Bambini e rabbia. Che fare?

La rabbia è un’emozione che spaventa. E’ spesso difficile da gestire, soprattutto quando si manifesta in maniera violenta e soprattutto quando a provarla sono i bambini molto piccoli.

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La rabbia, però, esiste. E la dobbiamo nominare per poterla gestire in maniera “creativa”.

Quando un adulto, un genitore ma anche un educatore, si scontra con la rabbia di un bambino, prova fatica e senso di frustrazione. Succede anche a me,  che, per il tipo di lavoro che svolgo, sono abituata ad affrontare bambini arrabbiati. Proprio questi bambini, però, mi hanno insegnato che solo attraverso l’incontro e la capacità di stare con la rabbia in modo curioso e giocoso il più possibile possiamo restituire a questa emozione il significato di cui è portatrice. La rabbia, infatti, è sempre portavoce di un bisogno che vibra prepotentemente nella storia del bambino che la prova e che cerca spazio, parole, immagini; e, inevitabilmente, quando accompagnamo un bambino per un pezzetto della sua vita, camminando al suo fianco esploriamo il suo mondo, i suoi sogni, i suoi incubi e le sue risorse. Possiamo diventare testimoni di sofferenze e liberazioni, di ferite dolorose e incredibili rinascite e con i bambini riviviamo le storie di quando noi stessi eravamo piccoli e torniamo a sentire la voce del bambino che è in noi.

Ma che cos’è la rabbia?
E’ un’emozione primitiva che possiamo osservare presente già nei bambini molto piccoli e in molte specie animali diverse dall’uomo. Numerose ricerche hanno dimostrato che l’ira e i comportamenti che ne derivano sono determinati da ragioni legate alla sopravvivenza dell’individuo o della specie: gli animali attaccano perché qualcosa li spaventa oppure perchè vengono aggrediti, per cacciare un intruso dal proprio territorio o per difendere la prole.
Allo stesso modo, all’origine dell’umanità, l’espressione della collera era la modalità che garantiva all’uomo la conservazione della specie e, quindi, si tratta di una “reazione conservativa” contro una reale minaccia (la parola aggressività deriva dal latino aggredior, andare verso, affrontare la vita…
Nell’uomo moderno, nei momenti in cui la rabbia sopraggiunge, avvengono veri e propri cambiamenti fisici; quando sentiamo nascere in noi la rabbia tutto il sistema nervoso viene attivato e l’intero organismo vive uno stato di massima stimolazione, preparandosi all’attacco.
Quando ci arrabbiamo percepiamo la tensione interna crescere fino a sentire un bisogno quasi fisico di “scaricarci” al più presto per ritrovare uno stato di benessere. La rabbia è una potente energia psicologica che si attiva in ognuno di noi quando ci troviamo nell’impossibilità di soddisfare i nostri bisogni fisici ed emotivi, di indirizzare la nostra vita verso un senso di pieno benessere: in queste situazioni sentiamo crescere un senso di dolorosa impotenza che si accompagna ad un’intensa collera verso chi riteniamo essere la causa della nostra sofferenza o verso noi stessi perché non ci opponiamo a chi ci ostacola. Rappresenta quindi la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica sia psicologica, unita alla consapevolezza di evitare l’evento o la situazione frustrante e che un’altra persona, verso cui siamo arrabbiati, ha la volontà di nuocerci. In sintesi, ci arrabbiamo quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno/desiderio.

E la rabbia dei bambini? Si tratta di “capricci”? O è un’emozione importante che va accolta e compresa? E se un bambino è arrabbiato vuol dire che c’è qualcosa che non va?

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Posso raccontare un’esperienza che mi è stata portata da una coppia di genitori che ho incontrato in un percorso di consulenza pedagogica. Quest’uomo e questa donna hanno un figlio che, a un certo punto, ha iniziato ad arrabbiarsi in maniera molto potente; i genitori, pertanto, hanno provato a parlare con lui dicendo che la rabbia si può e si deve tirare fuori ma non urlando e tirando calci…Ci hanno provato, sì…Ma è finita che tutti e tre urlavano. Sono, quindi, passati alle punizioni, ma le scenate del bambino aumentavano…Così hanno iniziato a dire frasi del tipo: “Se non fai i capricci quando ti veniamo a prendere all’asilo, andiamo a prendere un bel gelato!”. Si sono presto resi conto che questa strategia, però, non sempre ha successo. Che fare allora?
Nel mio lavoro mi capita spesso di incontrare, nei racconti di molti genitori, una cesura tra la celebrazione verbale della rabbia (dei bambini) come emozione “giusta” e la risposta, nei fatti, alle manifestazioni di rabbia dei figli. Come se, a parole, tutti sapessero che la rabbia c’è, fa parte della crescita, non va negata, ma poi, di fronte all’ondata di disordine che porta con sé, gli stessi genitori si trovano disorientati.
Noi adulti, genitori ed educatori, siamo stati educati a pensare che essere arrabbiati significasse essere “cattivi” e spesso siamo stati colpevolizzati per aver espresso questa emozione.
Sarebbe più facile aver a che fare con la rabbia dei nostri bambini se ci sbarazzassimo di queste convinzioni. E’ importante che impariamo ad accettare i sentimenti di rabbia, a canalizzarli e indirizzarli verso un fine costruttivo.
Quindi quei genitori di cui parlavo prima, di fronte alla rabbia del loro figlio dovrebbero semplicemente accoglierla…”Capisco che sei arrabbiato…io sono qui per te, se hai bisogno…”.

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Genitori ed educatori dovrebbero permettere ai bambini di provare le loro emozioni e mostrare a loro modi accettabili di esprimere sentimenti come la rabbia. Le emozioni, soprattutto quando sono forti, non possono e non devono essere negate e gli scoppi di rabbia non dovrebbero essere visti come segni di problemi gravi. Dovrebbero essere riconosciuti e trattati con rispetto.

Per rispondere con efficacia ai comportamenti eccessivamente aggressivi dei bambini dobbiamo farci un’idea precisa di cosa li abbia scatenati. La rabbia può essere un modo per evitare sentimenti negativi e dolorosi come il fallimento, il rifiuto, la sensazione di solitudine o l’ansia in situazioni sulle quali il bambino non ha controllo.
La rabbia può essere anche associata a sentimenti di dipendenza, tristezza e depressione. Nell’infanzia la rabbia e la tristezza sono emozioni facilmente confuse, che provocano sensazioni fisiche simili ed è importante ricordare che molta parte di ciò che gli adulti esprimono con il pianto, i bambini lo manifestano come scoppi di rabbia.
Di fronte alla rabbia del bambini, inoltre, spesso noi adulti dobbiamo gestire e contenere non solo le loro reazioni ma anche le nostre: le loro intemperanze in noi risvegliano insofferenza, nervosismo, impotenza; in poche parole, risvegliano altra rabbia e un senso di smarrimento. L’importante è non lasciarli mai soli in balia di ciò che sentono, perché i bambini, a differenza degli adulti, hanno meno strumenti per controllare o esprimere in forma adeguata le loro emozioni.

Nella gestione della rabbia infantile, le nostre azioni dovrebbero avere come obiettivo “contenere e comprendere”. Dovremmo mostrare ai bambini che comprendiamo i loro sentimenti e desideriamo trasferire loro modalità espressive più sane e funzionali. Un adulto per esempio potrebbe dire ad un bambino arrabbiato: “Ti faccio vedere come farebbero altri bambini in questa situazione”, ma non è sufficiente comunicare ad un bambino che ha un comportamento inadeguato o dirgli cosa dovrebbe fare in alternativa. Dobbiamo fare da modello, fare esercizi e allenamenti tramite role playing e giochi interattivi. Inoltre dovrebbe essere chiaro ai bambini cosa ci si aspetta da loro e avere costanza e coerenza nelle reazioni e nelle richieste: non si può gridare ad un bambino di calmarsi e non urlare, così come non si possono usare la sculacciate per insegnare a non picchiare gli altri.

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Di fronte ad un bambino arrabbiato, innanzi tutto dobbiamo cercare di mantenere la calma. La cosa da fare è contenere il bambino in un luogo sicuro mentre sfoga la rabbia, senza rimproverarlo o urlargli contro, attendendo con pazienza che si calmi da solo. Vedere che non ci irritiamo aiuta a sdrammatizzare la situazione e lo tranquillizza immediatamente.

Dobbiamo poi avvicinarci a lui perché questo lo rassicura. Inutile, però chiedergli il perché della sua rabbia specie se è molto piccolo: non saprà dircelo. Meglio usare una frase del tipo “so che sei arrabbiato, andiamo in cameretta a calmarci un po’?”.

E poi possiamo mostrare ai bambini che ci sono altri modi per esprimersi; può essere utile dire ad un bambino arrabbiato una frase del tipo: “Quando urli così, la mamma fa più fatica a capire cosa dici, la prossima volta proviamo a non gridare?”. E poi rassicurarlo dicendo: “Vieni qui che la mamma ti dà un bacio…”.
A volte questo è un ottimo modo per calmarli.

Una volta sbollita la rabbia, si può chiedere al bambino cos’è che lo ha turbato a quel punto: “Ora dici perché ti sei arrabbiato in quel modo?”.
Questo lo aiuta a riflettere e a conoscersi meglio, anche se è molto piccolo.

Ci sono degli errori da evitare.
Dobbiamo fare in modo di non arrabbiarci più di lui. Questo è umano ma rischia di ritorcersi contro di noi; mettere in atto una reazione di rabbia dinanzi ad un bambino arrabbiato, vuol dire gettare benzina sul fuoco. Ci si mette sul suo stesso piano perdendo di autorevolezza e si rinfocola la sua aggressività senza aiutarlo.
Non dobbiamo nemmeno soffocare l’emozione di rabbia. Più la reprimiamo, infatti, più l’amplifichiamo e le diamo importanza. Meglio lasciare che la rabbia esca fuori: come tutte le cose umane, anche la rabbia dei bambini ha sempre un inizio, uno sviluppo e una fine.
Non dobbiamo neppure cercare di farlo ragionare. Troppe parole rischiano di non far arrivare al bambino l’unico messaggio importante: “ci sono cose che non si fanno, picchiare i compagni è una di queste. Punto e basta”.
E nemmeno è cosa buona punirlo severamente. così facendo, infatti, l’adulto perde di credibilità e non fa altro che rinforzare i comportamenti che si vogliono sradicare.

Linea dura solo se…Ci sono situazioni nelle quali la rabbia del bambino sfocia in vere e proprie crisi nelle quali rischia di perdere il controllo e di farsi del male. In questi casi la cosa più importante è fare sentire al bambino che, se lui non è capace di tenere a bada ciò che lo fa infuriare, noi sappiamo farlo per lui. Occorrerà intervenire in modo deciso, lasciando i discorsi a quando la tempesta sarà passata. Lo stesso tipo di intervento risulterà efficace anche se abbiamo a che fare con un bambino dalla personalità molto forte, tendenzialmente impulsivo e focoso. In questo caso mantenere una linea coerente e tenergli testa è molto importante.
Quando un bambino è travolto da un impeto d’ira, sente di non riuscire a controllarsi. Il fatto di essere bloccato con fermezza viene da lui interpretato come un segno che ci si preoccupa di lui.E ciò gli offre confini protettivi soprattutto quando diventa fisicamente aggressivo (dà pugni, calci, non riesce a stare fermo).
Se urla o è aggressivo, l’unica cosa che funziona è dargli uno stop fermo con il tono della voce pacato ma inflessibile. Il messaggio è: “Non ci sono spazi di trattativa. Questo non si fa, punto”. Questo lo rassicura, lo aiuta a confrontarsi con la frustrazione e ad accettare l’autorità.

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C’è un albo illustrato che spesso educatori e genitori utilizzano per parlare di rabbia ai bambini piccoli; si tratta dell’amato e odiato “Che rabbia!”, uno dei testi più venduti nelle librerie italiane grazie al tam tam infinito di educatrici, insegnanti e genitori che lo consigliano come strumento di rielaborazione delle emozioni negative dei più piccoli.
In questo albo, alla fine, Roberto, il piccolo protagonista, rinchiude la rabbia in una scatola. Questa azione, a volte riprodotta metaforicamente a scuola dagli stessi insegnanti o a casa dalle famiglie, viene, però, grandemente criticata dai pedagogisti, che non credono nella repressione degli stati d’animo. A questo libro, però si riconoscono altri pregi, primo fra tutti la fiducia riconosciuta ai bambini nel gestire autonomamente, senza l’intervento di un adulto, la paura della propria rabbia.
E’molto importante, anche in queste circostanze, dimostrare fiducia ai bambini…Questo aiuta loro nella crescita e nella gestione delle emozioni, anche quelle più scomode e negative.

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C’è poi un libro molto delicato di Alba Marcoli, la cui lettura consiglio ai genitori che sono spesso alle prese con la rabbia dei loro figli. Attraverso delle favole, la Marcoli ci aiuta a capire che la rabbia infantile cela il più delle volte una situazione di conflitto e di sofferenza psicologica. Quando un genitore si trova di fronte a tali manifestazioni spesso si sente in un tunnel: vede che il piccolo sta male ma non riesce a individuare i reali motivi che si nascondono dietro al disagio e all’angoscia del proprio figlio. La rabbia del bambino e spesso uno strumento per esprimere e comunicare altro, dolore, impotenza, paura dell’abbandono. Emozioni e sensazioni che, se fossero trasmesse con altri canali, potrebbero gettare un ponte tra bambini e adulti. Le favole raccontate nel volume, scaturite da storie reali, offrono importanti spunti per aiutare a comprendere meglio “il bambino arrabbiato”, favorendo lo scioglimento di quei nodi che gli impediscono di crescere in armonia con se stesso e con il mondo che lo circonda.

Concludo con uno spunto di riflessione importante.
Ci sono dei casi in cui la rabbia e l’aggressività sono segno di un disagio ben più profondo, che fatica a emergere in altri modi. Casi in cui le strategie prima elencate non funzionano. Può essere utile allora rivolgersi a professionisti esperti, come lo psicoterapeuta o, nel caso di bambini piccoli, lo psicomotricista.

Come affrontare il “bambino tiranno”?

L’idea di scrivere questo articolo mi è venuta qualche giorno fa. È giunta durante un momento di relax, mentre stavo pensando a tutt’altro che a questioni di pedagogia ed educazione. Si trovano, però, sempre connessioni in ciò che si fa. C’è una struttura che connette ogni cosa, come sosteneva Gregory Bateson, autore che amo molto.

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Stavo leggendo un bel racconto di genere fantasy; ad un certo punto mi sono soffermata su questa frase: L’innocenza non include la pietà, riferita ai bambini che amano giocare con insetti e piccoli animali, staccando loro le zampe e le antenne, mutilandoli delle codine semplicemente per vedere ciò che succede.

Leggendo ho iniziato a riflettere su quanto spesso mi accade di ascoltare da certi genitori affaticati dalle continue richieste dei figli piccoli e, spesso, in difficoltà se è richiesto loro di essere autorevoli. Ogni famiglia con cui sono venuta in contatto nel corso degli anni, o quasi, annovera, infatti, almeno un caso di bambino che definiscono “viziato” e “capriccioso”, una sorta di piccolo principe, che si sente tale e che, almeno agli inizi, gli adulti trattano amorevolmente come tale. Ad un certo momento, però, questo principino mostra di volersi trasformare in un vero despota e comincia per i genitori e una strada che si può dire in salita.

Forte impulsività, scarso affetto per i genitori, poca empatia e motivazione, aggressività incontrollata, capacità di manipolare, insofferenza alle regole e al mancato soddisfacimento dei propri desideri: sono alcune delle caratteristiche di questi bambini, delle quali spesso i genitori si lamentano

Molti pediatri parlano di “sindrome”, “sindrome del bambino tiranno” o “sindrome del bambino imperatore”, che deriverebbe in parte da cause genetiche; studi recenti, però, rivelano che un ruolo importante è giocato dai fattori ambientali e familiari, tra cui una cultura materialista e consumistica, per cui si tende a fornire ai bambini risposte materiali (es ti dò il tablet se la smetti di urlare) e si dà meno spazio a tempo, condivisioni affettive, e un’educazione “approssimativa” e distante, che non accompagna e né sostiene.  I bambini “tiranni” appartengono quasi sempre a famiglie in cui i  genitori sono troppo permissivi o disinteressati ai propri figli oppure, al contrario, iperprotettivi, che, per rendere felice il proprio bambino o per evitare qualsiasi conflitto o problema, non sanno dire di no.

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In questi contesti, ad un certo punto la situazione sfugge di mano e il bambino comincia a sfidare i genitori e, visto che non incontra alcuna opposizione, inizia a sfidare anche il resto degli adulti che gli ruotano intorno. Sente così di avere l’autorità. E, infatti, riesce ad avere il coltello dalla parte del manico perché i genitori gli concedono privilegi smisurati o perché non riescono ad essere coerenti nel momento in cui stabiliscono le norme di comportamento o perché non riescono ad affrontare per tempo e in modo adeguato le prime esigenze e i capricci del bambino.

Come risultato, il piccolo non solo sviluppa un rapporto esigente con i propri genitori, ma pretende addirittura che questi ultimi siano sempre a sua disposizione. Quando non soddisfano i suoi desideri, si arrabbia e può arrivare a minacciarli, insultarli o, in casi estremi, aggredirli fisicamente.

Ci sono dei segnali che annunciano che il bambino sarà un “despota”, segnali che possiamo individuare fin dalla più tenera età: si pensi alle pretese sul cibo o sul riposo.
Questi bambini sono costantemente alla ricerca di piacere, non sviluppano il senso del dovere e non capiscono che a volte bisogna fare dei sacrifici per gli altri. Mostrano, inoltre, poca empatia. Hanno difficoltà a regolare sentimenti ed emozioni, tanto che quando non vengono soddisfatti i loro desideri provano una enorme frustrazione che spesso termina in uno sfogo emotivo. Si impongono sempre con la forza, utilizzando spesso tattiche sofisticate di manipolazione emotiva, dal momento che conoscono benissimo le debolezze dei loro genitori e non hanno scrupoli a utilizzarle a loro favore.

Fin tanto che questi bambini sono piccoli riescono ad avere in pugno i genitori e gli altri adulti di riferimento; con la crescita, però, aumenteranno problemi e difficoltà dal momento che non avranno sempre il mondo ai loro piedi, come accade fin tanto che sono piccoli con i genitori. Pertanto, l’egoismo, la scarsa tolleranza alla frustrazione e le scarse abilità sociali presentano loro un conto molto salato. I bambini coccolati e autoritari non saranno mai bambini felici, neppure da adulti.

E’, quindi, molto importante che i genitori imparino a riconoscere i ricatti morali e a fronteggiare le strategie della piccola “guerra” che il figlio tiranno combatte (e spesso vince) con loro e con i familiari, fino a soggiogarli completamente. Bisogna, quindi, aiutarlo a riconnettersi con la “realtà” senza sottrarlo alle frustrazioni ma educandolo al fatto che anch’esse fanno parte della vita. E’ necessario che i genitori si impadroniscano nuovamente del ruolo di educatori, anche con i conflitti che ciò comporta, non tanto imponendo autorità, ma offrendo ai figli la risorsa dell’autorevolezza.

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Sono molti, per l’esperienza che ho, i genitori che utilizzano una educazione passiva, preoccupandosi più di soddisfare i bisogni materiali dei loro figli piuttosto che trasmettere loro dei valori e delle buone norme di comportamento. Questo stile educativo, che trasforma i bambini nell’asse attorno al quale ruota tutta la famiglia, può dare origine a figli autoritari che non conoscono il rispetto e non sanno quale sia il loro ruolo nelle dinamiche famigliari.

Anche i cambiamenti sociali degli ultimi decenni hanno contribuito a far sì che vi siano sempre più bambini autoritari. Per esempio, la cultura del consumismo e del “tutto va bene” fa sì che alcuni genitori diano maggiore enfasi alle cose materiali. Inoltre, il fatto che le coppie abbiano dei figli in età sempre più avanzata trasforma il piccolo in un “bene prezioso” da coccolare, che non dovrà mai soffrire o essere disciplinato.

Noi pedagogisti possiamo, però, sostenere i genitori e aiutarli a trovare strategie per fronteggiare le difficoltà che possono sorgere quando ci si deve relazionare con bambini che potrebbero avere queste caratteristiche
Innanzi tutto è molto importante prestare attenzione ai primi segnali. Come regola generale, a quattro anni un bambino può già verbalizzare la sua rabbia e a cinque è in grado di controllarla. Se un bambino, giunto a questa età, è ancora aggressivo, fa “capricci” in pubblico e trasforma una giornata in famiglia in un calvario è probabile che stia sviluppando “la Sindrome dell’Imperatore”.

Per aiutare i genitori (e i familiari) a fronteggiarla, è fondamentale che li aiutiamo a comprendere l’importanza di stabilire dei limiti in casa. I limiti e le regole, anche se non è facile darne né accettarne, sono un bene per il bambino, in quanto lo aiutano a dare un ordine logico al suo mondo. Quando il bambino sa esattamente ciò che ci si aspetta da lui può regolare meglio il suo comportamento, sentirsi più sicuro e meno ansioso.
E’ importante, inoltre, che in famiglia si utilizzi uno stile educativo coerente. Entrambi i genitori devono accordarsi in merito a regole e limiti, perché se il bambino nota una discrepanza ne approfitterà. I genitori, necessariamente, devono parlare tra loro dell’educazione del bambino e facciano valere le regole con fermezza e amore.
Devono, poi, far sì che il bambino comprenda che significa mettersi al posto degli altri. Lo sviluppo dell’empatia è fondamentale, perché così i bambini possono capire come si sentono i genitori quando mancano loro di rispetto. Pertanto non ci si deve limitare a punire il bambino per il suo cattivo comportamento, ma lo si deve accompagnare perché possa riflettere su quanto ha fatto e sulle conseguenze, fin da quando è molto piccolo
I bambini imparano osservando i modelli, in primis i loro genitori. Pertanto è fondamentale che questi insegnino loro a gestire le emozioni in modo assertivo, soprattutto la frustrazione, offrendo degli strumenti che permettano di canalizzare queste emozioni negative, piuttosto che lasciare che le scarichino sugli adulti.
Educare un bambino non significa fargli imparare qualcosa che non sapeva, ma trasformarlo in una persona che non esisteva.

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I genitori, prima di avere un figlio, hanno costruito dentro di se un’immagine di “figlio ideale”, il figlio sognato che, abitualmente, ha delle caratteristiche che rispondono alle loro aspettative (e ai loro bisogni). Nel momento in cui un figlio arriva, però, non corrisponde mai a quel figlio desiderato e immaginato. Per questo deve necessariamente attivarsi un processo d’integrazione tra l’ideale e il reale, tra quello che “avrei voluto che tu fossi e quello che sei”. Un processo che dovrebbe portare ben presto a dimenticare quel figlio desiderato, e a focalizzarsi sul bimbo reale per amarlo per quello che è.
Parallelamente, nel momento in cui s’immagina di diventare genitori, si ha dentro di sé una rappresentazione di madre o padre ideali. Immagini costruite a partire dalla propria esperienza (Io sarò come mia madre, che è stata così presente…io non sarò mai come mia madre così ansiosa e apprensiva!…). Rappresentazione frutto dell’integrazione di diverse esperienze di cura, ma anche immagine idealizzata, non reale. Anche per questo genitore sognato deve avvenire un processo d’integrazione: nel momento in cui dobbiamo confrontarci con un figlio in carne ed ossa, che piange, non dorme, non mangia, che è troppo calmo o troppo agitato…ebbene, dobbiamo confrontarci con il genitore che riusciamo a essere con le nostre risorse, ma anche i nostri tanti e inevitabili limiti. Anche in questo caso il processo d’integrazione è fondamentale, altrimenti il rischio è quello di continuare a chiedere a se stessi, e al bambino, di non farci sentire così diversi da quello che pensavamo saremmo stati come genitori.
Infine, ci sono le aspettative nei confronti di un mondo esterno (nonni, amici, scuole…) che, prima di avere un figlio, si immagina accogliente, sempre capace di capire i bisogni miei e dei miei figli, ma, invece, nella realtà diviene talvolta assente e, spesso, giudicante. Allora i nonni, la scuola, gli amici, possono non essere più quelli che c’eravamo immaginati, e anche questo può portare il genitore a essere troppo preoccupato per quello che gli altri potrebbero pensare di lui e a chiedere al figlio che non faccia fare loro “brutta figura”…

I genitori dovrebbero vivere dunque sempre una sorta di disillusione positiva, passando dalla genitorialità ideale a quella reale.
Uno dei passaggi più difficili è quello di accettare la fatica che comporta dare regole e far vivere ai propri figli frustrazioni necessarie a cui essi si oppongono.
I bambini, infatti, per loro natura, non amano sentirsi dire no, non accettano quasi mai di buon grado di essere limitati nei loro desideri e impulsi, dunque di frequente si oppongono, anche con forza e prepotenza, alle indicazioni dei genitori, che, quindi, si possono sentire frustrati e impotenti.

Questi sentimenti possono accentuarsi ulteriormente quando un genitore cerca di mettersi nei panni di proprio figlio. Naturalmente il fatto di entrare in empatia con il proprio bambino, comprendere i suoi sentimenti, non può essere giudicato come un limite. E’, infatti, fondamentale sintonizzarsi con il proprio figlio, ma questo non può essere ciò che impedisce al genitore di perseverare in una posizione di fermezza e coerenza.
Proviamo a fare un esempio:
Paolo ha chiesto insistentemente ai suoi genitori di poter salire sulla giostra, quando l’accordo iniziale era: “oggi andiamo al parco, ma non possiamo andare sulla giostra”. Una volta arrivati al parco è naturale che un bambino, in particolare se piccolo, appena vede la giostra voglia andarci. Potrebbe anche apparire veramente disperato.
Se ci siamo andati ieri, perché oggi no. Domani magari piove e quindi non potremo andarci. C’è il mio amico che lo fa. I soldi so che li hai nel borsellino. Voglio andarci punto e basta! Non mi vuoi bene, perché se mi volessi bene mi faresti andare sulle giostre…
E’ evidente che Paolo sente una forte frustrazione.
Nel momento in cui un genitore si sintonizza con questo sentimento, può avere dei dubbi. Ma in fondo perché no? Domani potrebbe veramente piovere. Perché devo farlo stare così male se i soldi non mi mancano? Perché mai gli ho detto che oggi non si andava sulle giostre? Perché sono venuto al parco? Forse veramente pensa che non lo amo…

Sentire il dolore del proprio figlio, può far vacillare. Ciò che invece può aiutare a mantenere la propria posizione di coerenza sta proprio nella nostra capacità di andare oltre e riconoscere quali sono i bisogni più profondi di nostro figlio, che lui stesso non conosce, ma che noi sappiamo bene.
Un bambino ha bisogno di capire che ci sono dei limiti e di sperimentare la frustrazione. Ha bisogno di imparare a divertirsi al parco in un modo diverso. Ha bisogno di capire che non succederà nulla e che questo è un messaggio d’amore. Ha bisogno di fidarsi di noi imparando che noi sappiamo veramente che cosa è meglio per lui…
La consapevolezza profonda, dunque, del suo bisogno di avere qualcuno che lo contiene e gli consente di fare quello che è meglio per lui dovrebbe muovere le scelte degli adulti. Inoltre se in un primo momento fare ciò che i bambini “comandano” può fare stare bene rispetto al proprio bisogno di sentirsi “buoni” non dando mai frustrazioni ai propri figli, nel tempo renderà i bambini incapaci di affrontare la vita con la forza che è necessaria.

Affrontare il tema della morte con i bambini

Non mi risulta facile scrivere questo articolo perché credo che sia  straziante dover spiegare ad un bambino che una persona a lui cara non c’è più…crea disagio, fa paura. A me in primis.

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La morte e la sua scoperta, però, sono una tappa dello sviluppo dei bambini e vanno affrontate perché essi possano vivere la vita in modo sano; può morire un animale che è loro molto caro, può appassire una pianta, possono vedere un cartone animato in cui muore qualcuno…la morte è presente nella vita dei bambini, non possiamo negarlo e nemmeno nasconderlo.

A tutti i genitori, così come a tutti gli educatori è accaduto, almeno una volta nella vita, di sentirsi chiedere da un bambino: “E’ morto e vuol dire che non lo vedrò più? Sarà per sempre così? Tornerà, vero?”. E’ una domanda che spiazza. Ma non possiamo mentire. In nessun modo.
I bambini hanno le risorse per affrontare la morte ed accettarla; siamo noi adulti che temiamo che, di fronte a un evento tanto doloroso, restino traumatizzati, cadano in uno stato di depressione. E, di conseguenza, cerchiamo, fin quando è possibile, di non affrontare l’argomento…”Il nonno si è addormentato”…”Il nonno ora si trova in un posto bellissimo ma tornerà a trovarti tutte le volte che vorrai”…sono frasi che è facile sentire pronunciare in occasione di un lutto.

Il miglior modo per superare un’esperienza di morte, però, è parlarne, rispondere alle domande, farne, raccontare quello che fa paura, piangere per poi ripartire forti.

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E’ molto importante aiutare i bambini a comunicare e ad elaborare le emozioni che una perdita può provocare. I bambini piccoli credono che una persona a cui hanno voluto bene, anche se è morta, possa vederli, sentirli, annusarli, che si muova; è difficile per loro pensare che una persona cara che è morta non esista più, non si possa toccare, vedere, non abbia più un cervello con cui pensarli. E’ un tipo di consapevolezza che può dare molto dolore. I bambini piccoli rimangono spesso affascinati se vedono il corpo morto di un insetto, di una lucertola…può essere, allora, l’occasione per spiegare loro il concetto di corpo che non funziona più e quello di morte. Un’occasione lieve ma che può aiutare noi adulti più di quanto immaginiamo.

Proteggere un bambino dalla verità che un nonno o un genitore sta morendo significa di privarlo del poco tempo che gli rimane per separarsi da lui, per dirgli tutto ciò che, a modo suo, ha bisogno di dire. Questi ultimi scambi sono fondamentali per facilitare il successivo processo di elaborazione del lutto e restano tra i ricordi del bambino, come un tesoro. Richiamare alla memoria quelle ultime conversazioni piene di amore attiverà in lui il rilascio di oppiacei nel cervello, come quando il genitore era ancora con lui.

Succede spesso che i bambini parlino della possibilità di ricongiungersi alla persona scomparsa…Non è raro sentire un bambino che ha perso un genitore dire: “Vorrei morire, per poter stare con il mio papà…”. Il fatto che un bambino possa desiderare di morire per ricongiungersi al genitore che non c’è più può risultare scioccante per noi adulti, ma è importante non dimenticare che questa è solo una fantasia e non corrisponde a un pericolo reale (ad esempio che il bambino si uccida)…E’ bene, sempre e comunque, lasciare che il bambino verbalizzi quello che sente in un momento tanto tragico.
E’ inutile pensare di doverlo proteggere in ogni modo dal dolore; se l’altro genitore ha bisogno di esprimerlo questo dolore, lo faccia! Perché se lo cela, è facile che il bambino lo percepisca comunque e pensi che non vi sia spazio per il proprio dolore; il genitore deve permettersi di parlare del dolore, del proprio dolore, perché così facendo si mostra abbastanza forte da poter affrontare il tema della morte e, quindi, abbastanza forte da poter proteggere il bambino. Se il gioco si capovolge e il genitore cerca di proteggere il bambino non parlandogli della persona che è morta, in realtà sta solo proteggendo se stesso. Parlare della perdita non è mai fonte di inibizione del processo di elaborazione del lutto da parte del bambino, né costituisce un freno.

Intendiamoci…non è un problema che un genitore si senta a disagio, anche intenso, davanti alla sofferenza del suo bambino…è solo che preferirebbe non provarlo. Se, però, non si accettano le emozioni che una perdita può creare in un bambino e facciamo finta che vada comunque tutto bene, finiamo per non ascoltarlo, finiamo per non comprendere queste emozioni e può accadere che per farlo si senta sbagliato. Se il bambino è inibito nella sue emozioni, se non le sente come autorizzate e legittime, la conseguenza è che lui stesso imparerà a inibirle, a colpevolizzarsi per quello che prova, a sforzarsi di sostituire le emozioni autentiche con quelle autorizzate.

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I bambini, quando scoprono la morte, un po’ ne sono incuriositi e un po’ ne sono spaventati. Gli adulti, spesso, hanno l’illusione che non capiscano o che, se evitano di parlarne, non si pongano certe domande a cui, poi, è molto difficile rispondere. I bambini, come hanno dimostrato gli studi di J. Bowlby sulle reazioni alla perdita, soffrono e vivono il lutto in modo non molto diverso dagli adulti, anche se cambia la manifestazione esterna della sofferenza. Questa illusione è alimentata da fatto che i bambini piccoli non hanno le capacità cognitive per cogliere concetti complessi come la non reversibilità; inoltre i bambini, spesso, in caso di morte di una persona cara non piangono né parlano e questo può far pensare al fatto che non soffrano; in realtà, molto più semplicemente, elaborano il lutto in maniera diversa. Hanno bisogno di concretizzare concetti come l’irreversibilità ed è facile che accada che solo quando non vedranno la persona scomparsa non presentarsi ad appuntamenti importanti (come per esempio il loro compleanno) capiscano che non tornerà mai più.

La soluzione, però, non è non parlare della morte. Perché non è un modo per proteggere i bambini. Se non si parla loro della morte, li si costringe a farsi da soli un’idea su questo tema. Non rispondere alle domande sulla morte, vuol dire lasciare spazio all’immaginazione dei bambini e, quindi, anche alle paure più terribili. Può crearsi, così, un “effetto nuvola nera” (c’è qualcosa di talmente brutto che non si può sapere esattamente di cosa si tratta). E’ importante rispondere con sincerità a tutte le domande che fanno e parlare in maniera chiara e non evasiva, senza usare concetti che li possano confondere, come “è andato via”o “è partito”, dal momento che faticano a capire l’irreversibilità, cioè cosa significa che chi è morto non tornerà più.

Può essere d’aiuto far percepire che il rapporto con la persona morta continua in qualche forma, perché può rendere la separazione meno drammatica e più comprensibile per un bambino che non riesce a rappresentarsi il concetto di irreversibilità. Possono essere di aiuto le storie e le favole, anche inventate ad hoc. Si può dire, per esempio, che il genitore scomparso vive piccolo piccolo nel cuore del bambino e che gli dà un bacio tutte le notti mentre dorme; questo po’ essere un modo per dirgli che il genitore che non c’è più in qualche modo rimane con lui e, quindi, facilitare l’accettazione della morte. Anche portare il bambino al cimitero può aiutare a spiegare e a dare continuità al rapporto.

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Termino citando un libro tenero…delicato…che a volte può essere di aiuto…
E’ un libro di Roberto Parmeggiani, dal titolo “La nonna addormentata”, in cui l’autore ci conduce con incredibile tatto attraverso i suoi ricordi di bambino, raccontandoci la lenta scomparsa di sua nonna. Addormentata a lungo per via di una malattia, un bel giorno la nonna viene svegliata dal bacio di un principe che la porta via con sé. Tornerà ad essere spensierata e felice e a fare tutte quelle cose che le piacevano tanto e che per lungo tempo non aveva più potuto compiere.
E’ presente la metafora del viaggio, ma resta tale e non si trasforma in bugia, perché al lettore bambino è molto chiaro il concetto di distacco materiale dall’amata nonna, senza che si senta da lei abbandonato o trascurato. Il protagonista della storia, infatti, è molto lieto che la sua nonna non sia più costretta a stare a letto per tutto il tempo e possa invece godersi nuovamente la felicità. E la circostanza di averla salutata ogni giorno per settimane lo rassicura sulla persistenza del rapporto affettivo tra loro nonostante la lontananza.
Leggetelo insieme al vostro bambino se siete nella circostanza di dover parlare con lui della morte di un nonno…Vi aiuterà.

Albi illustrati: il piacere di leggere

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Mi piacciono gli albi illustrati. Molto. Quando entro in libreria, la grande libreria che si trova a due passi da casa mia, non riesco a non fermarmi, anche solo per qualche minuto, nell’angolo dedicato ai bambini e ai ragazzi…è magico quell’angolo…ci ho scovato tesori preziosi!

Un albo illustrato è qualcosa di davvero prezioso. E’ un insieme complesso di forme, parole e figure; sulle sue pagine si incontrano un testo e delle illustrazioni: le une completano, ampliano, approfondiscono, stravolgono il senso delle altre, dando vita a un linguaggio nuovo, originale. L’albo illustrato è fatto per condividere un momento giocoso con i bambini: il piacere dell’ascolto della storia si mescola alla bellezza di poter toccare le immagini.
E’ anche un prodotto che i bambini possono scoprire da soli, seguendo con gli occhi e le mani le illustrazioni, anche senza saper leggere la parte testuale.

Il libro è un oggetto prezioso e i bambini devono poterlo vivere, sia in autonomia, sia in compagnia di un adulto, sia insieme agli altri bambini quando si tratta di una lettura collettiva.
Man mano che si cresce e si impara a leggere ci si allena a comprendere una storia facendo dialogare immagini e testo, perché bisogna ricordarlo bene: le immagini non servono al testo, né è vero il contrario.

Mi accade spesso che, soprattutto in occasione di eventi di non facile gestione, i genitori dei bambini del nido o amici che hanno bambini molto piccoli mi chiedano se c’è un albo da leggere insieme al loro bambino per poter fare fronte a tali eventi…Vedo un po’ di delusione sui loro volti quando rispondo che difficilmente, leggendo un albo illustrato, riusciranno a superare la difficoltà che stanno vivendo. Perché non è facile “usare” un libro…è richiesta molta esperienza e non solo nella lettura.

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Intendiamoci…se conduco una formazione sulla letteratura per bambini, avrò con me dei libri che userò per esporvi ciò che penso in merito a quell’argomento. Oppure se sto conducendo una ricerca, probabilmente userò dei libri per condurre indagini su uno specifico argomento. Non è inappropriato parlare del libro come “strumento”, perché di fatto il libro è anche un oggetto utile, sia ai fini di comprendere e apprendere sia per interiorizzare, tramandare, e perfino leggere storie.

E non è neppure del tutto vero che il verbo leggere sia sempre legato al piacere: se sono alla scuola primaria e mi danno dei libri da leggere, ecco forse che quel piacere, per altro tanto promosso da genitori ed insegnanti, sarà secondario alla fatica. Oppure se devo leggere per lavoro testi poco interessanti o noiosi, di certo non si potrà parlare di godimento.
Quando però prendiamo tra le mani un libro per bambini, generalmente lo scegliamo per piacere…per il piacere di sfogliarlo, di guardare le illustrazioni, di leggere le parole che accompagnano queste illustrazioni.

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Scegliere un albo illustrato con l’intento semplicemente di leggerlo, arreca grande sollievo. Se noi diciamo: “Cerco dei libri sulle emozioni perché quest’anno la programmazione verte su quelle”; o “Cerco delle storie da leggere sulle emozioni”; o ancora “Desidero leggere ai bambini del nido delle storie sulle emozioni” le cose cambiano in modo sostanziale.
Il potere e la potenza delle parole che pronunciamo sono grandi. La nostra lingua è incredibilmente malleabile e possiamo utilizzarla per comunicare pensieri molto diversi tra loro.
Nelle tre frasi che riporto sopra, si può notare come l’ultima suoni molto più accogliente, aperta, e ci mostri un’educatrice che in primo luogo desidera leggere un libro ai suoi bambini; mentre nel primo caso è sottinteso (ed in maniera molto potente) il verbo “usare”. In tutti e tre gli esempi è presente la richiesta di libri a tema e la finalità di chi legge è probabilmente quella di trasmettere qualcosa che abbia a che fare con le emozioni. Quindi si potrebbe pensare che non cambi assolutamente nulla nell’intenzione che conduce delle maestre di a recarsi in libreria per cercare libri su cui poter lavorare.

In tutti e tre gli esempi è presente la richiesta di libri a tema e sembra che la finalità ultima dell’educatrice sia quella di trasmettere qualcosa che abbia a che fare con le emozioni. Si potrebbe, quindi, pensare che non cambi assolutamente nulla nell’intenzione che conduce delle educatrici a recarsi in libreria per cercare libri su cui poter lavorare. Invece, l’intenzione iniziale cambia, così come probabilmente cambierà la sensazione che i bambini avranno quando l’educatrice leggerà loro i libri scelti. I libri scelti per essere usati e non per essere letti diventano meri strumenti, impoverendo la progettazione educativa che, al contrario, potrebbe trarre enormi benefici se l’intento fosse solo quello di “leggere” un libro.

E’ molto importante che educatrici, mamme, nonne…leggano ai bambini quando anche loro hanno voglia, e soprattutto scegliendo albi illustrati che piacciano sia al piccolo sia al grande. La rilettura, si sa, è molto amata, e con i bambini di 2-3 anni si rischia di leggere anche dieci volte lo stesso racconto… meglio sia un racconto che diverta, non solo chi lo ascolta, ma anche chi lo legge! I bambini sono attenti osservatori e percepiscono la noia, la pigrizia, l’insoddisfazione dell’adulto… quale piacere di leggere possiamo trasmettere in questo modo? La lettura deve essere fatta di momenti spontanei, divertenti e spensierati, lenti… Deve allontanare i bambini, per quello che si può, dalla vita frenetica di tutti i giorni, che investe anche il loro gioco e il loro pensiero. E deve essere una lettura disinteressata, senza l’obiettivo di insegnare, trasmettere valori o le buone maniere: cos’ facendo si tradirebbe la lettura, perché il libro verrebbe usato come supporto ad un’educazione che spetterebbe solo all’adulto.
Per comodità, spesso si propongono storie a tema, in relazione ad alcuni bisogni familiari, ad esempio libri su come mangiar bene a tavola od usare il vasino correttamente abbandonando in questo modo il pannolino, come non dire le bugie diventando più obbedienti e rispettosi verso il prossimo…e così via. Qui, però, non c’è piacere di leggere…Riflettiamoci…

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E come si leggono gli albi illustrati ai bambini?
Leggere coinvolge la relazione adulto-bambino, una relazione che si costruisce giorno dopo giorno. E’, quindi, fondamentale leggere ai bambini in modo spontaneo, senza costruire scenari “finti” e poco genuini, perché è nella semplicità che tutto diventa intimo, privato…Sono momenti di pace estremamente importanti per alimentare la relazione. E’ chiaro, poi, che ogni persona ha il suo modo di leggere: più veloce, più lento, con le vocine per ogni personaggio oppure no…letture dolci o letture simpatiche piene di risate… Ogni lettura, in qualsiasi maniera sia fatta, regala al al bambino un piacere diverso, che assaporerà con estrema calma ma con la voglia di averne ancora un altro assaggio…

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E con quali criteri scegliere gli albi da proporre ai bambini?
Occorre cercare senza accontentarsi, scegliere secondo le capacità di attenzione e interpretazione del proprio bambino, senza farsi influenzare dalle età scritte in copertina e senza aver fretta di proporre albi per bambini più grandi.
Per i piccoli del nido è meglio scegliere immagini stilizzate? Oppure vanno meglio quelle ben delineate? Sfondo neutro o con tanti dettagli dell’ambiente in secondo piano?
Molte mamme, quando si parla di albi, mi dicono che preferiscono acquistare quelli con illustrazioni cariche di colori accesi, che giocano con la realtà modificando forme e proporzioni, e, soprattutto, che mostrano animali. Questa scelta deriva da quel pensiero (non so bene di chi) che i libri per bambini debbano essere tanto colorati…il resto non conta, perché tanto sono bambini.
Le neomamme, inoltre, fanno largo uso di albi illustrati “tattili” che non sono più narrazioni ma si riducono a piccoli esercizi sensoriali. Si tratta di quei cartonati che prevedono in ogni pagina una piccola zona in cui si può toccare
un materiale diverso, dal ruvido al peloso, dallo zigrinato al liscio brillante. Oltre a non prevedere una storia sensata ed interessante per il bambino, questi albi hanno protagonisti molto lontani dalla vita del bambino, come pinguini o dinosauri.
Un altro dettaglio su cui si soffermano le mamme sono i colori: più i colori sonoaccesi e più il libro sembra adatto. Poco importa se l’immagine è piatta e senza alcuna prospettiva, poco importa se parte dell’illustrazione non si capisca cosa rappresenti…l’importante è che abbia colori vivaci, molti e tutti insieme.
Ma un albo illustrato non è costituito solo da illustrazioni. Come dicevo prima ci sono anche i testi…testi scritti da chi non vuole insegnare nulla, che non parla attraverso diminutivi inutili che storpiano la lingua italiana, ma che invece racconta storie, seppur brevi, per bambini veri, interessati a sfogliare le pagine esplorando i minimi dettagli che sono inseriti nell’albo.
Si comincia con le prime parole, si continua poi con frasi un po’ più lunghe,
attraverso vocaboli nuovi che danno “musica” alla storia.

Storia di un progetto a sostegno della maternità nel territorio del Rhodense

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Qualche tempo fa ho scritto un articolo in merito alle ombre della maternità e a quanto sia ancora difficile oggi dire e dir-si che la maternità non è solo un momento di estrema gioia e felicità ma che può portare alla donna labilità emotiva, irritabilità, pianti, depressione.

Per alcune donne le aspettative rispetto alla vita familiare e sociale del dopo parto, spesso, idealizzate, si scontrano inevitabilmente con l’impegno concreto legato alle continue richieste di cura provenienti dal neonato, con i necessari cambiamenti delle abitudini coniugali e con la significativa riduzione dei rapporti sociali. Inoltre, la pressione sociale che tende prevalentemente a dipingere il dopo parto come momento esclusivo di gioie e soddisfazioni ostacola le donne sofferenti nella richiesta di aiuto o di sostegno: ciò è spesso dovuto alla vergogna e al timore di essere etichettate…come “ingrate alla vita che ha donato un bambino”…come “inadeguate a prendersi cura di un neonato”…e potrei continuare.
Le madri, inoltre, hanno il timore che, se rivelano pensieri negativi, qualcuno potrà portar via il loro bambino, che non saranno più autonome ma saranno totalmente a carico della loro famiglia oppure che saranno considerate come persone deboli e fragili.

E’ molto importante, pertanto, iniziare a pensare di creare spazi e tempi in cui le neo madri affaticate, stanche, che hanno bisogno di confrontarsi con donne che sono nella loro stessa situazione, possano sentirsi libere di raccontare quello che stanno vivendo.

Si legge sulla “Rivista italiana di Educazione familiare” (n. 1, 2011), un’interessante testimonianza di una neomadre: Quando è nato il mio bambino…tutte le paure trattenute in gravidanza sono scappate fuori, sono entrata in una depressione profonda, ho sentito un’enorme solitudine e un grande desiderio di avere anche io una mamma che mi accudisse e si prendesse cura di me, che mi prendevo cura del mio bambino. Ho pensato di non essere affatto una brava madre e tutte le informazioni che avevo acquisito sull’essere genitori o sui bambini, le mie aspettative sulla madre che avrei voluto essere, sono diventate un’arma che mi si è ritorta contro perché avvertivo la grande distanza tra il genitore ideale…e ciò che ero veramente (fragile, impaurita, con una gran voglia di scappare via da questa responsabilità. Il parlare con altre madri aprendomi e rivelandomi mi ha fatto scoprire un universo di donne con sentimenti simili ai miei (dei quali spesso mi vergognavo) e mi ha aiutata ad uscire dalla crisi.
Sono significative queste ultime parole. Questa madre ricorda di essere riuscita a superare un momento difficile grazie ad altre madri e grazie al confronto con la loro esperienza. Una madre nasce insicura, impaurita, stanca…tutte le madri nascono così…Dirselo è sano. Può essere doloroso, ma è sano.

E’ importante che le neomadri diano sfogo al loro pianto…le lacrime non sono un difetto, un punto di debolezza…Le lacrime si possono tradurre in parole…ci vuole, però, tanto sostegno perché ciò accada.
Possiamo allora pensare di promuovere dei progetti territoriali che abbiano la finalità di creare, mantenere e solidificare una rete tra le famiglie con bambini molto piccoli.

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Sul mio territorio, prima nel comune di Rho e poi anche in quello di Arese, è nato ed è portato avanti un progetto che nasce a sostegno della maternità e della fatica delle neo madri, con l’obiettivo di accrescere le reti sociali delle donne che hanno un bambino molto piccolo e si sentono sole in questo momento molto delicato della loro vita.
Questo progetto è nato grazie ad alcune donne, che sono anche madri, che ad un certo momento hanno deciso di fare rete tra loro per superare la solitudine e la difficoltà dell’avere un neonato di cui prendersi cura. Barbara, Gloria, Federica, Daniela, Veronica erano madri che ad un certo momento si sono sentite slegate da un contesto di comunità e di relazione…hanno sentito il bisogno di uscire da un difficile momento di isolamento e, lentamente ma con tenacia, hanno saputo creare un tempo in cui le donne che da poco vivono l’esperienza della maternità potessero condividere esperienze ed emozioni, stando insieme e tirando fuori vissuti simili.

Queste madri, queste donne, hanno dato vita, prima da sole e poi aiutate da una collega educatrice, Marta, al progetto che oggi è conosciuto come “La colazione delle mamme” e che è frequentato da un gran numero di donne.
Hanno iniziato a vedersi in un caffè di Rho per fare colazione e condividere i vissuti…poi da tre o quattro che erano sono diventate molte di più e grazie a Marta, operatrice di #oltreiperimetri (un progetto lanciato in nove comuni del rhodense e pensato per le famiglie e le persone che si trovano in un momento difficile in ragione di eventi naturali della vita, proprio come la maternità) hanno trovato uno spazio in cui incontrarsi che fosse più tranquillo di un bar e che è
per loro per due ore a settimana.
Grazie a queste donne, tante altre si sono sentite sollevate dall’isolamento, hanno imparato ad essere una risorsa l’una per l’atra, hanno creato occasioni di condivisioni emotive oltrechè di aiuto pratico…si sono confrontate, sono indubbiamente cresciute, si sono scambiate esperienze e hanno promosso dialoghi sul tema della maternità e del femminile.

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Grazie ad un’amica, Sara, la scorsa estate, sono venuta a conoscenza del progetto e del fatto che lo si voleva estendere su altri comuni del Rhodense.
Per me l’esperienza della maternità è stata molto dura, soprattutto la prima volta. Mi sono sentita sola…vivevo in una città che non era la mia…ero senza rete familiare e con una rete amicale debole. Avevo bisogno di sostegno che non c’era, di sostegno alla relazione con mia figlia e all’elaborazione delle emozioni ad essa connesse…Non c’era nulla e la mia fatica è stata immensa. Tante volte piangevo disperata perché avrei voluto tornare alla vita di quando non ero madre. E mia figlia era stata cercata, desiderata, voluta con tutta la nostra anima.

Quando ho saputo dell’esistenza del progetto “Colazione delle mamme” e del fatto che lo si voleva portare in altri comuni del territorio ho provato una gioia grandissima e subito ho accettato di prestare collaborazione per far sì che potesse arrivare ad Arese, il comune in cui vivo. Arese è un comune molto piccolo…i cittadini sono molto attivi sul territorio, è forte lo spirito di appartenenza delle persone al luogo in cui vivono; mancava, però, un’iniziativa del genere e se ne sentiva forte il bisogno.

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Insieme a Sara e a Valentina, oltrechè a Marta e alle donne che hanno ideato “La colazione delle mamme” a Rho, abbiamo lavorato perché il progetto potesse concretizzarsi anche ad Arese. E da febbraio 2019, grazie anche all’Amministrazione Comunale che ha creduto in questa idea, abbiamo uno spazio, per due ore a settimana, come a Rho, in cui accogliamo le neo madri con i loro bambini.
Non accade più, nemmeno in un territorio come il nostro, piccolo e dove si dà molta rilevanza agli aspetti del sociale, che l’esperienza della genitorialità sia considerata una normale fase della vita, supportata da un sapere tramandato di generazione in generazione e maggiormente fruibile grazie a una intensa rete di scambi sociali. La maggiore consapevolezza della scelta di diventare genitori comporta indubbiamente dei vantaggi, ma anche un notevole aumento di ansie e paure, che spesso non trovano un adeguato contenimento in ambito sociale.
Per questo è bene favorire che le donne, nel primo periodo di vita del figlio, cerchino il contatto con altre donne che abbiano vissuto l’esperienza della maternità, con cui scambiare informazioni, condividere timori, avere incoraggiamenti. Il confronto rispetto alle conoscenze e alle esperienze, fondamentali per contenere le fisiologiche ansie genitoriali, deve in qualche modo essere ricostituito.
I nuovi genitori sentono il bisogno di saper decodificare i segnali comportamentali del proprio bambino: senza questa capacità, soprattutto le madri, si sentono incompetenti e provano una sensazione di privazione che procura una forte ansia e rischia di influenzare negativamente la relazione con il neonato. E’ importante, e questo costituisce il fattore principale di qualsiasi prevenzione, sostenere i genitori nello svolgimento del loro compito e fornire loro strumenti per essere “genitori efficaci”. Se si riesce a promuovere le risorse delle famiglie, questo avrà come conseguenza il facilitare lo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale dei bambini.
E’ quindi necessario colmare quel “vuoto assistenziale”, nel quale si trovano le neo mamme, creando un luogo e un tempo dove genitori e neonati possano ricevere attenzione, sostegno collettivo ed individuale.
Il nostro progetto nasce con queste premesse.