri li ha guidati e condotti; è dovuto essere in grado, pur in assenza di tutto il non verbale che, come ho detto prima, riveste una grande importanza negli incontri di supervisione, di presidiare la condivisione delle responsabilità in un tempo mai vissuto prima e il riconoscimento delle diversità individuali e professionali (che spesso si sono accentuate); ha dovuto, inoltre, affinare le capacità di tessere connessioni funzionali tra il gruppo di lavoro e la rete territoriale per tanto tempo non più attraversata, cercando di mantenere un buon equilibrio tra le nuove fatiche del lavoro a distanza e quelle comunemente generate dal lavoro educativo.

E’ stato necessario, in molte circostanze, capire come potesse essere possibile avviare processi di confronto informale in situazioni destrutturate, che, di norma si verificavano incontrando ogni giorno i colleghi e gli utenti e che erano in grado di illuminare zone d’ombra e di ri-significare gli eventi educativi.

Nel confronto con i colleghi, l’educatore ha la possibilità di riflettere sui racconti ascoltati per analizzarli e comprenderli, lasciandosi contaminare da altri punti di vista e modelli interpretativi. Per questo motivo, in un tempo in cui il focus era quotidianamente sull’incertezza esistenziale che la pandemia stava generando, è stato necessario che si riportassero le riunioni d’équipe e gli incontri di supervisione (benché online) ad essere luoghi di riflessione, di condivisione di informazioni, riflessioni, impressioni, narrazioni, cosa che avviene quotidianamente quando storie, pensieri e i vissuti di utenti e di operatori s’intrecciano e si respirano. E’ stato necessario riorganizzare spazi e tempi in cui emozioni e pensieri potessero sedimentare, tenendo presente che, talvolta, il carico emotivo delle situazioni da sostenere oppure l’urgenza operativa richiedono una condivisione immediata al fine di ridurre i margini d’errore legati all’improvvisazione. E tenendo presente che l’esiguità dello spazio di riflessione attiva risorse relative alla gestione dell’ansia e al problem solving.

Dove ciò si è verificato, spesso, alla ripartenza dei servizi educativi (avvenuta tra giugno e luglio o a settembre), gli educatori si sono trovati ben attrezzati per affrontare un tempo che sapevano sarebbe stato carico di incertezza e in cui, spesso, se non quotidianamente, sarebbe stato necessario ritrovare l’orientamento. Per affrontare un tempo mai vissuto, in cui sanitario ed educativo si sarebbero dovuti necessariamente meticciare, attraverso sguardi che prima non si avevano, senza perdere di vista che l’obiettivo sarebbe stato quello di fare vivere agli utenti esperienze educative di senso.

E oggi, io credo, chi si occupa di supervisione pedagogica nei diversi servizi educativi deve affrontare questa non facile sfida. Fare sì che gli educatori, in un tempo di restrizioni, distanze, nuove regole difficili da condividere, possano comunque sperimentare il potenziale generativo della riflessività, del confronto con i colleghi, dell’attivazione di un circolo dialogico ricorsivo tra i saperi acquisiti sul campo, le teorie che fondano le prassi operative e le strategie d’intervento adottate in relazione agli utenti e ai contenuti rivisitati.

Complesso? Certo che sì. Ma questo è un lavoro che si configura, io credo, come essenziale e irrinunciabile se vogliamo che i nostri servizi educativi continuino ad essere tali e di alta qualità.