La fatica dell’educare. Il burnout e le strategie di prevenzione

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Sabato 19 gennaio ho avuto il privilegio di partecipare al Convegno “La fatica dell’educare”, patrocinato dall’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale e organizzato dal Team inRelazione in collaborazione con la cattedra del professor Raffone dell’Universita’ La Sapienza di Roma. Il convegno, non a caso, io credo, si è tenuto in un luogo meraviglioso, dove si è respirata tanta bellezza, la Promoteca del Campidoglio.

Si è parlato di burnout e di quanto sia importante la sua prevenzione.

Sono sempre più frequenti, nella cronaca, i racconti di episodi di maltrattamento di bambini o utenti “fragili” (anziani, disabili,…) da parte di educatrici o insegnanti. Racconti che, ogni volta, mi lasciano incredula. Attonita.

E’ doloroso pensare, in queste circostanze, alla paura che hanno provato i bambini maltrattati. È doloroso sentirsi parte di un “brutto mondo” perché si fa lo stesso mestiere. È doloroso percepire i pregiudizi delle famiglie e il loro peso.

Io sono una pedagogista. Prima ancora un’educatrice. Lavoro in un nido. E sono molto fiera del mestiere che faccio; lo amo molto e mi dà tante soddisfazioni.

Ho studiato per diventare ciò che sono. Ho fatto un lungo percorso, millemila ore di tirocinio con insegnanti che, in università, mi avrebbero fermata se si fossero resi conto che non ero motivata a sufficienza. Perché educare è fatica e senza una motivazione profonda non si può fare questo mestiere.

E come me, tante…tantissime colleghe, che rispettano i bambini, li ascoltano, partecipano con entusiasmo alle loro giornate.

Fa male sentire racconti di botte, grida, vessazioni.

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Tante persone…anche colleghe…sostengono che la soluzione a queste brutture siano le telecamere. Credetemi, non è così. Le telecamere possono essere un ottimo strumento di propaganda politica (e, infatti, persone che di pedagogia non ne sanno nulla stanno discutendo in Parlamento di un disegno di legge che vuole renderle obbligatorie nei nostri servizi per l’infanzia) ma non servono a prevenire i casi di maltrattamento. Potranno, forse, tamponare una situazione di emergenza ma non sono una soluzione definitiva.

Non credo che ci siano “cattive educatrici”. Ci sono, però, educatrici che, a un certo momento, iniziano a stare male. Non riescono più a emozionarsi. Si sentono inutili e inadeguate. Non trovano più soddisfazioni personali nella professione. Sono vittime del Burnout, uno stato di esaurimento fisico, emotivo e mentale che deriva dal coinvolgimento prolungato nel tempo in situazioni lavorative emotivamente impegnative, proprio come quella che si verifica in un servizio educativo in cui ci si prende cura dei bambini.

Non sto sostenendo che tutte le educatrici, prima o poi, nella loro vita lavorativa, saranno assalite dal burnout…anzi…molte non ne saranno neppure sfiorate. Non dobbiamo però pensare che a noi non accadrà mai. È in agguato. È importante, quindi, focalizzarci sulle strategie di prevenzione.

Il burnout è una forma molto seria di stress cronico, in grado di compromettere la capacità lavorativa di una persona. Chi lavora nei servizi per l’infanzia è a rischio. Diciamolo. Diciamocelo. Riflettiamoci su. Con molta attenzione e coscienza. E, soprattutto, senza paura.

Nei servizi che si occupano di infanzia sono tanti gli zoccoli duri: c’è il problema di un eccessivo numero di bambini per educatrice/insegnante (1/28 è un numero molto alto, ma è quello consentito dalla legge nella scuola dell’infanzia); c’è il problema della precarietà, delle difficoltà relazionali tra colleghe, dello scarso riconoscimento all’esterno, dei rapporti con le famiglie che, sempre più spesso, sono difficili e problematici.

Ogni educatrice, inoltre, quando inizia il suo lavoro ha delle aspettative sull’importanza dei propri compiti e sul ruolo sociale che ha, aspettative che possono essere anche molto elevate. È possibile, però, che nella realtà si scontri con il mancato riconoscimento della propria professionalità da parte dei genitori, con l’idea di una paga (giustamente o ingiustamente) percepita come inadeguata per il delicato lavoro che si svolge, col trovarsi a dover sacrificare alcuni aspetti importanti della propria vita per il lavoro. E se non si hanno le risorse (interne ed esterne) per far fronte in maniera razionale a questo iato tra aspettative e realtà, si può facilmente andare incontro al burnout.

Si legge ad un certo punto, nel libro “inRelazione”: Gli antichi greci articolavano la conoscenza in “episteme”, “techne” e “phronesis”, vale a dire “conoscenze certe”, “abilità tecniche” e “saggezza pratica”. Sono sempre state enfatizzate l’episteme e la techne, mentre è stata messa a margine la phronesis, le abilità emotive che, se ben sviluppate, hanno la capacità di moderare e di limitare l’effetto dello stesso tipico del nostro ambiente lavorativo.

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Il metodo inRelazione è un percorso di formazione che ha proprio l’obiettivo di incrementare le competenze emotive e relazionali di chi fa un lavoro di natura educativa. E’ un percorso impegnativo; copre l’arco di un interno fine settimana e tutte sappiamo quanto abbiamo bisogno del sabato e della domenica per ricaricarci e riprenderci dalle fatiche della settimana. E’, però, anche un percorso che ti aiuta a prendere coscienza di te, della tua fragilità, delle tue fatiche di professionista che lavora con i bambini. Contribuisce a renderti più solida dal punto di vista emotivo e relazionale, aiutandoti a rinforzare il Sè e dandoti strumenti e occasioni per entrare in contatto con il tuo “bambino interiore”, per ritrovare la giusta motivazione e migliorare la qualità del lavoro con i bambini.

Quando ho partecipato al training, nel settembre 2018, ero molto affaticata nonostante l’anno educativo fosse appena agli inizi. Ero alle prese con un ambientamento che sentivo impegnativo e non ero certa di avere le risorse per portarlo a termine come avrei voluto.
La formazione mi aiutato a “centrarmi” nuovamente. Ed ho cambiato sguardo su ciò che mi stata accadendo nel lavoro.
Ho capito che, per poter procedere, dovevo ascoltare le emozioni che quella situazione lavorativa aveva fatto nascere in me. Frustrazione, senso di ansia, affanno. Ho capito che dovevo mettere in campo le mie emozioni nella relazione con quella bambina che stava affrontando l’ambientamento. Non dovevo metterle da parte queste emozioni.
Solo così, infatti, questa relazione sarebbe diventata autentica e di qualità. Ho capito che potevo portare la mia fatica, la frustrazione, la difficoltà a tollerare il pianto disperato.
Si pensa che quando si sente la fatica nella relazione, sia colpa dell’altro, che è strano, sbagliato. Ma siamo sicuri che sia così? Nel nostro lavoro ci misuriamo con le difficoltà, le fatiche, perché anche noi educatrici siamo persone con dei limiti e dei difetti e con aspetti problematici nel nostro Sè. Non è facile arrivare ad essere consapevoli di questo, ma, quando accade, assumiamo una postura che ci porta ad accogliere il nostro vissuto e a scegliere, in base ad esso, come rispondere nel modo migliore alla situazione che stiamo vivendo, con il rispetto dei vissuti e dei bisogni della persona con cui siamo entrate in relazione.

Ci vuole tanta concentrazione per riuscire ad assumere una postura di questo genere…così è stato per me…Forse mi ha aiutata l’esperienza che ho maturato in tanti anni di lavoro con i bambini, le formazioni passate, il bisogno di sentirmi bene nel mio contesto lavorativo…
Quando ho ripreso il lavoro dopo il fine settimana di formazione ho sentito che ero pronta per guardare a quell’ambientamento con occhi differenti. Mi ha aiutata il sintonizzarmi con lo stato emotivo della bambina in ambientamento…con la sofferenza per l’allontanamento della madre, con la fatica a stare in un luogo nuovo e poco conosciuto, con persone anch’esse nuove e poco conosciute…L’ho abbracciata tanto, le ho raccontato del gruppo di bambini di cui avrebbe fatto parte, le ho fatto vedere le fotografie dell’anno precedente…Ad un certo punto non era più importante, per me, che smettesse di piangere. Era importante che sentisse che accoglievo il suo pianto e che lo avrei accolto finchè ne avesse avuto il bisogno. Questo mi ha fatto sentire meglio…
Se ti focalizzi sul voler far cessare un pianto disperato di un bambino che sta male, può nascere dentro di te un grande senso di frustrazione e un elevato livello di stress; se, al contrario, lasci che il bambino si esprima con la modalità di cui sente la necessità, che può essere anche il pianto, piano piano ti accorgerai che lui si sente meglio e, con lui, accadrà anche a te di sentirti meglio.

Ci si deve, quindi, focalizzare sulla qualità della relazione: in questo modo si può prevenire il burnout. Perché le relazioni siano di qualità in un contesto educativo è importante mettere in campo una buona capacità di ascolto, esterno ma anche interno: bisogna saper mettersi in contatto con l’altro e, contemporaneamente con sé stessi; perché questo succeda bisogna avere una buona consapevolezza di sé.

Questo ho appreso nel corso del training inRelazione. E credo che sia molto importante per essere una professionista migliore.

L’importanza (e la fatica) di dare regole e porre limiti

Spesso le famiglie che incontro nel corso del mio lavoro come coordinatrice ed educatrice di un nido di infanzia raccontano che desiderano che il loro bambino o la loro bambina frequenti il nido perché possa “apprendere le regole”.

Nell’immaginario comune, quindi, il nido è un luogo in cui, tra le altre cose si apprendono le regole. Questo merita di fermarci a fare un ragionamento. Se davvero è così, che ne è della famiglia? Forse la famiglia è il luogo esclusivo degli affetti e l’istituzione (il nido e poi la scuola) è il luogo delle regole? Se condividiamo questo pensiero, allora riteniamo che i bambini siano costretti a transitare in luoghi che hanno valori diversi, senza continuità gli uni con gli altri, senza che gli adulti che li circondano condividano idee e intenzioni. Io, però, credo che famiglie, educatori ed insegnanti debbano trovare unità di intenti, benché con stili diversi, indirizzando i bambini al valore del limite, e quindi della regola, come valore fondamentale per la crescita, perché possano avere sicurezza, autonomia ed indipendenza ed orientarsi nella vita.

Sto parlando di poche regole. Regole certe, chiare, adeguate all’età, motivate. E, soprattutto, fatte rispettare senza infinite negoziazioni.

Non è facile educare alla regola. Questo è il motivo per cui spesso le famiglie chiedono aiuto a noi educatori o, addirittura, delegano questo aspetto…un poco scomodo…dell’educazione. Talvolta gli adulti credono che i bambini piccoli non abbiano le competenze per comprendere ed affrontare le regole e che, quindi, sia prematuro porle. O, addirittura, sbagliato. In realtà l’educazione non è tanto un problema di tempi, quanto piuttosto di esempi: non c’è un “momento giusto” in cui i bambini sono pronti per apprendere le regole, perché queste non sono frutto di un apprendimento disciplinare ma si interiorizzano con lentezza, nel corso di tutta la vita. Si apprendono fin da piccolissimi quando, per esempio, si aspetta, con grande fatica e frustrazione, il turno per mangiare e si comprende (emotivamente e cognitivamente) la regola dell’attesa.

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Qualche riflessione sul pianto dei bambini

Cosa accade quando, di fronte a voi, un bambino scoppia in un pianto disperato? Cosa sentite dentro? Molti di voi, probabilmente, risponderanno che, se un bambino piange, la prima cosa che fanno è trovare il modo di calmarlo. Cercano di fare in modo che smetta di piangere. E cosa rispondono le educatrici e gli educatori che si prendono cura dei bambini molto piccoli? Probabilmente lo stesso. Aggiungono, forse, che cercherebbero di capire per quale motivo il bambino sta piangendo e, di conseguenza, proverebbero a soddisfare il suo bisogno.

Qualche mese fa ho avuto la fortuna di partecipare a un training formativo molto utile, condotto da due splendide persone e grandi professioniste, Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che hanno ideato il Metodo “in Relazione”, in cui si pongono al centro le emozioni e l’emotività di chi si occupa di educazione.
Nel corso della formazione, ad un certo momento, si sono fatte delle riflessioni sul pianto.
Che cos’è il pianto? E’ la prima modalità espressiva del neonato e l’unica modalità che ha di esprimere prima i bisogni e poi i desideri. Ed è la modalità che l’uomo utilizza, anche a linguaggio verbale ben acquisito, per esprimere emozioni non facilmente traducibili in parole.
Durante il pianto, la secrezione delle ghiandole lacrimali aumenta; queste, in condizione di quiete, producono una piccola quantità di liquido per mantenere idratata la cornea ed allontanare i corpi estranei, quando, però, la lacrimazione diventa abbondante e si piange, l’occhio si arrossa e le palpebre si gonfiano, come se il “lavaggio” fosse andato oltre le intenzioni.
Dal punto di vista fisiologico il pianto rappresenta uno stato di eccitazione seguito da un rilassamento. Tutti abbiamo provato la sensazione di profonda calma e tranquillità che invade il nostro corpo dopo aver pianto con intensità: il motivo di questo risiede nel fatto che il nostro organismo attraverso il pianto libera ossitocina, che agisce come un anestetico naturale. Quando si piange per dare sfogo a un’emozione si eliminano, inoltre, quelle sostanze tossiche in eccesso che il corpo produce in condizioni di stress.

Se è così…allora…perché affannarsi perché un bambino smetta di piangere?
Quando piange, infatti, un bambino, proprio come un adulto, libera la tensione che ha accumulato e può superare sensazioni di spavento, fatica, frustrazione. Scrive Aletha Solter in un meraviglioso libro che ho conosciuto grazie e Chiara ed Ornella, Lacrime e capricci. Cosa fare quando i bambini piangono., che è importante dare ascolto ai bambini che piangono. E’ importante accogliere il pianto. Il bambino che piange, quindi, non va ignorato, né distratto, né punito. Va accolto.

E’ tutt’altro che semplice mettersi in ascolto del pianto di un bambino, perché questo, spesso, suscita nell’adulto ansia, frustrazione, senso di colpa, che fanno sì che si chieda al bambino (a volte anche con insistenza) di smettere di piangere. Quando sentiamo un bambino piangere si crea in noi uno stress che è difficile placare o tenere sotto controllo e questo ci porta a pensare che se smetterà starà meglio. Ma, in realtà, saremo noi adulti a stare meglio se il bambino smetterà di piangere perché finiremo di essere sottoposti a tanto stress. E lui? Come si sentirà se non avrà potuto dare sfogo a tutte le tensioni che stava cercando di liberare? Siamo certi che si sentirà meglio?

Il chiedere a un bambino di smettere di piangere è anche un fatto di cultura. Nella nostra cultura occidentale il pianto è considerato sconveniente, a tutte le età, nonostante sia uno straordinario meccanismo di liberazione dalle tensioni e dallo stress e un modo non mediato e ragionato di essere in contatto con se stessi e con le proprie emozioni.
Non è sempre stato così e non è così ovunque.
Nella Grecia Antica, ad esempio, i grandi eroi omerici dell’Iliade e dell’Odissea non si vergognavano di piangere. Erano la viltà in guerra, il mancato rispetto dei patti, la violazione dei codici d’onore eroici o l’assenza di amor patrio che ne potevano macchiare la reputazione, non certo un pianto (di rabbia, commozione, disperazione…) che appariva invece come una spontanea manifestazione di vitalismo. Le lacrime, infatti, erano sentite dalla sensibilità dell’epoca eroica come un liquido vitale, al pari del sangue: un antidoto all’inerzia e all’aridità della morte.
Ci sono poi molte culture in cui il pianto ha un valore sociale. Ne sono una testimonianza tutti quei popoli di discendenza greca dove, per esempio, il valore di piangere per un defunto è tale da diventare, in certi casi, più importante del rito funerario stesso. In questa circostanza un coro di donne viene retribuito dalla famiglia del defunto per piangerlo e ricordarne la figura attraverso “frasi fatte”. Più grande è il coro delle piangenti, maggiore è l’importanza del trapassato.

I bambini nascono piangendo ma disimparano a piangere molto presto, a causa dei condizionamenti e dei meccanismi di controllo che i genitori (ma anche certi educatori, ahimè) mettono in atto per distrarli dal piangere.
Sostenere il pianto disperato e la rabbia di un bambino è una delle cose più difficili che mi sia mai capitata di fare, ma è di ascolto sincero e consapevole che i bambini hanno bisogno; distoglierli dal piangere o dall’arrabbiarsi sarebbe far loro una grande ingiustizia. E si contribuirebbe, in loro, alla creazione di un falso Sè.
Quando sono al nido e uno dei bambini che è con me piange, adesso, grazie alle riflessioni fatte dopo l’incontro con Chiara e Ornella, non cerco più di interrompere questo pianto, anche se per me questo è ancora molto faticoso e mi richiede tanta concentrazione. Cerco di mettermi in ascolto ed accolgo il pianto. Questo non vuol dire che “lascio piangere” il bambino, perché ciò significherebbe, da parte mia, assumere un atteggiamento passivo che il bambino percepirebbe e che sarebbe tutt’altro che di giovamento.
Attraverso il contatto fisico, l’abbraccio, le parole di conforto cerco di fare in modo che comprenda che io sono lì con lui e lo sto guardando senza giudicarlo; se ha bisogno di piangere, di liberare la sua ansia, le sue incertezze, è giusto che lo faccia ed è giusto incoraggiarlo in questo agito. In questo modo si sente compreso ed accettato e procede sereno nella crescita. Il pianto continuamente represso per un bisogno dell’adulto, invece, a lungo andare rende il bambino nervoso, incapace di concentrarsi, può causare dei malesseri. I bambini, a forza di piangere e non venire ascoltati, ad un certo punto smettono perchè si rassegnano al non ricevere riposte. Se, invece, rispondiamo al pianto con l’accoglienza di questo, il bambino avrà la conferma che il suo pianto, così come il sorriso, i suoi gesti, le sue espressioni, ha una qualche utilità, stabilisce un dialogo, lo pone nel ruolo di protagonista, gli dà fiducia in sé stesso e negli altri perché i suoi sforzi di comunicare non sono vani.

Se siete con un bambino che piange, fate uno sforzo e ditegli: “Piangi pure, caro, se vuoi farlo”…Questo potrà inizialmente spiazzarlo ma poi sarà per lui di grande conforto perché sentirà che state accogliendo un suo bisogno e lo accettate in modo autentico e incondizionato.

(Questo articolo è stato scritto dopo che ho partecipato al training inRelazione, condotto da Chiara Degli Esposti e Ornella Cavalluzzi, che ringrazio e a cui sono debitrice di preziosi insegnamenti, e in seguito alla lettura del loro libro “inRelazione. Come il benessere degli insegnanti favorisce l’apprendimento a scuola”)

 

La cura degli spazi nel lavoro educativo

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Il lavoro educativo è un “lavoro di cura”, cura che non si deve confondere con un intervento di assistenza e nemmeno con la messa in opera delle conoscenze e delle tecniche che si apprendono all’università. Esiste, certo, una dimensione tecnica importante, relativa al sapere e al saper fare degli educatori, ma ha significato solo se la si colloca all’interno della relazione educativa. Questo vuol dire che il lavoro educativo, in quanto lavoro di cura, poggia sulla capacità da parte dell’educatore di dare valore educativo ai suoi interventi, grazie alle proprie competenze tecniche e grazie alla propria capacità di sintonizzarsi affettivamente ed emotivamente con colui al quale l’intervento educativo è rivolto.

Nel corso degli anni, con la mia équipe di educatrici abbiamo maturato un’idea di bambino come persona che ha dei diritti, che è unica, è competente ed è protagonista del proprio percorso, che costruisce, un giorno dopo l’altro, grazie alle relazioni che intesse con gli altri e con il contesto. Proprio per questo motivo crediamo che sia fondamentale aver cura, sempre, degli spazi dell’educazione. E intendiamo la “cura” come un modo speciale, tutto di noi educatrici, di guardare al nostro mondo, in cui entriamo in relazione con i bambini.

Di conseguenza dedichiamo molti incontri d’équipe a discutere su quale sia il modo migliore di organizzare i nostri spazi in relazione alle caratteristiche dei bambini che li abitano di volta in volta.

Pensare-agli-spazi e pensare-gli-spazi, nel nostro lavoro, significa soprattutto pensare al benessere psico-fisico dei bambini che frequentano il nido e allo sviluppo delle loro potenzialità: devono essere spazi che sappiano accogliere le loro particolarissime e tante esigenze. E perché questo accada è molto importante saper creare degli angoli per il gioco, per il riposo, per le proposte strutturate, in cui centrale è l’aspetto della relazione e lo star bene del bambino al nido. Devono, quindi, essere spazi in cui i bambini si sentano a loro agio e possano scambiare esperienze con i compagni, spazi accoglienti e caldi il più possibile.

Lo spazio, nei servizi per la prima infanzia, quindi non deve essere neutro, asettico, ma è importante che veicoli chiari messaggi educativi: tutte le esperienze educative, infatti, avvengono nello spazio; pertanto, nel momento in cui si organizzano gli spazi, è necessario pensare alle esigenze dei diversi gruppi di bambini e curare tutti i dettagli nella scelta e nella disposizione degli arredi. E tutto ciò lo si fa in gruppo, perché è fondamentale che tutta l’équipe condivida le decisioni che si prendono…in caso contrario sarebbe molto difficile progettare delle esperienze educative di senso.

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Quando si entra per la prima volta nel nostro nido, dopo un piccolo angolo per l’accoglienza si accede alla sala polifunzionale, che è il nostro specchio…E’ la prima cosa che i genitori vedono e anche il primo spazio in cui possono immaginare ciò che vivranno i loro bambini nel nostro servizio. Oggi tutto è molto diverso da dieci anni fa, quando abbiamo iniziato. Lo spazio, gli arredi che lo rendono quello che è, i materiali, le pareti…tutto è cambiato così com’è cambiata, come è naturale che sia, la nostra idea di educazione nel corso del tempo.

E così come è cambiata la nostra idea di cura.

Oggi crediamo fortemente che i nostri spazi siano un’importante risorsa educativa, con tutti i limiti che questi hanno; pertanto li abbiamo strutturati pensando alle possibilità di apprendimento che offrono ai bambini e alla qualità delle relazioni che possono svilupparsi all’interno di essi. Questo perché gli spazi possono favorire o impedire lo svolgersi di esperienze: penso, ad esempio ad un angolo per la lettura…se fornito di tappeti, cuscini comodi e confortevoli, se ben illuminato, se vi è la possibilità di prendere i libri senza doverli chiedere, verosimilmente, sarà frequentato dai bambini e in essi faranno piacevoli esperienze e le vorranno ripetere; gli spazi, inoltre, possono influenzare il sentire: uno spazio, per esempio, con arredi di legno con angoli in cui rifugiarsi quando si ha voglia di stare un po’ da soli è facile che trasmetta calore e senso di protezione.

Gli spazi, i nostri spazi, pertanto, sono pensati per i bambini dagli adulti, ma anche dagli adulti che si relazionano con i bambini. Non sarebbe possibile diversamente. Gli spazi di un servizio educativo, infatti, sono luoghi in cui si vive, ci si incontra, si dialoga, luoghi di intimità, di finzione, di narrazione, di costruzione di identità. E sono anche spazi che cambiano, si costruiscono e si decostruiscono in relazione a chi li abita, alla crescita dei bambini nel corso dell’anno, ai loro vissuti. Cerchiamo di organizzarli in modo da rispettare i tempi lenti dei bambini, i loro bisogni, senza, però, dimenticarci che sono spazi abitati anche da adulti, le educatrici e i genitori, che devono trovare in essi luoghi che rispondano alla necessità di comunicare, confrontarsi, partecipare ala vita del servizio.

Gli spazi devono essere costante oggetto di cura educativa, ci va tanta manutenzione di essi, come dei materiali che li animano e caratterizzano perché devono essere spazi di qualità, in cui fondamentale è l’attenzione ai bisogni di crescita e cambiamento dei bambini.

I bambini sono competenti. Diamo loro fiducia

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Spesso, soprattutto quando i miei figli erano piccoli, mi sono trovata a confrontarmi con chi era del parere che i bambini piccoli non sono in grado di portare a termine certi compiti perché, per farlo, si devono utilizzare oggetti che, per il senso comune, non sono adatti a loro o perché comportano una certa dose di rischio.
Anche al nido, a volte, quando le educatrici discutono in merito a determinate esperienze da proporre ai bambini del gruppo dei più grandi, si sente una certa resistenza nel proporre certi tipi di materiale o nel lasciare che i bambini si mettano alla prova con determinati oggetti…”Non usiamo, a tavola, stoviglie di materiale frangibile perché se i bambini le fanno cadere poi si rompono e non mangiano”; “non lasciamo che si servano da soli perché potrebbero non farcela e sprecare cibo e acqua”; “non lasciamo che provino a tagliare da soli la frutta a pezzetti perché a due anni e mezzo sono troppo piccoli per usare il coltello”…Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo davvero sicuri che i bambini non riescano ad avere cura delle stoviglie che si possono rompere? O che non sappiano servirsi da soli se messi nelle condizioni di farlo? O che non siano in grado di tenere in mano un paio di forbicine senza gravi conseguenze?
I testi di psicologia dello sviluppo ci dicono che fin dalla nascita i bambini sono persone complete, vale a dire che sono sociali, collaborativi e pronti a comunicare; e queste qualità non sono frutto di apprendimenti, ma sono innate. D’altra parte, perché queste qualità si sviluppino, i bambini hanno bisogno di vivere con adulti che si comportino in maniera da rispettarne e modellarne il comportamento.
Proprio perché persone complete, intorno ai due anni, i bambini iniziano, per gradi, a volersi liberare dalla totale dipendenza dai genitori e vogliono sentirsi liberi di pensare, sentire ed agire per conto loro. Al nido, spesso, ad esempio, al momento del ricongiungimento, accade che i bambini, mentre vengono vestiti, dicano con fermezza “faccio io!”. E la maggior parte dei genitori, dopo i primi tentativi, se questi non hanno successo, reagisce dicendo “Non puoi farlo tu! Non ci riesci e non possiamo stare ancora qui!”. Sembra proprio che, allora, quando i bambini iniziano a mostrare di voler essere indipendenti, gli adulti reagiscano con un atteggiamento di sfida.
Se un genitore o un educatore, però, non lascia che un bambino di due anni o poco più muova i primi passi verso l’indipendenza (o fatica a farlo), a poco a poco accade che o il bambino assume, come l’adulto, un atteggiamento di sfida o che abbandona l’iniziativa perdendo ogni velleità d’indipendenza. E questo non è certo educativo, se per educazione intendiamo “il tirar fuori le potenzialità e le risorse”; è, infatti, importante fare in modo che i bambini acquistino sempre più indipendenza confidando in sé stessi e nelle proprie forze, perché questo fa parte del loro naturale sviluppo. I bambini sono competenti.
La competenza si può considerare come la capacità che ogni individuo possiede di far fronte a un compito o a un insieme di compiti, riuscendo a tirare fuori le proprie risorse interne e a utilizzare le risorse esterne nel modo più coerente e fecondo possibile. Per far sì che questo accada è molto importante lasciare che i bambini facciano esperienze, in modo da elaborare strategie utili per poterle affrontare al meglio. E’ solo facendo esperienze, mettendosi alla prova, infatti, che i bambini possono rielaborare ciò che hanno vissuto e immagazzinarlo per il futuro. In questo modo, quando vivranno esperienze simili o nuove esperienze, sapranno mettere in atto con facilità tutte le risorse utilizzate nelle azioni già compiute e vissute.
I bambini, inoltre, sono osservatori molto attenti e sono naturalmente dotati della capacità di comprendere e poi di apprendere; la costruzione di competenze, infatti, si avvale dapprima di una sperimentale osservazione dell’ambiente circostante e di chi è già in grado di compiere una determinata azione (i bambini più grandi, per esempio). Gli adulti, allora, non devono fare altro che aiutarli a capire come allenarsi ad utilizzare le proprie e risorse e quanto trovano a disposizione, fidandosi. La fiducia è elemento essenziale perché il bambino possa acquisire competenze.
Il genitore e l’educatore devono dare al bambino la possibilità di crescere a proprio agio e di avere una vita soddisfacente; per questo motivo è importante aiutare il bambino a sviluppare l’autostima, un ‘attitudine interiore che svolgerà un ruolo essenziale nella sua personalità di adulto, influenzando le sue scelte (amicizie, lavoro, relazioni sentimentali…) e i suoi successi, scolastici e poi professionali, i comportamenti, la capacità di superare le difficoltà della vita. Un bambino, infatti, non può crescere in modo equilibrato senza una buona autostima, così come una società non può svilupparsi armoniosamente se gli individui che ne fanno parte non amano sé stessi, non hanno rispetto di sé, non attribuiscono valore alla propria personalità, non nutrono fiducia nelle proprie capacità. Il bambino alla nascita è dotato di una fiducia in sé infinita, totale, assoluta; la sua autostima, però, è tutta da costruire, dal momento che il neonato non ha consapevolezza degli elementi chiave della propria personalità né delle proprie capacità di interagire con il mondo esterno. E’ allora molto importante che coloro che si occupano dell’educazione del bambino, gli diano la possibilità di conservare e alimentare quella fiducia in sé che ha ricevuto alla nascita, per permettergli di prendere coscienza delle proprie capacità a interagire nel modo migliore per sé con il mondo. Se, infatti la fiducia in sé del bambino piccolo viene imbrigliata, soffocata, sviata, egli avrà difficoltà a formarsi come individuo autonomo e gli risulterà molto difficile sviluppare una sana autostima.

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Cosa possiamo fare, allora, nel concreto? Cosa facciamo noi che ci occupiamo dell’educazione dei bambini molto piccoli? Al nido, di frequente, non si propongono stoviglie in materiale frangibile (vetro, ceramica…), ma si preferisce il molto più impersonale e “freddo” materiale infrangibile (come la plastica, il PVC…) perché i bambini (e qui mi riferisco in particolare a quelli di due anni o più grandi) potrebbero rompere ciò che è fragile e farsi male e nessuno desidera avere problemi con le famiglie; per lo stesso motivo si fatica molto a proporre forbici e coltelli o a proporre ai bambini che si servano da soli il cibo caldo portato in tavola.
In questo modo, però, in contesti che spesso, nel loro progetto educativo, parlano di “autonomia”, di “affinamento delle competenze del bambino”, non si lavora affatto sull’aiutare il bambino a fare da sé, per parafrasare un’autrice che molti che si occupano di infanzia amano, Maria Montessori.
Proviamo a riflettere su quanto segue. I bambini imitano gli adulti di riferimento, perché tramite l’imitazione (e i giochi di imitazione) conquistano il proprio posto nel mondo che li circonda. Che accade quando gli adulti maneggiano del materiale frangibile? Ne hanno una cura particolare. E un bambino questo può comprenderlo molto bene…pertanto, quando si troverà lui stesso a maneggiare del materiale fragile, per imitazione,ne avrà molta cura e farà di tutto perché non si rompa. E lo stesso accadrà quando si troverà a maneggiare forbicine o piccoli coltelli per tagliare la frutta. Avrà cura di essere accorto nel non tagliarsi, proprio come lo sono gli adulti.
D’altra parte, l’impiego di materiali fragili, proprio per la cura che ci si mette nel maneggiarli, rafforza l’attenzione e il senso di responsabilità e sviluppa il controllo del movimento e la motricità fine, sempre per citare Maria Montessori. Perché, allora, non darli in mano ai bambini della cui crescita ci occupiamo?
Se ci fidiamo dei bambini, perché li conosciamo e sappiamo quali sono le loro risorse, allora possiamo tranquillamente proporre esperienze con materiali come il vetro, la ceramica, la porcellana…
Una cosa che noteremo immediatamente è il piacere che essi provano nel maneggiare questo materiale; ricordo un bambino, durante una proposta (ai bambini del gruppo dei più grandi) di fare i travasi utilizzando piccoli contenitori in vetro, prendere il vasetto e passarselo sulle guance con grande piacere, probabilmente per la sensazione di fresco che provava nel compiere questa azione.
Noteremo anche come i bambini fanno molta attenzione a non far cadere il materiale fragile, a non urtarlo tra loro, a non lanciarlo.
Certo, lasciandoli fare, noi educatori consapevolmente rischiamo che si possano fare male o che vetro e porcellana si rompano. Il rischio, però, è una dimensione importantissima dell’educazione. Quando si lascia sperimentare i bambini, senza intervenire direttamente, ma mettendosi in disparte a osservare, si agisce in rapporto con i “rischi” (in questo specifico caso il rischio che si facciano male, si taglino, rompano oggetti…), ma in questo modo (e solo in questo modo) li lasciamo liberi di fare e di mettersi alla prova, di tirar fuori le proprie risorse e, qualora qualcosa dovesse andare storto, li aiutiamo nel far crescere la loro capacità di gestire positivamente emozioni anche stressanti, senza il rischio (quello sì, vero) di soccombere alla prima reale difficoltà che la vita vera proporrà loro.

(per scrivere questo articolo mi sono ispirata alla vita quotidiana del nido in cui lavoro, La tana dei cuccioli di Meda (MB) e a due testi in particolare, “Dai che ce la fai!” di B. Hourst e “Il bambino è competente” di J. Juul)