Inizio con un tema che mi sta molto a cuore e di cui si parla ancora poco…l’educazione di genere.
Al nido sono pressoché assenti le figure educative maschili; questo potrebbe far sì che i bambini facciano proprio lo stereotipo che di loro si possono prendere cura solo le donne. Come liberarli, allora da un’immagine che prescrive certe attività o propensioni cosiddette naturali al solo sesso femminile? Ci assumiamo una grossa responsabilità di fronte alle nuove generazioni, presentando loro una realtà (la prima realtà sociale in cui si trovano a vivere) ricca di pregiudizi, di recinti entro cui alcuni sono accolti e altri, invece, stanno fuori.
Il corpo sessuato, di femmina o di maschio, è un dato che troviamo iscritto nel nostro essere fin dall’inizio. Che cosa significhi essere maschio o femmina (quali immagini di sé, quali caratteristiche, possibilità e ruoli il nascere maschio o femmina porti con sé) è il frutto di un’elaborazione sociale; si nasce maschio o femmina ad ogni latitudine, ma a diverse latitudini (e in diversi tempi) maschilità e femminilità vogliono dire cose diverse.
Diamo per scontato che uomini e donne siano diversi tra loro, che abbiano una diversa organizzazione del pensiero, diverse identità, diversi modi di pensare, agire, amare. Eppure quotidianamente donne e uomini vivono insieme.
E’̀ proprio la credenza che la distinzione di genere sia qualcosa di naturale a rendere “scandaloso” il comportamento di chi non segue questo modello: alle identità maschili e femminili sono associate, infatti, aspettative, atteggiamenti, ruoli ben precisi; non stupisce, quindi, se una donna rinuncia al lavoro per dedicarsi alla cura dei figli ma lo stesso comportamento da parte di un uomo susciterebbe profonde perplessità.
Le idee sul comportamento appropriato per ciascun genere sono sostenute e fatte circolare continuamente da esponenti di vari settori della società: dagli insegnanti, dai genitori, da chi gestisce i media, dai rappresentanti delle istituzioni (esponenti politici, uomini di chiesa). Allo stesso tempo però queste disparità nei ruoli e nelle aspettative non rappresentano una condizione subita e imposta esclusivamente dall’esterno, dalle norme sociali, dall’autorità. Sono le persone stesse a costruirsi, spesso di buon grado, come maschili o femminili: ogni giorno nel modo in cui uomini e donne si comportano, implicitamente reclamano il loro posto nell’ordine di genere e spesso traendo piacere da questa polarità della differenza.
Il genere è un modo di classificare, di indicare l’esistenza. In particolare il genere propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo. Si tratta di un termine binario, non univoco. Non è un sinonimo di condizione femminile o di mascolinità. Il concetto di genere pone in modo radicale la questione della costruzione sociale dell’appartenenza di sesso.
Educare al genere è, quindi, per diversi motivi, uno dei compiti più complessi che un genitore, insegnante o educatore, si trova a svolgere perché in questo particolare costrutto sociale si intersecano elementi biologici (i corpi sono differenti), elementi psicologici (le identità, le personalità che si sviluppano nel corso del tempo, la peculiare declinazione di femminilità e mascolinità che ciascuno di noi apprende e fa propria nel corso del tempo), elementi sociali e storici (come le diverse società interpretano il maschile e il femminile).
Alcune ricerche condotte nei servizi per la prima infanzia rivelano la tendenza degli educatori a fare riferimento a rappresentazioni stereotipate del genere che “naturalizzano” le differenze di genere tra bambine e bambini; a volte la differenza di genere emerge come qualcosa che “si ha”, qualcosa di naturale, piuttosto che qualcosa che “si fa”, che si pratica nelle relazioni quotidiane; genere e sesso, a volte, vengono utilizzati come sinonimi e le differenze di genere diventano “differenze sessuali”, date e definite da caratteristiche fisiologiche e strutturali tra uomo e donna.
Le medesime ricerche, però, rivelano anche che buona parte degli educatori alle domande relative alle ragioni dei diversi comportamenti e atteggiamenti tra bambini e bambine indicano l’educazione ricevuta in famiglia e i modelli osservati nel contesto sociale.
Per quanto riguarda il gioco, molti educatori riferiscono che la scelta di un gioco non è qualcosa di spontaneo, “naturalmente” ricercato dal bambino o dalla bambina, ma il prodotto di pratiche culturali e modelli mediatici. Ritenere che le bambine abbiano una preferenza verso i giochi di cura e che i maschietti preferiscano giochi di lotta riflette una delle tante visioni di senso comune relative alle differenze di genere che pongono l’accento sulla dimensione “naturale”, negandone la natura culturalmente costruita e legittimando le diseguaglianze tra maschi e femmine nella società contemporanea.
La costruzione dell’identità di genere si colloca all’interno del processo di socializzazione; se, infatti, il sesso è biologicamente determinato, ciò che è appropriato per un sesso e per l’altro per un determinato gruppo culturale è, invece, il frutto di una costruzione sociale. Interpretare il genere come una costruzione sociale significa riconoscere che tutto ciò che lo riguarda è storicamente e culturalmente determinato: i significati attribuiti al maschile e al femminile, i modelli di femminilità e maschilità, le espressioni e i comportamenti attesi in termini di identità e di ruoli cambiano da cultura a cultura e da un’epoca storica ad un’altra.
Data l’importanza della socializzazione al genere al fine della trasmissione di un determinato modello di maschilità e femminilità all’interno di un gruppo sociale, si può comprendere quanto sia importante che tra famiglia e servizi educativi si crei un’intesa fatta di una relazione dialogica significativa centrata sui temi educativi e di una collaborazione reciproca.
L’educazione di genere passa prevalentemente attraverso forme di pratica irriflessa; se si domanda a genitori a educatori quale significato si attribuisce all’espressione educare al maschile e educare al femminile, emerge una tendenza generalizzata a sottolineare come non vi sia e non vi debba essere un’educazione che abbia connotati diversi per maschi e femmine, anche se alcuni genitori precisano che questa indifferenziazione è lecita fino a che bambini e bambine sono piccoli/e.
Se si chiede a cosa si debbano attribuire le differenze nei comportamenti di bambini e bambine, i genitori, pur sostenendo la centralità del loro ruolo, sostengono che le differenze sono in parte innate e in parte dovute anche alle influenze esercitate dai contesti educativi, mentre il personale educativo attribuisce in larga parte alle famiglie la responsabilità di questo processo, sottolineando che il proprio modo di agire nei confronti di maschi e di femmine è neutrale: il modo di comportarsi di bambine e bambini è già differenziato in modo decisivo fin da piccolissimi e l’attribuzione di queste differenze è da collocarsi al di fuori dalla scuola.
Il rapporto che si intesse tra famiglia e scuola è fondamentale per costruire un contesto educativo stabile e coerente, in grado di guidare i piccoli nella loro crescita.
Quando ci si occupa di gioco nell’infanzia, non si può non sottolinearne la cruciale importanza nello sviluppo e nella crescita dei bambini e delle bambine. Se coniughiamo l’importanza del gioco nella vita infantile con la precocità dell’avvio dei modellamenti che l’educazione comporta, anche sul piano della trasmissione dei ruoli di genere, possiamo cogliere la rilevanza di giochi e giocattoli nella socializzazione alle caratteristiche e ai ruoli generalmente ritenuti propri dei versanti femminili e maschili dell’esperienza umana. Se teniamo poi conto dell’importante funzione svolta dagli adulti, affettivamente ed educativamente importanti per bambini e bambine in età compresa tra 0 e 3 anni, non possiamo non interrogarci su quali siano opinioni e prassi che questi adulti ritengono di avere/mettere in atto nello svolgimento delle proprie funzioni.