Essere comunità educante

L’idea di scrivere questo articolo nasce all’inizio di questo caldo mese di luglio, quando ho avuto la fortuna di prendere parte ad un percorso di formazione di tre giorni, messo a punto dalla notissima nel nostro ambiente Silvia Iaccarino.

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E’ stata una formazione densa, carica di tanti significati, emozioni. Ho ritrovato amiche, donne che fanno il mio mestiere perché desiderano diffondere una nuova cultura pedagogica, fatta di sguardi in profondità, pensieri che circolano, apertura alla novità. Una formazione potente, che mi ha regalato tanta energia per affrontare le fatiche dell’educare e le nuove sfide che ho intenzione di affrontare. E che mi ha donato una bellezza tanto grande che non si può esprimere fino in fondo con le parole.

Prima della fine del percorso formativo ho scritto un biglietto che ho messo in una scatola…diceva…”è stato un momento di condivisione profonda, di circolo di idee e soprattutto emozioni…un momento in cui ho sentito la potenza di un gruppo coeso che ti sostiene e ti accompagna”…

Mi sono sentita parte di un gruppo…non una pedina su una scacchiera…una persona senza cui il gruppo non sarebbe potuto essere e senza cui non avrebbe potuto creare tutto ciò che è stato creato…Una nuova cultura pedagogica…una cultura in cui il bambino è al centro e l’adulto, in punta di piedi, appresta occasioni e osserva che accade.

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Nel corso di quel residenziale si è formata una vera comunità educante…persone, professioniste dell’educazione, pedagogiste, educatrici, che hanno dato il via a un cerchio in cui si è fatto esercizio di virtù’, di relazioni, di condivisioni che hanno assunto e assumono ogni giorno grande rilevanza educativa…E’ nata in quei tre giorni una reale comunità educante…una comunità che è stata ed è spazio di partecipazione, che continua ad abilitare all’esercizio di certi valori (soprattutto la centralità del bambino nelle nostre pratiche) e che si assume ogni santissimo giorno responsabilità ed iniziative educative. Una comunità che si nutre ora di interrelazioni, di scambi, di reciprocità. E che sta crescendo…si sta diffondendo nei nostri servizi per l’infanzia. Con mia grande, grandissima gioia.

E’ un grande onore, per me, essere parte di questa meravigliosa comunità educante, perché, io credo, nella problematica pedagogica contemporanea è di fondamentale importanza preoccuparsi della dimensione sociale del processo educativo. Tale preoccupazione nasce dal fatto che il soggetto dell’educazione (così come noi pedagogiste, noi educatrici) va visto nel contesto sociale in cui esiste, e, proprio per questo motivo, ha senso parlare di “comunità educante”. Ognuno di noi è inserito in una pluralità di comunità (i familiari, gli amici, il sistema di relazioni economiche, produttive, giuridiche…) entro cui sviluppa le proprie azioni e si disegna la propria identità; e la comunità, attraverso le interazioni dei suoi membri, assume una propria fisionomia e, a poco a poco, si pone in relazione con altre comunità e con la cornice che le rende possibili, vale e dire la società.

La società di oggi, ricca di sfaccettature, liquida, magmatica, richiede che nei processi educativi sia impegnata tutta la comunità…Per questo è fondamentale che noi professioniste dell’educazione assumiamo la postura di chi vuole operare nel mondo e con esso continuamente rinnovarsi, cercando di appropriarci della realtà “mettendo le mani in essa”, tutti insieme. La sfida di oggi è lavorare affinché educhiamo alla responsabilità, alla partecipazione, al dialogo, alla tolleranza.

Nei giorni del residenziale si percepiva chiaramente che tutte eravamo lì per costruire, tramite percorsi riflessivi, una progettazione partecipata dell’azione educativa. Ognuna di noi ha portato un pezzetto di sé, tasselli, mattoni, perché si possa trasformare i contesti educativi in cui lavoriamo in comunità educanti attraverso il coinvolgimento e la partecipazione di tutti coloro che li attraversano. E questo a partire dalla comunità a cui abbiamo dato origine in quei giorni.
Tutti insieme è importante. Perché tutti insieme possiamo contribuire alla realizzazione degli obiettivi condivisi che ci diamo. E’ solo collaborando in senso partecipato che possiamo rivolgerci ai bambini e alle loro famiglie non solo come destinatari dei servizi, ma come protagonisti e attori attivi delle iniziative programmate e attivate.
E questo è di una potenza incredibile. E’ un ribaltamento di prospettive. Servizi portati aventi e costantemente migliorati da operatori che si confrontano con altri operatori e soprattutto da tutti coloro che li attraversano quotidianamente. Tutti.

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Educare è un verbo che ha radici latine: deriva da ex ducere = tirare fuori, rendere realizzabile (visibile) ciò che è possibile, ciò che è implicito in ogni persona, fin da bambino, la sua potenza, le sue potenzialità, il suo valore di persona, la sua dignità umana. Ma non basta. Educare è soprattutto un atto di reciprocità. Chi educa è anche educato e il suo sapere si gioca nell’atto dell’educazione. Educare non è solo formare. Educare è costruire insieme identità e futuro. Per questo il gruppo che abbiamo costituito in quei giorni, la nostra comunità educante, si è caricata di un ruolo molto importante verso chi frequenta i nostri servizi per l’infanzia: dobbiamo ora espandere i concetti e i valori che sono circolati tra di noi nel corso di quei tre giorni attraverso le nostre buone pratiche e il nostro lavoro. Abbiamo ora il dovere di mettere le conoscenze che sono circolate al servizio di fini costruttivi.

Abbiamo costituito una comunità educante che sta vivendo ed è in fermento; e come tale dobbiamo avere ben chiaro che una società plurale come quella in cui viviamo ha bisogno, come non mai prima di ora, di persone che sappiano assumersi responsabilità delle proprie opinioni e che sappiano accettare che le proprie opinioni possano cambiare nel confronto con quelle degli altri.

E, soprattutto, si è costituito un bel gruppo di colleghe che sono anche amiche. Un gruppo di amiche che hanno voglia di condividere pensieri ed esperienze, che hanno voglia di formarsi consapevoli che, per chi fa lavoro educativo e pedagogico, aggiornarsi è un dovere, oltreché un grande piacere. C’è un filo rosso che serpeggia, ormai, tra i nostri servizi, da Milano alla Toscana, passando per l’Emilia Romagna e le Marche…un fil rouge che ci unisce e ci rammenta la potenza del nostro incontro.

Concludo con una parte di una poesia scritta dalla cara collega Ilenia Schioppetti…ricordando a chi mi legge di guardare…anzi di “sguardare” con attenzione le persone a cui affidate i vostri bambini…

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“perdere il discorso.
tenere il filo.
che lega.
unisce.
protegge.
aiuta.
allunga.
di mano in mano.
storie.
scritte.
da un filo.
perdere il discorso.
tenere il filo.
che scrive.
storie.
di mano in mano.
e allunga.
aiuta.
protegge.
unisce.
lega.
rete.
di filo.
tenuto.
da un discorso perso.”

La fatica dell’educare. Il burnout e le strategie di prevenzione

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Sabato 19 gennaio ho avuto il privilegio di partecipare al Convegno “La fatica dell’educare”, patrocinato dall’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale e organizzato dal Team inRelazione in collaborazione con la cattedra del professor Raffone dell’Universita’ La Sapienza di Roma. Il convegno, non a caso, io credo, si è tenuto in un luogo meraviglioso, dove si è respirata tanta bellezza, la Promoteca del Campidoglio.

Si è parlato di burnout e di quanto sia importante la sua prevenzione.

Sono sempre più frequenti, nella cronaca, i racconti di episodi di maltrattamento di bambini o utenti “fragili” (anziani, disabili,…) da parte di educatrici o insegnanti. Racconti che, ogni volta, mi lasciano incredula. Attonita.

E’ doloroso pensare, in queste circostanze, alla paura che hanno provato i bambini maltrattati. È doloroso sentirsi parte di un “brutto mondo” perché si fa lo stesso mestiere. È doloroso percepire i pregiudizi delle famiglie e il loro peso.

Io sono una pedagogista. Prima ancora un’educatrice. Lavoro in un nido. E sono molto fiera del mestiere che faccio; lo amo molto e mi dà tante soddisfazioni.

Ho studiato per diventare ciò che sono. Ho fatto un lungo percorso, millemila ore di tirocinio con insegnanti che, in università, mi avrebbero fermata se si fossero resi conto che non ero motivata a sufficienza. Perché educare è fatica e senza una motivazione profonda non si può fare questo mestiere.

E come me, tante…tantissime colleghe, che rispettano i bambini, li ascoltano, partecipano con entusiasmo alle loro giornate.

Fa male sentire racconti di botte, grida, vessazioni.

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Tante persone…anche colleghe…sostengono che la soluzione a queste brutture siano le telecamere. Credetemi, non è così. Le telecamere possono essere un ottimo strumento di propaganda politica (e, infatti, persone che di pedagogia non ne sanno nulla stanno discutendo in Parlamento di un disegno di legge che vuole renderle obbligatorie nei nostri servizi per l’infanzia) ma non servono a prevenire i casi di maltrattamento. Potranno, forse, tamponare una situazione di emergenza ma non sono una soluzione definitiva.

Non credo che ci siano “cattive educatrici”. Ci sono, però, educatrici che, a un certo momento, iniziano a stare male. Non riescono più a emozionarsi. Si sentono inutili e inadeguate. Non trovano più soddisfazioni personali nella professione. Sono vittime del Burnout, uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale che deriva dal coinvolgimento prolungato nel tempo in situazioni lavorative emotivamente impegnative, proprio come quella che si verifica in un servizio educativo in cui ci si prende cura dei bambini.

Non sto sostenendo che tutte le educatrici, prima o poi, nella loro vita lavorativa, saranno assalite dal burnout…anzi…molte non ne saranno neppure sfiorate. Non dobbiamo però pensare che a noi non accadrà mai. È in agguato. È importante, quindi, focalizzarci sulle strategie di prevenzione.

Il burnout è una forma molto seria di stress cronico, in grado di compromettere la capacità lavorativa di una persona. Chi lavora nei servizi per l’infanzia è a rischio. Diciamolo. Diciamocelo. Riflettiamoci su. Con molta attenzione e coscienza. E, soprattutto, senza paura.

Nei servizi che si occupano di infanzia sono tanti gli zoccoli duri: c’è il problema di un eccessivo numero di bambini per educatrice/insegnante (1/28 è un numero molto alto, ma è quello consentito dalla legge nella scuola dell’infanzia); c’è il problema della precarietà, delle difficoltà relazionali tra colleghe, dello scarso riconoscimento all’esterno, dei rapporti con le famiglie che, sempre più spesso, sono difficili e problematici.

Ogni educatrice, inoltre, quando inizia il suo lavoro ha delle aspettative sull’importanza dei propri compiti e sul ruolo sociale che ha, aspettative che possono essere anche molto elevate. È possibile, però, che nella realtà si scontri con il mancato riconoscimento della propria professionalità da parte dei genitori, con l’idea di una paga (giustamente o ingiustamente) percepita come inadeguata per il delicato lavoro che si svolge, col trovarsi a dover sacrificare alcuni aspetti importanti della propria vita per il lavoro. E se non si hanno le risorse (interne ed esterne) per far fronte in maniera razionale a questo iato tra aspettative e realtà, si può facilmente andare incontro al burnout.

Si legge ad un certo punto, nel libro “inRelazione”: Gli antichi greci articolavano la conoscenza in “episteme”, “techne” e “phronesis”, vale a dire “conoscenze certe”, “abilità tecniche” e “saggezza pratica”. Sono sempre state enfatizzate l’episteme e la techne, mentre è stata messa a margine la phronesis, le abilità emotive che, se ben sviluppate, hanno la capacità di moderare e di limitare l’effetto dello stesso tipico del nostro ambiente lavorativo.

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Il metodo inRelazione è un percorso di formazione che ha proprio l’obiettivo di incrementare le competenze emotive e relazionali di chi fa un lavoro di natura educativa. E’ un percorso impegnativo; copre l’arco di un interno fine settimana e tutte sappiamo quanto abbiamo bisogno del sabato e della domenica per ricaricarci e riprenderci dalle fatiche della settimana. E’, però, anche un percorso che ti aiuta a prendere coscienza di te, della tua fragilità, delle tue fatiche di professionista che lavora con i bambini. Contribuisce a renderti più solida dal punto di vista emotivo e relazionale, aiutandoti a rinforzare il Sè e dandoti strumenti e occasioni per entrare in contatto con il tuo “bambino interiore”, per ritrovare la giusta motivazione e migliorare la qualità del lavoro con i bambini.

Quando ho partecipato al training, nel settembre 2018, ero molto affaticata nonostante l’anno educativo fosse appena agli inizi. Ero alle prese con un ambientamento che sentivo impegnativo e non ero certa di avere le risorse per portarlo a termine come avrei voluto.
La formazione mi aiutato a “centrarmi” nuovamente. Ed ho cambiato sguardo su ciò che mi stata accadendo nel lavoro.
Ho capito che, per poter procedere, dovevo ascoltare le emozioni che quella situazione lavorativa aveva fatto nascere in me. Frustrazione, senso di ansia, affanno. Ho capito che dovevo mettere in campo le mie emozioni nella relazione con quella bambina che stava affrontando l’ambientamento. Non dovevo metterle da parte queste emozioni.
Solo così, infatti, questa relazione sarebbe diventata autentica e di qualità. Ho capito che potevo portare la mia fatica, la frustrazione, la difficoltà a tollerare il pianto disperato.
Si pensa che quando si sente la fatica nella relazione, sia colpa dell’altro, che è strano, sbagliato. Ma siamo sicuri che sia così? Nel nostro lavoro ci misuriamo con le difficoltà, le fatiche, perché anche noi educatrici siamo persone con dei limiti e dei difetti e con aspetti problematici nel nostro Sè. Non è facile arrivare ad essere consapevoli di questo, ma, quando accade, assumiamo una postura che ci porta ad accogliere il nostro vissuto e a scegliere, in base ad esso, come rispondere nel modo migliore alla situazione che stiamo vivendo, con il rispetto dei vissuti e dei bisogni della persona con cui siamo entrate in relazione.

Ci vuole tanta concentrazione per riuscire ad assumere una postura di questo genere…così è stato per me…Forse mi ha aiutata l’esperienza che ho maturato in tanti anni di lavoro con i bambini, le formazioni passate, il bisogno di sentirmi bene nel mio contesto lavorativo…
Quando ho ripreso il lavoro dopo il fine settimana di formazione ho sentito che ero pronta per guardare a quell’ambientamento con occhi differenti. Mi ha aiutata il sintonizzarmi con lo stato emotivo della bambina in ambientamento…con la sofferenza per l’allontanamento della madre, con la fatica a stare in un luogo nuovo e poco conosciuto, con persone anch’esse nuove e poco conosciute…L’ho abbracciata tanto, le ho raccontato del gruppo di bambini di cui avrebbe fatto parte, le ho fatto vedere le fotografie dell’anno precedente…Ad un certo punto non era più importante, per me, che smettesse di piangere. Era importante che sentisse che accoglievo il suo pianto e che lo avrei accolto finchè ne avesse avuto il bisogno. Questo mi ha fatto sentire meglio…
Se ti focalizzi sul voler far cessare un pianto disperato di un bambino che sta male, può nascere dentro di te un grande senso di frustrazione e un elevato livello di stress; se, al contrario, lasci che il bambino si esprima con la modalità di cui sente la necessità, che può essere anche il pianto, piano piano ti accorgerai che lui si sente meglio e, con lui, accadrà anche a te di sentirti meglio.

Ci si deve, quindi, focalizzare sulla qualità della relazione: in questo modo si può prevenire il burnout. Perché le relazioni siano di qualità in un contesto educativo è importante mettere in campo una buona capacità di ascolto, esterno ma anche interno: bisogna saper mettersi in contatto con l’altro e, contemporaneamente con sé stessi; perché questo succeda bisogna avere una buona consapevolezza di sé.

Questo ho appreso nel corso del training inRelazione. E credo che sia molto importante per essere una professionista migliore.

Il gioco libero con il materiale destrutturato

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Circa un anno fa, nel corso di un incontro di supervisione abbiamo parlato dell’importanza del gioco libero e di quanto sia dato poco spazio ai bambini per farlo, perché si pensa che la cosa più importante sia tenerli occupati in qualche attività…

Io e la mia équipe siamo dell’idea che sia fondamentale lasciare che i bambini imparino a giocare liberamente con quello che hanno a disposizione e così abbiamo deciso di inserire questa idea nel progetto educativo di quest’anno.

Chi frequenta un nido, probabilmente, ha sentito parlare di “gioco libero” e, forse,ha associato questa “libertà” all’immagine di un’intera sezione di bambini che giocherellano “con questo e quel giocattolo” senza scopo. I bambini a cui viene proposto il “gioco libero”, in effetti, sono liberi di giocare con ciò che desiderano, con i compagni o da soli.
Il gioco libero, però, non è attività di routine che va a colmare quegli spazi della giornata utili alle esigenze di tutti i bimbi come l’accoglienza, il cambio o la pausa prima della nanna…E’ una proposta educativa completa perché stimola tutte le aree di sviluppo del bambino: quella sensoriale, quella cognitiva e quella motoria.

Il bambino, giocando liberamente, effettua in modo spontaneo tutte quelle attività che quotidianamente le educatrici gli propongono in maniera complessa e strutturata. Prendiamo ad esempio un percorso motorio: l’educatrice lo propone con cerchi da attraversare, ostacoli da aggirare…;il bambino compie la stessa attività in modo spontaneo quando gioca e corre per gli spazi del nido o all’esterno negli spazi del giardino. Solo che al posto del cerchio potrà trovare il tavolino sotto cui si muoverà a carponi e al posto degli ostacoli potrà trovare, magari, una sedia messa fuori posto.

Grazie a questo tipo di gioco il bambino stimola anche la sua fantasia. E, lentamente, sviluppa autonomia. Il gioco libero, infatti, e’ sperimentarsi, è sapere, saper fare e saper essere. È vitale, perciò, che il bambino possa giocare senza che l’adulto si sostituisca a lui o non lo reputi capace perché il gioco è mediatore dell’apprendimento.

Da quest’anno abbiamo iniziato a proporre esperienze con le cosiddette “Loose Parts”. Le loose parts (“parti sciolte”) sono elementi (naturali, di recupero, di scarto industriale) che possono essere spostati, trasportati, combinati, infilati, impilati, separati e rimessi insieme, usati da soli o combinati con altri materiali, in uno spazio di costruzione libero oppure delimitato da “supporti” di diverso genere (teli, reti metalliche, cornici, cartoncini, materiale plasmabile), come scrivono le colleghe D. Corradi e Alessandra Dedè in un articolo che compare sul sito di Percorsi Formativi.

La Teoria delle Loose Parts di Simon Nicholson (1972) sostanzialmente afferma che: “In qualsiasi ambiente, sia il grado di inventiva e di creatività, sia la possibilità di scoperta, sono direttamente proporzionali al numero e al tipo di variabili in esso presenti”. Vuol dire che più materiali proponiamo e più questi materiali sono vari, più i bambini che faranno esperienza con questi lavoreranno di fantasia e creatività e, di conseguenza, apprenderanno. Le Loose Parts sono molto più coinvolgenti e stimolanti di quanto possono esserlo i giocattoli tradizionali, perché non hanno un uso definito e univoco, ma possono essere spostate, combinate tra loro, trasformate a piacere proprio perché “sciolte”, slegate tra loro, libere.

A questa tipologia di materiali viene attribuita un’ampia gamma di opportunità che permette grande libertà di scelta da parte del bambino e sollecita la sua creatività. Essi, inoltre, sono anche definiti open-ended, perché permettono ai bambini di diventare co-protagonisti non solo dell’utilizzo ma anche della progettazione degli ambienti in cui essi vengono disposti. E questa è una potenzialità molto importante. I bambini, infatti, grazie alle loose parts divengono parte attiva di un processo progettuale che rende più attraenti le esperienze di gioco e di scoperta.

Riporto di seguito un pezzo di quanto scrivono Corradi e Dedè: “In questo modo è più facile superare le difficoltà della tecnica e delle abilità specifiche di ognuno, perchè quello che interessa non è a prestazione ma il poter vivere un’esperienza in modo personale e in piena valorizzazione delle differenze.
Avere a disposizione “parti sciolte” in un contesto di gioco permette, inoltre, ai bambini di scegliere quali materiali utilizzare e come utilizzarli, adattandoli a proprio piacimento e lasciandosi andare a ricerche compositive, estetiche, progettuali anche inconsuete,
In questo tipo di attività, il compito dell’adulto non è quello di “insegnare” una tecnica quanto piuttosto di predisporre uno spazio e dei materiali scelti, accostandosi ai bambini con un atteggiamento di “promozione dall’interno” per alimentare in loro un’attitudine autonoma alla ricerca, all’avventura, allo stupore, ai pensieri azzardati”.

Ci si scervella spesso per realizzare prodotti per il gioco dei bambini ma è evidente che il mondo è pieno di oggetti che li attraggono di più: i materiali di scarto delle lavorazioni prodotti nelle officine, nelle case, nei giardini; materiali che non utilizzano per imitare il lavoro degli adulti ma per creare nuovi rapporti tra le parti costruendo in questo modo un piccolo mondo fatto di oggetti, tutto loro, dentro al mondo più grande.

Chi volesse appronfondire in merito all’uso dei materiali destrutturati nei contesti educativi, può leggere il testo “Materie intelligenti”, a cura di M. Guerra. Sulle Loose Parts in particolare, si può leggere l’articolo che cito a questo link http://percorsiformativi06/arte-effimera-loose-parts-al-nido-allascuoladellinfanzia/

 

 

 

 

L’ambientamento

 

Con l’entrata al nido, il bambino affronta una situazione nuova che modifica le sue abitudini e introduce l’esperienza del distacco dalla famiglia. I genitori vivono questa esperienza con particolare attenzione e talora anche con ansia, preoccupazione e senso di colpa.

Tutti i bambini, con modalità diverse, vivono il momento di passaggio dalla situazione domestica (conosciuta e rassicurante) a quella nuova del nido con una fase di crisi, ma  se il percorso di ambientamento viene svolto dedicando molta attenzione alla rassicurazione e al contenimento delle paure del bambino, tutto si risolve positivamente.

Ogni inserimento è unico e viene pertanto gestito ed articolato in maniera diversa da bambino a bambino, con tempi diversi e modalità adattate ad ogni singolo.

La mia équipe spesso affronta l’argomento delle modalità di ambientamento, ma, fatta eccezione per casi particolari, siamo tutte d’accordo  sui due criteri fondamentali su cui deve basarsi un inserimento: la gradualità rispetto ai tempi di ambientamento del bambino e la continuità tra le rispostedella famiglia e quelle del nido nei confronti delle esigenze di ogni singolo bambino.

Per ridurre al massimo l’ansia ed il senso di abbandono, è fondamentale creare un senso di continuità tra famiglia e nido e un clima di fiducia e di rispetto reciproci affinché il bambino percepisca positivamente le sue figure di riferimento (genitori ed educatrici). Se viene a mancare questa sicurezza, nel bambino si crea confusione e paura e la permanenza al nido diventa fonte di sofferenza.

L’educatrice deve diventare una base sicura ed un punto di partenza per le future esplorazioni.

Fondamentalmente l’educatrice deve cercare di trasmettere ai genitori che nulla è mai lasciato all’improvvisazione.

E’ molto importante:

  • la comprensione dei bisognidel bambino
  • la comprensione dei bisognidel genitore
  • la fiducia in un sistema di riferimento.

Nel periodo di ambientamento, è molto importante che i genitori siano molto presenti nella parte della giornata che il figlio non trascorre al nido, per evitare di fargli vivere un forte sentimento di abbandono.

La costante presenza dei genitori dà al bambino la sicurezza nel distacco: un distacco che è solo temporaneo, perché mamma e papà lo andranno a prendere e staranno con lui.

Inoltre è molto importante che i genitori (in particolare le mamme) non vivano un senso di colpa nel lasciare il bambino al nido, anziché occuparsi personalmente di lui tutto il giorno. Questo senso di colpa potrebbe, se percepito dal bambino, alimentare e confermare la paura di abbandono del bambino stesso.

E’ fondamentale, in questa fase, il rapporto del bambino con una specifica figura di riferimento costante, al fine di diminuire lo stress del distacco attraverso un’interazione privilegiata basata sulla fiducia e sull’affetto (nei momenti del cambio, del pranzo, del sonno, del gioco e delle coccole). I bambini piccoli, che non riescono ancora ad esprimere attraverso le parole le esperienze che stanno vivendo, hanno bisogno di questi rapporti speciali e ne hanno bisogno in un modo molto immediato e concreto.

Il rapporto che il bambino sviluppa con la persona di riferimento non sostituisce affatto la relazione tra bambino e genitori.

Il “gruppo misto” al nido

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Il tema dei gruppi misti al nido è oggetto di ricerca fin dagli anni Ottanta, per un interesse pedagogico da un lato ed esigenze organizzative dall’altro lato.
I primi nidi nascono a tre sezioni: piccoli/lattanti medi/semidivezzi, grandi; alla metà degli anni ’80 in Toscana, si comincia a lavorare con gruppi costituiti da bambini di età eterogenea e si evince che:
• I lattanti seguono i grandi con lo sguardo e cercano di partecipare alle loro attività quando è possibile
• Il grande ha atteggiamento di tutoring nei confronti del piccolo: insegna come usare i giochi oppure rinuncia a contenderli, mostrando grande capacità di modificare la relazione a seconda dell’interlocutore
• Nei gruppi misti c’è un clima di maggiore calma, si verificano meno episodi di conflittualità
• I lattanti non sono a disagio per la situazione movimentata, anzi tendono a parteciparvi e i più grandi sperimentano modalità relazionali diverse e competenze più alte di fronte ai piccoli

Il gruppo misto, quindi, fa pensare a due concetti molto importanti: “cooperazione” e “conflitto”. Queste sono modalità dello stare insieme osservabili fin dai primi mesi di vita e già nei primi anni la comprensione dei rapporti all’interno della famiglia diventa strumento utile nella gestione delle proprie relazioni sociali: riconoscere il leader della situazione e allearsi con questo, tentar di influenzare il giudizio del leader per poterne godere a scapito degli altri, sapere come comunicare e differenziare la propria modalità di comunicazione a seconda dei destinatari per poter indurre azioni o per relazionarsi sembrano essere competenze ben sviluppate sin da molto presto.

Il modo di relazionarsi dei coetanei tra di loro dipende da una serie di fattori (il temperamento, la storia relazionale, i contesti in cui avvengono le interazioni). L’interazione tra bambini parte da una spinta esplorativa e si sviluppa verso intenzioni più complesse; ogni bambino o bambina impara dagli altri ed è fonte di conoscenza e di esperienza per gli altri. Si parla di cultura dei bambini all’interno dei servizi per l’infanzia quando il contesto permette ai bambini di incontrarsi, scontrarsi e costruire un patrimonio condiviso di gesti, piccole situazioni che nella loro ripetitività danno vita, nel quotidiano, a veri e propri linguaggi e valori condivisi..
La qualità delle relazioni tra coetanei, inoltre, è influenzata dal tipo di società in cui i bambini vivono, a cominciare dal tempo che trascorrono con le figure familiari e poi le educatrici e i compagni.

Rileviamo comportamenti interattivi nei bambini a partire dalla seconda metà del primo anno di vita: iniziano i giochi del dare e del prendere che sembrano finalizzati in parte all’oggetto in questione in parte alla relazione. Già intorno ai primi cestini dei tesori si intravedono sguardi incuriositi ai giochi toccati dagli altri: gli oggetti mediano la relazione e spesso concentrano l’attenzione di più bambini.
Quando i bambini iniziano a muoversi autonomamente la relazione si apre al contatto fisico di natura esplorativa e osserviamo le prime imitazioni; per passare dalle interazioni sporadiche a relazioni che hanno un significato nel tempo è necessaria la familiarità, cioè la convivenza in un certo contesto che si ripete con regolarità. Tuttavia iniziano anche i primi conflitti, lo scatenarsi di rabbie per dei comportamenti aggressivi che inizialmente hanno valore esplorativo e man mano sempre più intenzionalmente motivato da un interesse sociale. Comportamenti volti ad attirare l’interesse degli adulti o dei compagni, magari utilizzati come modo per entrare in relazione con l’altro o per concorrenza o gelosia.
Sono già osservabili comportamenti prosociali di aiuto, di consolazione e di tutoring quando i più grandi aiutano i più piccoli; in particolare è nel gioco di finzione che sono visibili strategie di assunzione e distribuzione dei ruoli per lo svolgimento di azioni condivise.

Oggi sappiamo che i bambini sono capaci di organizzarsi fra loro e di organizzare l’ambiente e in questo modo partecipano dei valori e dei contenuti della vita degli adulti rappresentandola, non imitandola, nella forma del gioco.

La gestione di gruppi di bambini è una tra le competenze educative più complesse che, in genere, matura con l’esperienza sul campo e, soprattutto, con una formazione specifica sulla relazione tra pari. Da parte dei genitori, di solito, la scelta del nido nasce anche per volontà di far socializzare i propri figli, intendendo per socializzazione sia lo stare insieme ad altri con interessi, emozioni e curiosità simili, sia l’acquisizione di regole sociali di convivenza. Da parte degli educatori professionali la gestione di gruppi presuppone, oltre alla conoscenza dello sviluppo delle competenze relazionali nei primi tre anni di vita, la progettazione di luoghi che siano adatti alla vita di gruppi, in termini di spazi, tempi e attività. Nascono, allora, alcuni spunti di riflessione. Nelle relazioni “a due” l’adulto è così coinvolto che di rado tiene a mente che tutti i bambini presenti in qual contesto sono esposti alle interazioni che l’educatrice intrattiene con ciascuno: molte “regole del gioco” si apprendono attraverso l’osservazione degli altri. L’adulto è riferimento sociale non solo diretto ma anche indiretto e l’esperienza che ogni bambino fa insieme all’educatore in un contesto di gruppo è anche esperienza del gruppo.
Quando si lavora con un gruppo di bambini è importante cercare di interagire con il gruppo nella sua complessità mettendosi in ascolto di tutti i membri del gruppo. In questo modo si riconosce ciascuno come membro del gruppo e l’interdipendenza reciproca; i gruppi di bambini, al di là delle differenze di genere, culturali o di abilità, possono trovare un adulto in grado di creare un luogo di vita di benessere per il gruppo, ove l’individuo mantiene i suoi spazi e il riconoscimento dei propri bisogni, perché l’adulto è attento a ciascuno e non percepisce gli altri come ostacoli per il raggiungimento del benessere individuale. Normalmente pensiamo che il gruppo limiti l’individuo, sottraendogli attenzione privilegiata o esperienze di apprendimento individualizzato; quando, però, parliamo di gruppi all’interno di contesti educativi, stiamo parlando di identità che sono molto più della somma delle parti del gruppo. Più persone insieme, anche persone molto piccole, sono orientate ad imparare un modo particolare di stare insieme. Inoltre, la cultura dei pari al nido non nasce in modo parallelo alla cultura del gruppo degli adulti: il modo in cui gli educatori si rappresentano il gruppo di bambini cambia il modo di relazionarsi al gruppo, la capacità dell’adulto di gestire le interazioni, di pensare a ogni singolo dentro a un gruppo, cambia il modo di relazionarsi dei bambini con gli adulti e tra di loro.

Al nido, ogni giorno, ogni bambino vive esperienze di gruppo, differenziate sia per qualità che per quantità e i gruppi sono coordinati e gestiti da un numero di educatrici che varia nel corso della giornata (difficilmente – per fortuna! – le educatrici lavorano in modo continuato con i bambini per tutto il tempo che in media un bambino sta al nido).
La qualità delle relazioni fra educatrici e ciascun bambino è strettamente connessa alla qualità di funzionamento di un gruppo di lavoro; riflettere sui gruppi di bambini significa, infatti, anche riflettere sulla sulle relazioni tra educatore e bambini e sulle relazioni tra educatori, coordinatore e ausiliari. Il lavoro dì équipe è una condizione necessaria per dare significato pedagogico sia alle diverse tipologie di gruppi sia al lavoro del nido nel suo complesso.

I momenti di relazione spontanea tra bambini hanno luogo in numero particolarmente considerevole, momenti relazionali che avvengono attraverso lo sguardo e sempre attraverso lo sguardo vengono mantenuti; lo sguardo (l’osservare quello che accade tutt’intorno) è una modalità relazionale che viene usata molto spesso dai bambini per tenere il contatto con l’altro e viene usato come modalità che favorisce e sostiene l’imitazione e l’apprendimento.
Vi sono, poi, numerosi momenti di relazione spontanea tra bambini che hanno come contenuto la conferma, ripresa ed elaborazione delle regole: frequenti sono gli scambi tra bambini in cui uno recupera certe regole e le fa presenti all’altro precisando che una certa cosa non si fa o si fa diversamente, comportamento che induce il secondo a recuperare e a rielaborare la regole stessa.

I gruppi misti al nido diventano un’importante occasione per sperimentare relazioni ricche e complesse, sicuramente ecologiche rispetto a quanto avviene nei gruppi sociali naturali. E’ chiaro che in questa prospettiva le capacità riflessive e la consapevolezza del proprio stile educativo diventano strumenti di lavoro del fare educativo imprescindibili.
L’esperienza di questi anni, mi porta a dire che lavorare con il gruppo misto favorisce ampie possibilità di relazione e costruzione di rapporti, sia tra coetanei che tra bambini di età diverse: permette ad esempio l’imitazione del piccolo verso il grande (ma anche il contrario) così come la cura del grande nei confronti del piccolo. Inoltre, è frequente che il piccolo, avendo più modelli da cui attingere (gli adulti e i pari), imiti il gioco e l’azione del grande, provando, sbagliando e riprovando e queste esperienze lo condurranno più agevolmente all’autonomia. Inoltre il piccolo è affascinato dai bambini più grandi mostrando nei loro confronti un grande interesse che si esprime attraverso sorrisi, sguardi intensi e desiderio di entrare nei loro giochi. Anche i grandi però cercano i più piccoli: hanno infatti la possibilità di “regredire”, per consolidare le loro conquiste e il piacere di un’autonomia già raggiunta, sviluppando verso di loro forme di responsabilizzazione e di cura.