Giochi da maschi e giochi da femmine. Esiste una differenza tra essi?

Esistono i giochi da femmine? E i giochi da maschi?

Ho chiesto a mia figlia Margherita, 9 anni, se secondo lei esiste una differenza tra i giochi e se le femmine ne possono fare solo alcuni e i maschi altri; lei, con un po’ di titubanza, mi ha risposto “forse no!” perché ama giocare a calcio nel giardino della scuola e non le importa se è l’unica femmina tra tanti maschi. Ha anche aggiunto che agli scacchi ci giocano i maschi e le femmine, così come a Cluedo o a Trivial. Ho fatto la stessa domanda a mio figlio Francesco, 11 anni, e lui ha dato la medesima risposta della sorella: non esistono giochi solo per i maschi o giochi solo per le femmine…sullo Skate ci vanno i maschi e pure le femmine…alla Play ci giocano tutti, maschi e femmine. Ma ci ha pensato un po’ prima di rispondere.

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Abbiamo cercato di educare i nostri figli alla parità di genere e, insieme alle mie colleghe, cerchiamo di educare ad essa i bambini (e i genitori) che frequentano il nostro nido, ma è innegabile che gli stereotipi legati a ciò che possono fare o non fare bambini e bambine sono radicati molto in profondità in tutta la società e forse anche in noi stesse. Basta sfogliare un catalogo di giocattoli per rendercene conto. E, del resto, siamo invasi da scaffali di giochi da femmine, rigorosamente rosa, che propongono bambole, cucine, braccialetti e ferri da stiro e scaffali separati di giochi da maschio con costruzioni, trattori e pistole finte.

Tempo fa sull’argomento, è stato realizzato uno studio realizzato da Coface, network di associazioni europee che rappresenta gli interessi di tutte le famiglie in Europa (e presso il Parlamento Europeo), coordinato dalla ricercatrice italiana Paola Panzeri.
Gli studiosi hanno raccolto i cataloghi di giocattoli di 9 diversi paesi e li hanno analizzati lungo l’arco di un anno. Più di un terzo dei cataloghi era diviso in sezioni “per maschi” e “per femmine”. Alcuni non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini).
In questi cataloghi risulta particolarmente interessante la sezione dei costumi e maschere: la sezione per maschi presenta costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto; la sezione per femmine, invece, presenta un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse.

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Chi idea i cataloghi e chi decide la disposizione e i colori dei giochi sugli scaffali dei negozi sceglie per i bambini. Li influenza nelle scelte. Suggerisce loro di immaginarsi in un certo modo.

E’, però, molto importante che i bambini abbiano la possibilità di sperimentare, di calarsi in tanti ruoli diversi, di comprendere che non esistono, nel gioco come nella vita adulta, attività e compiti preclusi ai maschi piuttosto che alle femmine, né ruoli o attitudini spiccatamente femminili o maschili.
Il gioco, del resto, serve a cimentarsi precocemente con la vita, a immedesimarsi, a prepararsi in un certo senso per quello che sarà. Ed è sano che un bambino cresca con la consapevolezza che potrà, una volta cresciuto, esprimere se stesso, i propri talenti, le proprie abilità, nella maniera a lui (o lei) più congeniale. Senza pregiudizi, senza ruoli imposti o preconcetti.

Attraverso il gioco, inoltre, i bambini possono accedere a parti della propria sfera emotiva e psicologica che altrimenti non sarebbero adeguatamente stimolate, e forse neanche esplorate. Dare la possibilità ad un maschio di fare esperienza nell’accudimento di una bambola, o nella preparazione di piatti prelibati per la sua famiglia o i suoi amichetti, significa renderlo più consapevole delle proprie doti di empatia e tenerezza e legittimarle, aiutarlo a potenziarle e manifestarle. Esattamente come una bambina che abbia l’occasione di divertirsi con le ruspe giocattolo o i cavalieri scoprirà magari più facilmente le proprie attitudini e la propria capacità di leadership.

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Lasciare che un bambino possa esprimere le proprie emozioni attraverso il gioco di finzione che più preferisce è un importante investimento per la sua crescita emotiva. Quindi è importante assecondare le sue scelte senza alcun pregiudizio. Infatti, se si manifesta disapprovazione in merito a tali scelte, si potrebbe innescare in lui il senso di colpa nei confronti dei genitori o degli adulti che se ne prendono cura, per aver scelto quel dato gioco non approvato. Si rischierebbe, inoltre, così facendo, di imprigionare la sua indole nello stereotipo maschile, reprimendo il suo bisogno di esprimerla liberamente. Il fatto che alcuni maschietti non amino giocare con macchinine o costruzioni non determina quale sarà la loro vita affettiva e sessuale in età adulta. Nella formazione della propria identità di genere, che si completerà in età adolescenziale, influiscono vari fattori tra i quali le aspettative dei genitori, il modo in cui mamma e papà vivono la loro identità di genere, il condizionamento dell’ ambiente e della società in cui vive.

La scelta di un maschietto di giocare con le bambole piuttosto che con altri giochi può essere dettata da vari fattori quali la curiosità, la voglia di sperimentare cose nuove, una spiccata sensibilità e anche il bombardamento pubblicitario a cui è esposto. Giocando con una bambola, un maschietto avrà l’opportunità di rielaborare, a suo modo, le esperienze che caratterizzano la sua vita e il suo rapporto con gli altri. Questo aspetto potrebbe essere molto interessante anche per i genitori che osservandolo mentre gioca possono percepire il suo mondo interiore, inclusi gli aspetti che ancora non esprime in modo razionale.

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Non è raro, però, che un genitore che vede il proprio figlio maschio giocare con una bambola o in cucina si allarmi. Molti genitori, infatti, dichiarano di essere spaventati dalla possibilità di avere figli omosessuali. E per questo motivo cercano di indirizzare le passioni dei figli, maschi o femmine, verso giochi stereotipati, che sono più ‘rassicuranti’.
La scienza, però, ci dice che l’omosessualità è una condizione innata, come avere i capelli ricci o la pelle nera, e non viene creata a tavolino dai giocattoli con cui giochiamo da piccoli, né può essere scelta (o non scelta) volontariamente.

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Se amiamo davvero i nostri figli, non dobbiamo amarli solo finché corrispondono a ciò che noi avevamo in mente per loro ma anche se non saranno come noi ci aspettavamo. E dobbiamo amarli abbastanza da volerli felici e realizzati, senza pensare che debbano necessariamente corrispondere ai nostri ideali a scapito della loro realizzazione personale.

Non sono i giochi “da maschio” o “da femmina” a condizionare il modo di essere dei bambini, pertanto è importante lasciare che giochino come vogliono perché possano crescere in modo armonico.
In questo modo potranno comprendere fin da piccoli che la diversità biologica fra “maschi” e “femmine” non può e non deve voler dire diversità di ambizioni e possibilità, né che le bimbe debbano diventare un giorno “spose sottomesse” a uomini forti e senza paura.

I bambini, insomma, devono avere la possibilità di sentirsi liberi di esprimere in modo pieno la propria personalità, senza essere condizionati da pregiudizi e stereotipi. E per questo motivo è importante che siano circondati da adulti che non li indirizzino verso professioni e ruoli stereotipati, ma che li lascino liberi immaginare e impersonare chiunque vogliano essere. Da adulti che combattono ogni giorno la violenza contro le donne e il bullismo. Da adulti che accettino e rappresentino le famiglie nella loro diversità.

Ancora sugli albi illustrati. Possiamo educare i bambini alla lettura?

(questo articolo è frutto di un percorsi di formazione condotto dal Dott. Luca Ganzerla dell’Università di Verona, che ho seguito con passione a Torino all’inizio di gennaio 2020 e che ringrazio)

Poco meno di un anno fa, scrissi un articolo in merito agli albi illustrati e al piacere che ne deriva dallo sfogliarli e leggerli.

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Albi illustrati esposti dal Dott. Luca Ganzerla durante un corso di formazione da lui condotto a Torino nel gennaio 2020

Gli albi illustrati sono affascinanti, alcuni ti rapiscono tanto sono belli…Non è facile, però, comprenderli realmente, ma è necessario prepararsi accuratamente per leggerli come si dovrebbe. Eppure li si propone ai bambini molto spesso. Come se, per il fatto che sono ricchi di belle immagini, fossero per loro immediatamente comprensibili.
Gli albi illustrati sono libri in cui le immagini e le parole costituiscono un insieme che dà vita alla storia. Alcuni elementi della narrazione si trovano, però, soltanto nelle illustrazioni, motivo per cui la comprensione di un albo richiede continui collegamenti tra testo scritto e immagini. E per fare questo, inevitabilmente, è necessario che ci si educhi alla loro lettura. E poi si educhi a tale lettura i bambini.

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Oggi questa speciale “forma narrativa” o “forma letteraria”, come la
definisce Marcella Terrusi, non è più riservata esclusivamente all’infanzia, ma in una società che vede una netta prevalenza di suoni e immagini ed è caratterizzata da una diffusa multimedialità, l’albo illustrato ha allargato il suo bacino d’utenza rivolgendosi anche a ragazzi, adolescenti e adulti

Le illustrazioni, inoltre, non sono per bambini pigri. Gli studi di pedagogia e le neuroscienze mostrano, infatti, che l’integrazione del codice linguistico e di quello dell’immagine, impegna molto le varie capacità cognitive.
Il professor Marco Dallari, direttore del Laboratorio di Comunicazione e Narratività dell’Università di Trento, autore e curatore di libri per bambini e insignito nel 2010 del Premio Andersen Italia, importante riconoscimento per la letteratura d’infanzia scrive: «L’uomo è un animale simbolico, diceva il filosofo Ernst Cassirer. Nei bambini e negli adulti, l’incontro tra testo e figura sembra attivare il lavoro ermeneutico e potenziare l’elaborazione della narrazione, come se associando i due codici si creasse un varco per l’intervento del lettore. L’alchimia scatta quando l’abbinamento tra testo e immagini non è scontato (fenomeno che Bruno Munari definiva la “ridondanza”) ma crea una discrepanza di senso e, comunque, «tutte le volte in cui le illustrazioni, che possono essere fedeli o meno alla parola scritta, possiedono degli elementi di qualità».

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I bambini che frequentano i nidi d’infanzia sono molto piccoli, alcuni non hanno nemmeno un anno…Possiamo leggere loro degli albi illustrati ad alta voce? Sì, possiamo farlo. Dobbiamo, però, scegliere con cura che cosa leggere; ci vogliono albi che possano soddisfare i loro bisogni sensoriali e di conoscenza del mondo.
Possiamo, con loro, partire dalla lettura degli albi di Helen Oxenbury, che ha realizzato dei cartonati molto belli, con delle illustrazioni vere e leggere. Albi che, attraverso immagini belle ma non distanti dal vero, raccontano ai bambini la loro vita in modo unico e peculiare. Albi che soddisfano il bisogno del bambino di conoscere sé stesso, gli altri e il mondo proprio perché questo mondo, questo suo piccolo mondo, lo rappresentano.

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Al nido, perché i bambini possano iniziare ad avvicinarsi ai libri, si può pensare di proporre loro, quando sono molto piccoli, libri di legno, stoffa o gomma, materiali che permettono loro di mettere le pagine in bocca senza che
nessuno glielo proibisca. Dopo queste prime esperienze più che altro sensoriali si può iniziare a proporre i primi albi illustrati, possibilmente cartonati.
Se li si ha a disposizione, i primi albi da proporre sono proprio quelli della Oxembury, che affascinano i bambini perché l’autrice dà vita soggetti ed oggetti della vita quotidiana. Le illustrazioni di questi albi, inoltre, sono molto vivide, quasi tridimensionali. Quando i bambini le guardano, riconoscono immediatamente cosa raffigurano. Silvia Blezza Picherle, illustre studiosa della letteratura per l’infanzia scrive in merito alle illustrazione in questione: Se si osserva il bambino che le guarda si può
notare come le riconosca all’istante, le distingua. L’intensità del rapporto che si instaura tra bambino e albo trova conferma e testimonianza da alcuni semplici gesti come: prendere l’albo e portarlo a sé, baciare il protagonista raffigurato; accarezzare l’animale presente sulla pagina. Gesti veri che racchiudono una lettura profonda e una piena comprensione degli oggetti/personaggi rappresentati….

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Se in un albo un bambino vede oggetti che fanno parte del mondo in cui vive tutti i giorni, facilmente farà un paragone con la vita quotidiana e si abituerà a collegare ciò che vede nell’albo con quello che accade nella sua vita reale. E, in questo modo, inizierà ad immedesimarsi con ciò che vede, fatto che, lentamente, lo avvicinerà al mondo della lettura, grazie ad un sottile processo educativo.

E come si leggono ai bambini gli albi illustrati?
Tutti sono strutturati nello stesso modo: sulla pagina di sinistra è rappresentato l’oggetto o personaggio in primo piano e sulla pagina accanto è rappresentata una scena che lo coinvolge in interazione con un bambino. Per rendere la lettura coinvolgente e stimolante, l’adulto che legge può, in primo luogo, mostrare le due illustrazioni nominando prima l’oggetto/personaggio singolo e poi narrando una micro-storia in relazione all’illustrazione accanto. In seguito l’adulto può ripetere nella realtà ciò che mostra la scena per poi tornare di nuovo al libro e alla lettura/narrazione.
I bambini, però, hanno bisogno di tempo per appassionarsi alle letture; hanno bisogno di adulti che leggano loro con passione e in maniera lenta e distesa; hanno bisogno di tempo per esplorare l’albo, le immagini pagina dopo pagina.

Più l’adulto che legge si collega alla vita quotidiana, più i bambini si affezionano a quanto sta leggendo. Di conseguenza è molto importante proporre albi validi, con illustrazioni autentiche che presentino la realtà nella sua
semplicità, per aiutare i bambini a coglierla e ad immedesimarsi nelle storie. E noi adulti possiamo mediare unendo i momenti di routine alle pagine dei libri, narrandoli e mostrandoli ai bambini.

Di seguito alcuni consigli per le letture.

Ai piccolissimi si può proporre “Buongiorno Sole” di Paloma Canonica, una breve storia del buongiorno, con calde illustrazioni. Nelle pagine iniziali e finali sono riportate le immagini riquadrate degli oggetti presenti nel libro affinché il bambino possa riconoscere, additare e denominare le piccole cose che accompagnano la sua giornata.

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Dagli 8 mesi in poi, leggiamo albi come “Leon si veste” di Linne Bie, in cui il piccolo Leon indossa prima il pannolino e il body, poi i calzini, la maglia e infine…oppure “Rosalie va a passeggio”, anch’esso di Linne Bie, in cui la piccola Rosalie va al parco con la mamma; sul prato ci sono molti giochi divertenti e Rosalie va sullo scivolo con Pecorella che la segue dappertutto, divertendosi con lei davvero tanto.

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Ai bambini di 16/18 mesi proponiamo “Le mani di papà”, di Emile Jadoul. Le illustrazioni sono molto semplici, grandi su sfondo bianco, e rappresentano scene quotidiane tra un bimbo e il suo papà che viene raffigurato attraverso le sue mani. Prima ancora che un bambino nasca ci sono le mani del suo papà ad attenderlo; mani che coccolano, che accolgono, che accompagnano, che aiutano a crescere. Finché, un giorno o l’altro, magari senza preavviso, arriva il momento in cui il bimbo lascia queste mani per muovere, da solo, i primi passi.

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Dai 20 mesi, si possono leggere albi come “Ciao ciao” di Jeanne Ashbè, un piccolo albo illustrato che attraverso un linguaggio semplice e l’utilizzo di immagini chiare e delicate, narra i distacchi e i riavvicinamenti che caratterizzano la vita dei bambini di tutti i giorni. Oppure “Il carretto di Max” di Barbo Lindgren ed Eva Erickson, che illustra la vita quotidiana di un bambino con poche frasi brevi e l’utilizzo di molte ripetizioni, che accompagnano illustrazioni colorate su fondi bianchi, buffe e ricche di dettagli (come ad esempio le espressioni e gli sguardi che si scambiano Max e il cane). Il libro fa parte di una collana che ha per protagonista il bambino Max e che raccoglie storie quotidiane raccontate ai bambini attraverso i loro occhi. Un’ulteriore pregio di questa pubblicazione è costituito dai risguardi di copertina, in cui si trovano tutti gli elementi ed i protagonisti presenti nella storia; questo facilita il suo utilizzo anche per i genitori e gli adulti poco avvezzi alla lettura con bambini piccoli perché li stimola a chiedere al bambino di identificarli all’inizio e di riconoscerli in seguito all’interno della storia.

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Ai bambini che quasi hanno tre anni, infine, proponiamo libri come “A più tardi”, anch’esso di Jeanne Ashbè; in esso sono raffigurati due bambini piccoli durante una giornata al nido. Cosa fanno? Come passano il loro tempo? Quali emozioni vivono? È difficile da raccontare quando si hanno a disposizione ancora troppe poche parole. E allora, questo libro racconta attraverso immagini e parole rassicuranti i baci della mattina, i giocattoli, i compagni, la pittura, la pappa, le pipì, il sonnellino, i litigi e le coccole, la stanchezza della sera e… la felicità di ritrovarsi! Tenere illustrazioni che parlano con dolcezza del distacco al momento dell’entrata al nido, dell’inserimento in un gruppo di piccoli amici, e di come affrontano tutte le novità che si ritrovano a vivere, in questa situazione, i bambini piccoli.

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La fatica dell’educare…i propri figli

Educare un figlio, è un atto di amore profondo e richiede una gran dose di pazienza, controllo dell’ansia e della frustrazione.
E’ frequente sentir dire che per educare basta amare il proprio figlio, ma non è così. Per educare è necessario conoscere “che cosa succede mentre il proprio figlio apprende” e come favorire, governare e controllare tale processo. Per tale motivo è indispensabile possedere conoscenze ed abilità adeguate (intese anche come tecniche), per attivare occasioni d’apprendimento e controllare gli effetti dell’azione educativa sia sul piano cognitivo, sia su quello delle emozioni e dell’affettività.

Facile, facilissimo a dirsi…soprattutto per chi è “addetto ai lavori”. Ma nella realtà? Cosa significa educare il proprio figlio? Cosa avviene nel processo attraverso il quale egli diventa altro dai genitori?

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Gli studi più recenti evidenziano l’importanza del ruolo svolto da padre e madre nell’indirizzare e favorire lo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino. Le relazioni interpersonali genitore-figlio rappresentano la “matrice formativa” che determinerà la gran parte delle caratteristiche cognitive e personologiche più rilevanti per la vita dell’individuo.
Il difficile percorso, però, può essere costellato da una serie di “errori educativi” spesso commessi per “eccesso d’amore” nei confronti del proprio figlio. Gli effetti a breve termine di tali errori sono rappresentati dalla comparsa di comportamenti disadattivi e di contrapposizione nei confronti delle figure parentali (disobbedienza, prepotenza, angherie, ecc.) e ciò a sua volta genera contrapposizione, conflittualità. Se non viene posto rimedio, a lungo termine tutto ciò può essere causa anche di disturbi della personalità e d’adattamento sociale con il rischio di generare quadri sindromici molto gravi.

Del resto gli errori commessi dai genitori sono “errori invisibili” o che non si vedono se non a lungo termine e per questo nessuno pensa immediatamente a porvi rimedio. Non esistono, d’altra parte, né regole né metodi infallibili per evitarli, ma si può cercare sempre di seguire il principio aristotelico del “giusto mezzo”, perché solo evitando gli eccessi (iperprotezione e lassismo) si può favorire il naturale sviluppo del bambino. Durante la crescita, pertanto, sarà importante sostenere il proprio figlio, controllarlo, aiutarlo, ma agendo sempre nel rispetto della sua libertà, dandogli fiducia e lasciando che faccia le sue esperienze.

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E’, comunque, fuor d’ogni dubbio che educare un figlio è un processo molto delicato, non esente da errori, che richiede sensibilità e fermezza. L’essere genitori, infatti,  non è un ruolo scisso dalle persone che sino all’attimo prima della nascita del proprio figlio si era, con i propri limiti, difetti, pregi  e sentimenti. Ed è un ruolo che è spesso sentito come molto difficile:  a volte non ci si sente liberi di essere sé stessi, si avvertono delle responsabilità  eccessive, un fardello troppo grosso da sopportare e di conseguenza si genera la paura del fallimento e di non essere perfetti.

Al giorno d’oggi, frequentemente, i genitori vivono con ansia la relazione con il proprio bambino; spesso il paragone tra il figlio che hanno generato, che piange, che ha mal di pancia, che stenta a camminare e a parlare, che è “capriccioso” e il figlio immaginario, perfetto, genera tanta amarezza. L’incontro con il figlio reale, che si vive giorno dopo giorno, può generare un’irrimediabile crollo delle aspettative della madre e del padre; ciò non accade se si pensa alla nascita del proprio figlio come un cammino, impegnativo ma anche cosparso dal piacere di vederlo crescere.
Se i genitori, però, hanno in mente quello che vorrebbero che accadesse piuttosto che quello che realmente sta accadendo, inevitabilmente la loro angoscia si fa acuta nei momenti critici del processo di crescita del loro figlio. E il bambino desiderato, programmato, atteso arriva a essere un investimento affettivo su cui riversare aspettative e grandi progetti. Quello che, però, i genitori si sono prefigurati non avviene mai nella realtà e ciò provoca frustrazione, delusione, senso di incapacità. Ricorrono, pertanto, spesso a degli specialisti, ascoltano dibattiti televisivi, scrutano i comportamenti degli altri genitori per capire come si possa fare il “giusto” e poi copiarlo, incamminandosi alla ricerca della “ricetta”, perché convinti che una volta trovate le “istruzioni per l’uso” potranno crescere il figlio che si erano prefigurati.

Quando, però, i genitori si aspettano troppo da se stessi, incorrono nella possibilità di non riuscire a godere del rapporto col proprio figlio. e’ quindi importante che una madre e un padre sappiano accettare di essere solo sufficientemente capaci per non spaventarsi di fronte ai momenti difficili e per poter godere pienamente dei progressi del figlio. Perché educare è un’impresa complessa, dove non esistono modelli che garantiscano a priori l’esito delle proprie azioni.

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Da pedagogista che si occupa da anni di famiglie, oltreché da madre decisamente imperfetta, dico sempre alle madri e ai padri che mi chiedono una consulenza che essere genitori non significa essere sempre all’altezza delle situazioni, essere sempre tolleranti senza condizioni, mettere sempre da parte i propri bisogni e sacrificarsi per i propri figli.
Non si deve fare l’errore di dimenticare la propria umanità. Un genitore nella sua perfetta imperfezione è colui che si concede di essere una persona autentica. E proprio perché il genitore continua ad essere una persona, deve essere in grado di trasmettere al figlio i valori e l’educazione, perché egli diventi un adulto responsabile e ben integrato nella società.

Il genitore deve avere ben chiara una cosa. egli ha una grande responsabilità nei confronti dei propri figli,  in quanto deve renderli autonomi e aiutarli nel faticoso percorso di crescita, insegnando loro a gestire le emozioni, a tollerare le frustrazioni e a sopportare il dolore.  E deve avere ben chiaro che deve fare tutto ciò ponendosi  in una posizione gerarchicamente superiore a quella del figlio: il suo, infatti, non è un ruolo amicale. Il genitore-amico, il cui obiettivo principale è quello di farsi amare dai propri figli , non può, infatti, aiutare i figli nel percorso di crescita. Per questo motivo è importante che il genitore nella sua posizione sappia porre delle regole, che hanno una grande funzione educativa, in quanto gli permettono di capire cosa è lecito, cosa non lo è e soprattutto insegnano a gestirsi all’interno dei limiti. I bambini  hanno bisogno di capire cosa è giusto e cosa invece è sbagliato.  Senza punti di riferimento, del resto, è ancora più difficile la transizione dalla fanciullezza all’adolescenza e dall’adolescenza  all’età adulta.

E’ molto importante che i genitori non facciano proprio l’assunto “dicci cosa ti manca e te lo procureremo noi”. Se, infatti, i genitori si sostituiscono continuamente ai figli, rendendo loro la vita più facile, cercando di eliminare tutte le difficoltà, se sono incapaci di mettere dei limiti, cambiando le regole in precedenza stabilite se queste risultano eccessivamente frustranti per il figlio veicolano al figlio un duplice messaggio. Il primo, il più evidente, è “faccio tutto per te perché ti amo”. Il secondo, più sottile e squalificante, è “io faccio tutto per te perché forse da solo non ce la faresti”. Innescano in questo modo, la sensazione o il sospetto nel figlio di essere un incapace; dubbio che può divenire realtà, poiché nella stragrande maggioranza dei casi i figli educati secondo principi simili finiscono per arrendersi senza combattere, affidando il controllo della loro vita ai genitori. E crescono pensando che impegnarsi nella vita è inutile, diventando incapaci di assumersi responsabilità.

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E’ a questo proposito interessante quanto scrive Daniele Novara nel libro “Dalla parte dei genitori” in cui sostiene che i genitori devono essere messi al centro dell’attenzione, perché i tanti punti dolenti nella crescita dei figli ci indicano una grande fragilità di padri e madri. Mettere al centro i figli, infatti, è il modo migliore per non renderli davvero protagonisti. Soprattutto se li si mette al centro non in quanto persone, ma come oggetti di un desiderio realizzato.

Scrive Novara: i genitori non educano ma accudiscono, sostituendosi ai figli, fanno le cose al posto loro pur di prevenire frustrazioni e difficoltà. Non a caso oggi sono sempre più diffuse tra i bambini difficoltà sistematiche nelle autonomie di base come vestirsi da soli, preparare la cartella, andare a letto, quindi addormentarsi da soli nella propria stanza, senza passare dal lettone.

Accudire è meraviglioso se calato nel giusto contesto. Educare è, però, altra cosa, di cui’accudimento è solo una parte. Le nuove generazioni di genitori, pertanto, non devono essere colpevolizzate, ma aiutate a rimettere a fuoco il valore del loro impegno coi figli. Ecco perché oggi è di fondamentale necessità aiutare i genitori ad apprendere la genitorialità, proprio a fronte di tante notizie e appelli che denunciano gravi problemi nei bambini: le difficoltà nell’apprendimento e nella costruzione dei rapporti interpersonali suggeriscono una grande mancanza a monte, una mancata educazione all’autonomia e responsabilità.

Educare è fatica. Educare i propri figli lo è molto di più.

Riflessioni sull'”ambientamento in tre giorni” al nido

Fino a un anno e mezzo fa per me non ci poteva essere altra metodologia che quella dell’ambientamento graduale dei bambini al nido. Del resto è la metodologia con cui ho lavorato fin dall’inizio della mia carriera di educatrice e la metodologia su cui ho fatto molte riflessioni da pedagogista, osservando i bambini, il personale educativo ed i genitori.

 

Qualche anno fa ho scritto un articolo per i genitori dei bambini che avrebbero iniziato a frequentare il nido in cui lavoravo…Dicevo: il nostro collettivo spesso affronta l’argomento delle modalità di inserimento, ma, fatta eccezione per casi particolari, siamo tutte d’accordo  sui due criteri fondamentali su cui deve basarsi un inserimento: la gradualità rispetto ai tempi di ambientamento del bambino e la continuità tra le risposte della famiglia e quelle del nido nei confronti delle esigenze di ogni singolo bambino.

Credevo fortemente nella validità dell’ambientamento “graduale”. Una metodologia che prevede che, in genere, entro al massimo tre settimane il bambino si abitui al nuovo ambiente e alle nuove persone che lo circondano. Tre settimane in cui passa, però, al nido poco tempo e in cui la presenza del genitore è prevista per cinque o sei giorni e, in totale, per pochissime ore.

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Non pensavo possibile nessun’atra metodologia di ambientamento. Finchè non ho sentito parlare dell’inserimento “svedese” o “inserimento in tre giorni”. Inizialmente ero molto scettica perché tre giorni mi sembravano veramente troppo pochi e troppo poco rispettosi dei bisogni dei bambini che hanno necessità di tempo per adattarsi ed accettare con piacere le novità. D’altra part, il metodo classico di ambientamento è consolidato nelle pratiche educative del nostro paese…perché metterlo in discussione?

Beh…intanto credo che dirsi “abbiamo sempre fatto così, ha sempre funzionato, quindi cambiare non ha senso…” sia sintomo della non-volontà di mettersi in gioco e di forte chiusura e un po’ di grettezza. Il cambiamento e la novità, senza dubbio, spaventano, ma affrontarli è tipico di chi desidera crescere, professionalmente e non solo.

Ho pertanto, iniziato a credere che il cosiddetto “inserimento in tre giorni” dovesse essere una metodologia da considerare e da approfondire.

E ho iniziato a riflettere sulla validità dell’ambientamento graduale. Mi sono chiesta se la gradualità davvero tenesse conto dei bisogni dei bambini e dei loro tempi. Nel corso della prima settimana e di parte della seconda, se si applica questa metodologia, i bambini trascorrono al nido un’ora o poco più al giorno…è sufficiente per esplorare il nuovo ambiente? Per conoscere i nuovi compagni e le educatrici? E per i genitori è sufficiente un’ora al giorno di permanenza al nido per potervi lasciare  il bambino con serenità?

Queste domande mi sono balenate in testa ad ogni ambientamento da almeno due anni a questa parte.

L’équipe con cui ho lavorato fino alla fine di luglio 2019, però, non si è mostrata aperta a questo cambiamento. Con mio grande rammarico, a dire il vero. Un servizio educativo, però, è fatto dal coordinatore e dal gruppo degli educatori, pertanto non mi sono sentita di imporre una metodologia in cui il gruppo, benché non formato, non credeva.

Ci ho però creduto tanto io. Così, dopo che ho cambiato servizio ed équipe di lavoro, ho deciso che era giunto il momento, per lo meno, di formarmi e di iniziare ad approcciarmi con serietà a questa metodologia di lavoro. Ed ho preso parte ad uno dei corsi tenuti da Fabiola Tinessa e Valeria Zoffoli, collaboratici di Silvia Iaccarino e rispettivamente coordinatrice pedagogica e responsabile del nido “L’isola di Peter Pan” di Cesena, il primo nido in Italia in cui si è praticato l’ambientamento in tre giorni.

Il corso di formazione è stato decisamente interessante. Sono, però, tornata a casa con tanto bisogno di riflettere e di ripensare ai contenuti che sono stati trasmessi e alle discussioni che sono venute fuori.

Nei servizi in cui si pratica questa metodologia di ambientamento, dal momento in cui fanno il primo ingresso al nido e per i tre giorni successivi,  il genitore e il bambino stanno sempre insieme. Durante il cambio del pannolino, mentre si gioca, mentre si legge o si mangia. L’educatore intanto osserva la diade, entra in contatto con loro. Il quarto giorno il bimbo rimane al nido, mentre il genitore se ne torna alle sue solite attività. Secondo chi usa questo metodo, i bambini acquisiscono conoscenza con il nido e il personale in tempi rapidi. Chi l’ha sperimentato, sottolinea come i tempi dei bambini siano rispettati insieme ai tempi del lavoro della famiglia.

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Il primo giorno il genitore bada ai bisogni primari del proprio bambino e le educatrici osservano le modalità di relazione della diade, facendo così proprie le strategie del genitore e le abitudini del bambino. Il secondo giorno le educatrici affiancano la diade entrando in relazione sia col genitore sia col bambino e il genitore ed il bambino entrano in relazione con le educatrici e cominciano a padroneggiare gli spazi del nido e le scansioni temporali della giornata. Il terzo giorno il genitore è ancora presente ma lascia maggiore spazio alle educatrici. Il quarto giorno il genitore accompagna il bambino al nido e, dopo essersi preso il tempo di cui ha bisogno, se ne va.

Molti degli educatori che hanno sperimentato questa metodologia di ambientamento testimoniano che già dal quarto giorno i bambini sono in grado di riconoscere gli spazi e intuire i tempi. E che il rapporto che si instaura con i genitori è di fiducia assoluta mentre con l’altra metodologia di ambientamento tale fiducia si consolidava dopo mesi. Non sempre, ma spesso.

Per chi ha sempre adottato l’ambientamento graduale è, però, difficile capire come inserire i bambini in soli tre giorni. Ci si chiede, come è successo a me, se è possibile che ci sia un tempo stabilito a prescindere dal bambino. E si pensa che risolvere la questione dell’ambientamento in tre giorni sia molto comodo per i genitori ma non tenga conto dei reali bisogni dei bambini che hanno tempi differenti da quelli degli adulti.

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Un buon ambientamento è quello in cui il genitore riesce a staccarsi dal suo bambino con serenità; il genitore riesce a fidarsi delle educatrici quando conosce il contesto del nido e perché ciò avvenga ci vuole tempo…il tempo non è lo stesso per tutti, ma se si dà ai genitori la possibilità di vivere il nido sarà più facile per loro allontanare gli spettri che potrebbero far sì che l’ambientamento fallisca. E se il genitore vive il nido per alcuni giorni, le educatrici, che inizialmente sono delle perfette sconosciute, hanno la possibilità di toccare con mano le abitudini delle diadi bambino-genitore, di osservare le modalità con cui entrano in relazione, che cosa li rende sereni, che cosa li inquieta. Questo processo di conoscenza è molto più lento e difficoltoso quando la modalità di ambientamento è quella graduale. Perché le ore in cui è prevista la presenza della diade sono davvero poche (7/8 al massimo in due settimane contro le 18 previste dalla metodologia dell’ambientamento in tre giorni).

Non ci si deve, però, aspettare che dopo i tre giorni i bambini non piangano al distacco e che non sentano la fatica che comporta l’ingresso al nido. Il cambiamento esiste, così come la fatica di affrontarlo. Hanno paura del cambiamento nella quotidianità e, come tutti i bambini, la esprimono col pianto, il nervosismo, qualche piccolo disturbo nel sonno.

L’ambientamento in tre giorni, però, ha un valore aggiunto. Il genitore ed il bambino, lontano dalla loro normale quotidianità, hanno il tempo di dedicarsi attenzioni reciproche e concedersi tanto tempo per nutrire la loro relazione vivendo un’esperienza molto intensa e condivisa.

Per questo mi auguro che presto, nel servizio in cui sto lavorando, si inizi a riflettere su questa metodologia e si pensi ad adottarla.

Ci credo decisamente.

Il “sistema di riferimento” al nido

Quando ho iniziato ad operare come educatrice al nido, lavoravo basandomi sul modello della “figura di riferimento”. Perché le linee pedagogiche erano quelle. Perché Elinor Goldschmied e le sue idee facevano decisamente presa.
Lavoravamo facendo sì che ci fosse un’educatrice con cui il bambino (e la sua famiglia) potesse avere una relazione speciale e che costituisse un punto fermo all’interno del servizio per quella particolare famiglia.

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Le relazioni con i bambini passano, in primo luogo, attraverso il contatto corporeo, attraverso i gesti di cura delle routines, poi attraverso gli sguardi, che il bambino cerca per trovarvi attenzione e verificare se egli esiste nella mente di qualcuno. E proprio per questo, i bambini piccoli, quando iniziano l’ambientamento al nido, hanno bisogno di trovare qualcuno che sostenga le loro fatiche, che contenga i momenti di stanchezza e di frustrazione, qualcuno che percepiscano come autorizzato dalla madre a divenire un nuovo partner e di cui percepiscono che la madre si fida. Questa persona è la cosiddetta “educatrice di riferimento”, che, insieme al bambino, conosce i genitori, parla con loro, ne ascolta i racconti, le domande, i dubbi, li rassicura, presenta il servizio…E’ una figura che non è la madre, che ha nella mente anche altri bambini e altri genitori, che lavora in equipe con altre persone a cui, via via, presenta il piccolo e con cui nel tempo ne condivide la cura. E’ una persona che si preoccupa di stabilire un raccordo tra le modalità di accudimento familiari e quelle del nido.

L’affrontare l’ambientamento in modo individuale e attraverso la “figura di riferimento” implica, però, una semplificazione della ricchezza dell’occasione che attraverso la transizione nel nuovo ambiente del nido si offre al bambino; questo approccio, infatti, sottostima la potenzialità dei bambini di fronte all’esperienza del cambiamento e compie un sovradimensionamento delle figure adulte nel contesto di primo ambientamento dei bambini nel nido.Questa modello, però, può avere dagli inconvenienti. Si può arrivare a tendere a un rapporto esclusivo tra l’educatrice di riferimento, la madre e il bambino e a stabilire, in qualche caso un rapporto di dipendenza della madre e del bambino nei confronti dell’educatrice.

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Queste riflessioni portano a sostituire la figura di riferimento con il cosiddetto “sistema di riferimento”, costituito da due o più educatrici. Questo approccio presuppone un’idea di bambino collocato all’interno di una rete di relazioni plurime, competente, desideroso di stabilire nuovi contatti con adulti e bambini, di esplorare mondi e realtà. Si passa quindi dalla dimensione del contenere e mediare a quella del condividere tra bambini e adulti, tra equipe di educatori e genitori. Questa scelta deve essere accompagnata da un’attenzione grande ai tempi e agli interscambi tra adulti (educatori e genitori); e dalla convinzione che il bambino possegga le risorse necessarie per affrontare un’esperienza in cui non si relaziona con una figura sola che ne sostiene le fatiche, ma con più figure che sostengono lui e insieme altri bambini.

La figura di riferimento è la persona che accompagna in modo privilegiato il percorso al nido di ciascun bambino e della sua famiglia. Si occupa di tenere a mente le specificità del sistema familiare e di seguire i processi di crescita e le inevitabili crisi del bambino comprendendole nel loro significato evolutivo, potendo così concentrare le proprie energie su un numero ridotto di bambini e famiglie. Così facendo, può rispondere alle esigenze di stabilità e di sicurezza di bambini e genitori. Questa persona non potrà, però, essere sempre presente, per cui è indispensabile che il bambino e i genitori, col tempo, instaurino relazioni significative anche con le altre educatrici.
La figura di riferimento, in relazione ai bambini, effettua la prima accoglienza in occasione della fase iniziale dell’ambientamento e interagisce col bambino e col genitore come aiuto per il graduale distacco, in relazione al genitore, è costante supporto per il bambino nel momento della sua permanenza al nido ed è supporto per il genitore, soprattutto nelle prime fasi dell’ambientamento.
Se, invece, si lavora, utilizzando il sistema di riferimento si lascia la possibilità al bambino, per quanto piccolo sia, di scegliere, di volta in volta, a quale degli adulti presenti orientarsi. Con questo modello è il gruppo degli educatori che detiene la regia e la responsabilità della mediazione del nuovo contesto e del relativo ambientamento del bambino al nido. Inoltre viene riconosciuta al bambino l’effettiva potenzialità all’esperienza dell’espansione e del cambiamento del proprio consueto contesto di vita nonché la capacità di mediare rispetto al gruppo dei pari.
Il bambino, infatti, realizza il suo processo di crescita non solo soggettivamente ma anche intersoggettivamente, cioè in relazione agli altri e con gli altri, e sotto l’influenza di fattori sociali e culturali fra loro interagenti. E’ importante, quindi, che il nido riconosca alla famiglia il ruolo attivo di interlocutore e non solo di fruitore del servizio, valorizzando l’importanza del legame di attaccamento alle figure famigliari, legame che costituisce il “sistema motivazionale centrale nei primi anni di vita”. Inoltre, deve offrire al bambino la possibilità di mantenere un rapporto di vicinanza con le persone che gli assicurano protezione, permettendogli di sentirsi sicuro anche quando queste figure si allontanano nella certezza del ritorno. Questa consapevolezza ci consente di affrontare il passaggio ad una modalità di ambientamento che prevede un piccolo gruppo di educatrici con l’iniziale costante presenza dei genitori e che è maggiormente rispettosa delle capacità e competenze del bambino.
Lavorando col modello della figura di riferimento, si stabiliscono relazioni non con il sistema ma con le singole figure facenti parti del sistema; viceversa quando si lavora con il modello del sistema di riferimento le relazioni si stabiliscono con un gruppo e non con i singoli.

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Le riflessioni relative al lavoro seguendo il modello del sistema di riferimento nascono dal fatto che al nido non è quasi mai possibile che la stessa persona possa accogliere il bambino quando arriva la mattina e riconsegnarlo alle famiglie al momento delle dimissioni. Questo può generare ansia nei genitori che si aspettano di trovare sempre la stessa persona con cui relazionarsi e, in certi casi, fatica nel bambino che si sente rassicurato da una sola persona e conosce poco il resto del gruppo di lavoro, per lo meno all’inizio dell’ambientamento.
Allo stesso modo è possibile che l’educatrice di riferimento si debba assentare per un periodo breve o prolungato, causando ansie nel genitore che teme di perdere un punto fermo e insicurezza e fatica nel bambino che non è abituato (o lo è poco) a relazionarsi con altri adulti. Se, invece, si è abituati fin dal primo giorno a relazionarsi con un sistema di educatrici, l’assenza di una figura non potrà costituire un problema né per la famiglia né per il bambino, che avranno comunque un punto di riferimento all’interno del nido.

Queste riflessioni nascono in seguito alla mia personale esperienza di lavoro. Dopo anni trascorsi ad utilizzare il modello della “figura di riferimento”, che, ultimamente trovavo addirittura poco rispettoso del bambino, da quando lavoro secondo il modello del “sistema di riferimento” ho potuto constatare quanto siano più ricche le relazioni che il bambino che entra in un nido instaura con gli adulti presenti e ruotano intorno a lui e quanto minori siano le fatiche che si trova ad affrontare; questo modello permette davvero ai bambini di trovare più punti fermi e soprattutto di trovarli nel corso di tutta la giornata che trascorrono al nido.