Arriverà un momento per ogni cosa. “Spannolinamento” in quarantena?

Arriverà un momento per ogni cosa…fermiamoci ad attendere, è il momento di sostare, senza rincorrere conquiste che oggi ci metterebbero a dura prova e che, invece, domani potremmo raggiungere in un battito d’ali.

Tanti genitori, in questi giorni, però, stanno chiedendo ai noi che lavoriamo nei nidi suggerimenti per fare il passaggio dal pannolino al vasino. E’ arrivato il caldo e la bella stagione. Parrebbe proprio il momento.

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Credo che sia una richiesta legittima. Comprendo i genitori i cui figli fino a poco tempo fa frequentavano il nido e che a settembre andranno alla scuola dell’infanzia. Con alcuni di loro, probabilmente, le educatrici avevano iniziato a parlare di questo argomento e ci si aspettava di fare il passaggio in una prospettiva di alleanza e collaborazione. Adesso che, però, tutto è fermo, alcuni genitori sono un po’ in ansia e pensano che i bambini se la dovranno cavare facendo affidamento soltanto su mamma e papà.

La richiesta, però, mi ha spiazzata. Sono una persona molto fisica, ho bisogno di comunicare con gli abbracci, le mani sulle spalle, le carezze, i sorrisi, i respiri. E ora che tutto ciò è negato, fatico a mettermi in ascolto di una madre che sente il bisogno di togliere il pannolino al suo bambino. È più facile parlare di emozioni, di sentimenti…come stanno i bambini? Cosa dicono? Come vivono questo tempo? Non sono sicura che sia il momento degli “spannolinamenti”.
Anzi…credo proprio che la “quarantena” non sia una buona occasione per togliere il pannolino.
La buona occasione è quando è pronto il bambino, non quando siamo “comodi” noi adulti o quando siamo a casa (molto probabilmente impegnati nello smart working o con i figli più grandi alle prese con video lezioni e compiti).

E, a distanza, attraverso uno schermo se va bene, non mi sento di confrontarmi in merito a un passo tanto delicato. Il momento è particolare. Ai bambini stiamo già chiedendo di non vedere i nonni, gli amichetti, di non uscire fuori a giocare, di sopportare le nostre ansie e i nostri nervosismi. Dobbiamo chieder loro un ulteriore sforzo? Tanto più che adesso molti di loro hanno bisogno di fermarsi e consolidare le competenze che avevano acquisito nei mesi in cui hanno frequentato i nidi e, probabilmente, data la situazione ci sono state delle regressioni, piccole o grandi.

Proviamo a fare qualche riflessione. Può venirci in aiuto la lettura di un delicato albo illustrato che mi ha consigliato la dottoressa Jessica Omizzolo dei servizi educativi di Fano, mia preziosissima amica. Il fatto è di Gek Tessaro, che racconta con la più assoluta semplicità la complessissima mente dei bambini, che segue logiche estranee agli adulti.

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L’albo racconta di un paperotto e il fatto è che quando un paperotto non pensa sia il momento di fare il bagno non c’è anatra o catena animale o lupo che tenga: resta incollato al prato!!! Non lo smuove nulla, proprio com succede con i bambini.
La paura non ferma il papero; semplicemente non ha voglia di fare il bagno e ancor meno di essere spinto a farlo, anzi, più è spinto meno è collaborativo!
Non è difficile da capire ma pare che per i grandi sia pressoché impossibile: tutti pensano che il paperotto stia facendo i “capricci” o che abbia paura. Invece sta solo chiedendo di essere rispettato. Non è il momento. Non se la sente di fare il bagno. Ma lo farà! Sul finire della mattinata, quando il sole avrà scaldato l’acqua, senza nessuno intorno che spinga o controlli, il paperino, infatti, si tuffa perché ne ha voglia. Per il suo piacere. Perchè sente che quello è il momento.

Ogni bambino, proprio come i paperotti, ha il proprio tempo per fare conquiste. Non è bene mettere fretta. E’ frustrante.
Il tempo giusto per togliere il pannolino si capisce dopochè abbiamo osservato attentamente i nostri bambini. E’ vero! La primavera è generalmente la stagione in cui i bimbi dell’ultimo anno di nido, quelli delle sezioni “grandi” lo abbandonano…Io credo, però, che quest’anno si possa rimandare e che si debba tralasciare di fare paragoni o di ascoltare quello che suggeriscono gli altri.

Forzare i tempi è irrispettoso. Ce la faranno comunque. Ma quando sentiranno che è il momento. E vi stupiranno tanto saranno veloci e precisi.

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E quando il momento arriverà, i bambini lo faranno capire. Ricordate, però, che come il camminare, anche l’autonomia dal pannolino è un percorso fatto di incidenti. Che sono fisiologici e non devono buttarci a terra. Non è come accendere o spegnere un interruttore. Quindi…calma e tanto, tanto sangue freddo.

Cercate di sintonizzarvi con il vostro bambino. Concentratevi sulla relazione. Non fate paragoni con nessun altro e non guardate che succede intorno a voi. Guardate il vostro bambino. E vedrete che andrà bene. Andrà da se’.

La quarantena può essere un momento in cui beneficiare del tempo che normalmente non si ha a disposizione. Questo tempo va sfruttato in maniera creativa e generativa, facendo in modo che sia il tempo dell’ascolto. Il benessere di un bambino oggi, e in questo tempo più che mai, dipende dalle relazioni che i genitori instaurano dentro casa e con lui, pertanto è fondamentale rendere lo sfondo di queste giornate autenticamente educativo, oltreché amorevole. I bambini piccoli in questa fase hanno, infatti, ancor più bisogno di comprendere che i genitori sono una risorsa.

Siete ancora convinti di volere togliere il pannolino al vostro piccolo?

Pensateci con cura…e, quando sarà il momento, provate ad affrontare questo passo con un po’ di arguzia e ironia. Sarà di grande aiuto. Ridiamoci su. Delicatamente, ma ridiamoci su. Degli incidenti. Delle chiazze sul divano. Delle pozze sul pavimento. Viviamo, adesso ma anche dopo, la quotidianità con leggerezza…ridere aumenta la produzione di dopamina nel cervello, un neurotrasmettitore che attiva anche meccanismi naturali che agevolano l’apprendimento.

Vuoto di apprendimenti e di relazioni in questo “tempo sospeso”

In questi giorni mi domando senza sosta…quale sarà l’eredità che questo periodo di isolamento, di distanziamento sociale lascerà ai nostri bambini e ai nostri ragazzi? Come ne usciranno?

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La chiusura delle scuole è una procedura di sanità pubblica, serve a ridurre il rischio di contagio da coronavirus, ma ha degli effetti psicologici sui nostri bambini, diversi a seconda della loro età. I bambini sono  più fragili e indifesi degli adulti e possono soffrire un’angoscia penetrante perché sono più permeabili dell’adulto alle paure. Anche le emozioni “si contagiano”.

I bambini della Lombardia sono a casa dal 24 febbraio, un mese e mezzo. La distanza dai compagni e dagli insegnanti comincia a pesare. Tutti, ormai, hanno spiegato ai figli, soprattutto a quelli più piccoli, le vere ragioni della chiusura delle scuole. D’altra parte, se non lo avessimo fatto, i bambini avrebbero corso il rischio di sostituire le motivazioni reali con fantasie e paure eccessive.

E’ poi partita un po’ dappertutto la didattica a distanza. L’emergenza ha reso inevitabile una sorta di sperimentazione di massa della “scuola a distanza” attraverso l’uso di soluzioni digitali, con risultati più o meno soddisfacenti. Ma questa non è la sede per dare giudizi in merito.

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E, contemporaneamente, le chat di classe si sono riattivate.

Nei primi giorni di chiusura, quando si iniziava a comprendere che le scuole non avrebbero riaperto tanto presto, alcuni genitori chiedevano di dare compiti e lezioni ai bambini, altri si lamentavano di non riuscire a seguire, lavorando, i figli nei compiti, altri ancora si barcamenavano come era loro possibile. Pochi, pochissimi, riflettevano su quanto potesse essere complesso per gli istituti e le insegnanti (soprattutto quelle più anziane) mettere in pista dei validi impianti di didattica a distanza, tanto più che, al momento dello scoppio dell’emergenza, la scuola non era attrezzata per farvi fronte.
Non si trattava semplicemente di sostituire le lezioni in presenza in lezioni mediate da un’interfaccia.

Noi, a casa, vediamo soltanto video-lezioni erogate. Ma c’è un grande lavoro dietro, di gruppo e del singolo. Oltre alla lezione, si deve pensare ad attivare esercitazioni che gli alunni possano efficacemente seguire e svolgere, si deve pensare ad un sistema di valutazione che non può essere lo stesso che in presenza. Si deve pensare a come può avvenire, durante le classi digitali, il confronto tra insegnanti e studenti e come questo possa essere efficace. E poi c’è da pensare, e per di più in un tempo non ordinario, a come gli allievi possano lavorare a casa, come si possano organizzare gli approfondimenti. E anche a come orientare o ri-orientare gli allievi che sono in difficoltà, sia a seguire il modello di apprendimento proposto sia nella comprensione dei contenuti.

La didattica a distanza richiede una progettazione accurata e attenta; e per questo sono necessarie solide, solidissime competenze. La circolare ministeriale del 17 marzo 2020 dice: “affinché le attività finora svolte non diventino – nella diversità che caratterizza l’autonomia scolastica e la libertà di insegnamento – esperienze scollegate le une dalle altre, appare opportuno suggerire di riesaminare le progettazioni definite nel corso delle sedute dei consigli di classe e dei dipartimenti di inizio d’anno, al fine di rimodulare gli obiettivi formativi sulla base delle nuove attuali esigenze”. Il rischio grosso è proprio quello di proporre agli allievi esperienze prive di senso e di significato.

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Per quanto posso dire da pedagogista, gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado stanno facendo un ottimo lavoro. Gli istituti si sono organizzati, non tutti con le stesse tempistiche e non tutti con gli stessi strumenti a disposizione. Ma si sono organizzati. E, a poco più di un mese dall’inizio dell’emergenza, bambini e ragazzi stanno imparando a seguire in modo scrupoloso le attività a distanza proposte dai docenti nelle varie modalità (piattaforme, registro elettronico,…); stanno procedendo, per quanto è possibile, autonomamente nello studio e nell’approfondimento, leggendo libri, consultando i manuali, sia per ripassare argomenti già svolti sui quali non ci si sente sicuri, sia per approfondire nuove tematiche; stanno imparando a comprendere che ogni studente è protagonista del proprio apprendimento ed è chiamato a viverlo in modo responsabile, curioso, libero. Ora più che mai.

Nonostante tutto, però, c’è chi non è soddisfatto. Genitori che chiedono di aumentare le ore di lezioni. Di dare più compiti. Perchè, in questo modo, i bambini e i ragazzi, almeno sono impegnati.

Oltrechè pedagogista, sono madre di tre ragazzini. Sono preoccupata tanto anche io. In realtà non del fatto che resteranno indietro con l’apprendimento delle discipline. Quello l’ho messo in conto. Non penso che, per quanto ci si impegni su tutti i fronti, sul piano degli apprendimenti si arriverà agli obiettivi che ci si era prefissati a inizio anno.
Ma ho fiducia nei ragazzi…recupereranno alla velocità della luce.
Sono preoccupata perchè sento che stanno facendo moltissima fatica ad abituarsi all’assenza di relazione tra coetanei. A loro mancano la scuola, le maestre e i professori, i giochi spensierati all’aria aperta o nei corridoi. E non recuperando questo tempo che hanno vissuto come sospesi.

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Comprendo che padri e madri possano essere preoccupati del “vuoto” di apprendimenti che potrà generare l’emergenza legata al diffondersi del Coronavirus…Sempre ho sentito genitori chiedere alle insegnanti: “Allora…come siamo messi col programma?”, come se l’apprendimento si misurasse a quantità e non a qualità. E adesso, oltre a questo, tanta ansia è creata dal fatto che le famiglie non sono abituate a convivere per giorni e notti, senza sosta, se non nei momenti di vacanza; non è facile gestire i figli senza aiuti, senza “valvole di sfogo”, senza poter condividere le fatiche del crescerli con altri membri della famiglia…Tutti conoscono il proverbio africano che recita: “per crescere un bambino ci vuole un villaggio”. E nei villaggi si respira senso di vicinanza e di comunità. Oggi tutto questo è venuto a mancare. Mancano affetti, mancano spazi aperti, mancano innumerevoli stimoli. Per tutti. E nessuno ancora è pronto per affrontare la quarantena ben attrezzato. La si affronta perchè non ci sono alternative.

Io credo che la scuola sia fondamentale per le relazioni, per le possibilità che può offrire, per le aperture. Non per i programmi che si stabilisce a tavolino di svolgere. Molte famiglie ora si trovano ad affrontare figli che non conoscono a fondo e vorrebbero scaricarne il peso, per tante ore al giorno, alla scuola, come spesso accade, dimenticando che questi stessi figli si educano in rete, stringendo solide alleanze. E’ spiazzante tutto ciò. Lo capisco. La scuola, però, non può essere pensata come un rifugium peccatorum, come un luogo di intrattenimento. Ognuno deve fare la sua parte, per quanto sia faticoso e per quanto gli strumenti siano poco adeguati. Ci si deve attrezzare, senza più indugi. E’ dovere morale verso i figli che si sono fatti nascere, io credo.

Verrà il tempo in cui ci riprenderemo quello che avevamo prima. Questo, però, può essere un tempo per la riflessione.

Genitori in “quarantena”…come sopravvivere?

Tanti sono i genitori che conosco e che stanno faticosamente “annaspando” in questa lunga…lunghissima quarantena. E tanti di loro chiedono come superare senza soccombere questo periodo di emergenza.

Molti di coloro che hanno figli in età da nido o da scuola dell’infanzia, in questi giorni stanno lavorando in modalità smartworking. Alcuni lo hanno già fatto in precedenza e, pertanto hanno idea di come gestire il lavoro da casa con dei bambini piccoli di cui, in un modo o nell’altro, ci si deve prendere cura. Per altri, invece, è cosa nuova. E, per questo, forse spiazzante. Ma si può fare. Anzi si deve, visto che, in questi giorni di emergenza, tante alternative non ci sono.

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Come gestire allora il lavoro da casa senza poter uscire ed avere contatti con altre persone? E come far sì che questa situazione sia vissuta in maniera serena dai bambini?

Innanzi tutto è importantissimo separare il tempo che si dedica alla famiglia da quello che si dedica al lavoro, un po’ come se si andasse in ufficio; è frustrante fare le due cose insieme e non si riesce a farne bene nessuna

Se possibile, poi, bisogna separare i luoghi; se si ha una casa grande, è bene individuare una stanza dentro cui si lavora e basta; se questo non è è possibile, allora di deve trovare una postazione su cui mettere il computer, un block notes, dei post-it (un tavolo, un banchetto, una scrivania…) e dichiarare che quello è il posto in cui voi lavorate ed è bene che nessuno tocchi.

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Se entrambi i genitori sono a casa in modalità smartworking,si dovrebbe pensare a fare dei  turni (almeno di 2 ore, 4 meglio); un genitore lavora mentre l’altro si occupa dei figli, e a fine turno si cambia. Entrambi i genitori hanno gli stessi diritti e la qualità del lavoro deve essere quella di sempre.

E’ fondamentale non aspettarsi che i colleghi siano comprensivi mentre si gestiscono i figli. Pertanto, se si deve staccare a causa dei bambini, è bene dirlo chiaramente fin dall’inizio, perché così nessuno fraintenderà eventuali momenti di assenza.

Se si vuole lavorare, bastano poche ore, purchè siano di qualità, e, soprattutto, completamente a nostra disposizione. Pertanto è fondamentale stabilire che cosa fare, prendere coscienza del tempo a disposizione e usarlo bene.

E’ molto importante che la giornata abbia un’organizzazione ben precisa. Non siamo in vacanza, quando i tempi sono dilatati ed è possibile e direi anche terapeutico non guardare mai l’orologio. Ci si deve, quindi, svegliare come se si dovesse andare in ufficio, con la sveglia, puntata alla solita ora o un po’ dopo. Ma non a mezzogiorno.
La cosa migliore sarebbe quella di tenere gli orari di lavoro che si hanno normalmente, pur concedendosi  di essere meno “fiscali” sul tempo in modalità smartworking. Non si deve dimenticare che la quantità di lavoro è sempre la stessa. E bisogna essere puntuali se ci sono appuntamenti telefonici o video-chiamate.

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Se si deve dividere il tempo da dedicare al lavoro con il vostro compagno o la vostra compagna, i turni di cui parlavo prima, si possono ottimizzare i tempi. Uno dei due può iniziare la mattina presto e l’altro finire la sera poco prima di cena, per esempio. Si può diminuite il tempo dedicato alla pausa pranzo: trenta minuti possono essere sufficienti. Se arriva tanta posta, si possono leggere i messaggi più brevi la mattina appena svegli, dal cellulare; per quelli più lunghi si possono usare i ritagli di tempo (ahimè, è il momento mettere da parte YouTube, Netflix, Sky e tutto resto in questo periodo) e per i messaggi importanti si può usare il tempo immediatamente dopo la pausa pranzo.
Non c’è un tempo infinito a disposizione, quindi il “lo faccio dopo, quando ho un po’ di tempo” non deve diventare una regola. Se serve, si può usare qualche mezz’ora dopo aver messo a letto i figli, ma è bene ricordare che c’è bisogno di un po’ di decompressione. Soprattutto in questo periodo.

Ricordate, però, che non siete soltanto dei lavoratori, ma anche una coppia, oltrechè dei genitori.

In questo momento in cui tutti, o quasi, siamo a casa, è difficile condividere spazi, tempi e gestione delle faccende di casa. Non siamo abituati a una situazione come questa, pertanto dobbiamo attrezzarci e adottare modalità nuove di gestione della nostra giornata.

E’ molto faticoso, se siamo abituati a passare buona parte del giorno fuori di casa, a incontrare sempre molte persone, ad avere tante ed appaganti relazioni sociali, essere costretti a vivere in una manciata di metri quadrati. Può aiutarci il pensiero che lo stiamo facendo per un bene comune. Siamo in casa, senza poter uscire, senza poter avere spazi e tempi tutti per noi, perché non vogliamo rischiare di contagiare qualcuno qualora avessimo contratto questo virus. E non vogliamo essere contagiati noi.

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E’ vero che sapere di poter contare, ogni giorno, di uno spazio esclusivo, in cui non facciamo entrare nessuno, è confortante. Il non poterlo più avere, all’improvviso, ci può causare un po’ di ansia e depressione. Proviamo, allora, a condividere con il nostro compagno o con la nostra compagna questo nostro stato d’animo. E’ importante, ora, esplicitare i nostri bisogni e, soprattutto, le nostre emozioni. E’ vero che, generalmente, nelle famiglie la comunicazione è legata all’operatività: butta la spazzatura! Compra questo o quello! Porta i . bambini in piscina o a pallavolo! Adesso, invece, proviamo a comunicare stati d’animo…Chissà che non continuiamo anche a fine emergenza…Attiviamo, all’interno della coppia, uno spazio di ascolto in cui ci si confida reciprocamente ansie e paure, senza vergognarsi di essere fragili.

E’ importante organizzare la giornata anche se si sta lavorando, se non si hanno incombenze o appuntamenti quotidiani che la scandiscono: se non mettiamo a punto un’organizzazione, anche minima, rischiamo di perdere l’orientamento.
Cerchiamo, pertanto, di mantenere il consueto ritmo sonno-veglia: andiamo a dormire all’ora abituale e svegliamoci all’ora a cui siamo abituati a farlo.

Ricordiamoci che i giorni non sono tutti uguali; è fondamentale ricordarci che oggi è martedì piuttosto che domenica: quando le routine sono spezzate è facile avvertire un senso di smarrimento perché non si è più motivati all’azione, pertanto è fondamentale riprogettare la quotidianità per favorire la ristrutturazione di un senso psicologico e cronologico.

Curiamoci costantemente della nostra persona, come se dovessimo uscire e incontrare altre persone. In questo modo non perdiamo il contatto con la parte sana di noi stessi e non torniamo continuamente alla situazione di emergenza rendendola ancora più vivida.

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Manteniamo i contatti sociali; la tecnologia ci può aiutare a farlo. Possiamo usare le videochiamate al posto delle chiamate tradizionali: ci danno un maggiore senso di vicinanza e lo danno ancor di più alle persone anziane o ai bambini. Organizziamo un caffè con le amiche via Skype!

Facciamo attività fisica. E’ vero che non possiamo andare in palestra o uscire per fare una corsa, ma ci sono migliaia di applicazioni che propongono allenamenti on line e corsi di fitness che si possono fare in casa; e se il fitness non ci piace, possiamo accendere la radio e metterci a ballare, fare le scale del condominio, fare stretching.

E poi facciamo qualche progetto per il futuro. Sono tanti i sogni nel cassetto che non abbiamo mai provato a realizzare per il tempo tiranno. Questo è il tempo pe leggere un libro comprato tanto tempo fa e lasciato nella libreria, per fare un corso di pittura tra i tanti che si trovano on line, per fare una visita virtuale ad un museo.

E in questo modo possiamo far sì che vada tutto bene.

Giochi da maschi e giochi da femmine. Esiste una differenza tra essi?

Esistono i giochi da femmine? E i giochi da maschi?

Ho chiesto a mia figlia Margherita, 9 anni, se secondo lei esiste una differenza tra i giochi e se le femmine ne possono fare solo alcuni e i maschi altri; lei, con un po’ di titubanza, mi ha risposto “forse no!” perché ama giocare a calcio nel giardino della scuola e non le importa se è l’unica femmina tra tanti maschi. Ha anche aggiunto che agli scacchi ci giocano i maschi e le femmine, così come a Cluedo o a Trivial. Ho fatto la stessa domanda a mio figlio Francesco, 11 anni, e lui ha dato la medesima risposta della sorella: non esistono giochi solo per i maschi o giochi solo per le femmine…sullo Skate ci vanno i maschi e pure le femmine…alla Play ci giocano tutti, maschi e femmine. Ma ci ha pensato un po’ prima di rispondere.

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Abbiamo cercato di educare i nostri figli alla parità di genere e, insieme alle mie colleghe, cerchiamo di educare ad essa i bambini (e i genitori) che frequentano il nostro nido, ma è innegabile che gli stereotipi legati a ciò che possono fare o non fare bambini e bambine sono radicati molto in profondità in tutta la società e forse anche in noi stesse. Basta sfogliare un catalogo di giocattoli per rendercene conto. E, del resto, siamo invasi da scaffali di giochi da femmine, rigorosamente rosa, che propongono bambole, cucine, braccialetti e ferri da stiro e scaffali separati di giochi da maschio con costruzioni, trattori e pistole finte.

Tempo fa sull’argomento, è stato realizzato uno studio realizzato da Coface, network di associazioni europee che rappresenta gli interessi di tutte le famiglie in Europa (e presso il Parlamento Europeo), coordinato dalla ricercatrice italiana Paola Panzeri.
Gli studiosi hanno raccolto i cataloghi di giocattoli di 9 diversi paesi e li hanno analizzati lungo l’arco di un anno. Più di un terzo dei cataloghi era diviso in sezioni “per maschi” e “per femmine”. Alcuni non avevano questa divisione formale ma le sezioni e i giocattoli per maschio/femmina erano facilmente individuabili con il colore delle pagine (rosa e colori pastello per le bambine, colori più scuri e marcati per i bambini).
In questi cataloghi risulta particolarmente interessante la sezione dei costumi e maschere: la sezione per maschi presenta costumi per supereroi, personaggi di film e cartoni animati e professioni, come dottore, pompiere, poliziotto; la sezione per femmine, invece, presenta un numero ridotto di personaggi dei cartoni e professioni e un altissimo numero di principesse.

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Chi idea i cataloghi e chi decide la disposizione e i colori dei giochi sugli scaffali dei negozi sceglie per i bambini. Li influenza nelle scelte. Suggerisce loro di immaginarsi in un certo modo.

E’, però, molto importante che i bambini abbiano la possibilità di sperimentare, di calarsi in tanti ruoli diversi, di comprendere che non esistono, nel gioco come nella vita adulta, attività e compiti preclusi ai maschi piuttosto che alle femmine, né ruoli o attitudini spiccatamente femminili o maschili.
Il gioco, del resto, serve a cimentarsi precocemente con la vita, a immedesimarsi, a prepararsi in un certo senso per quello che sarà. Ed è sano che un bambino cresca con la consapevolezza che potrà, una volta cresciuto, esprimere se stesso, i propri talenti, le proprie abilità, nella maniera a lui (o lei) più congeniale. Senza pregiudizi, senza ruoli imposti o preconcetti.

Attraverso il gioco, inoltre, i bambini possono accedere a parti della propria sfera emotiva e psicologica che altrimenti non sarebbero adeguatamente stimolate, e forse neanche esplorate. Dare la possibilità ad un maschio di fare esperienza nell’accudimento di una bambola, o nella preparazione di piatti prelibati per la sua famiglia o i suoi amichetti, significa renderlo più consapevole delle proprie doti di empatia e tenerezza e legittimarle, aiutarlo a potenziarle e manifestarle. Esattamente come una bambina che abbia l’occasione di divertirsi con le ruspe giocattolo o i cavalieri scoprirà magari più facilmente le proprie attitudini e la propria capacità di leadership.

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Lasciare che un bambino possa esprimere le proprie emozioni attraverso il gioco di finzione che più preferisce è un importante investimento per la sua crescita emotiva. Quindi è importante assecondare le sue scelte senza alcun pregiudizio. Infatti, se si manifesta disapprovazione in merito a tali scelte, si potrebbe innescare in lui il senso di colpa nei confronti dei genitori o degli adulti che se ne prendono cura, per aver scelto quel dato gioco non approvato. Si rischierebbe, inoltre, così facendo, di imprigionare la sua indole nello stereotipo maschile, reprimendo il suo bisogno di esprimerla liberamente. Il fatto che alcuni maschietti non amino giocare con macchinine o costruzioni non determina quale sarà la loro vita affettiva e sessuale in età adulta. Nella formazione della propria identità di genere, che si completerà in età adolescenziale, influiscono vari fattori tra i quali le aspettative dei genitori, il modo in cui mamma e papà vivono la loro identità di genere, il condizionamento dell’ ambiente e della società in cui vive.

La scelta di un maschietto di giocare con le bambole piuttosto che con altri giochi può essere dettata da vari fattori quali la curiosità, la voglia di sperimentare cose nuove, una spiccata sensibilità e anche il bombardamento pubblicitario a cui è esposto. Giocando con una bambola, un maschietto avrà l’opportunità di rielaborare, a suo modo, le esperienze che caratterizzano la sua vita e il suo rapporto con gli altri. Questo aspetto potrebbe essere molto interessante anche per i genitori che osservandolo mentre gioca possono percepire il suo mondo interiore, inclusi gli aspetti che ancora non esprime in modo razionale.

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Non è raro, però, che un genitore che vede il proprio figlio maschio giocare con una bambola o in cucina si allarmi. Molti genitori, infatti, dichiarano di essere spaventati dalla possibilità di avere figli omosessuali. E per questo motivo cercano di indirizzare le passioni dei figli, maschi o femmine, verso giochi stereotipati, che sono più ‘rassicuranti’.
La scienza, però, ci dice che l’omosessualità è una condizione innata, come avere i capelli ricci o la pelle nera, e non viene creata a tavolino dai giocattoli con cui giochiamo da piccoli, né può essere scelta (o non scelta) volontariamente.

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Se amiamo davvero i nostri figli, non dobbiamo amarli solo finché corrispondono a ciò che noi avevamo in mente per loro ma anche se non saranno come noi ci aspettavamo. E dobbiamo amarli abbastanza da volerli felici e realizzati, senza pensare che debbano necessariamente corrispondere ai nostri ideali a scapito della loro realizzazione personale.

Non sono i giochi “da maschio” o “da femmina” a condizionare il modo di essere dei bambini, pertanto è importante lasciare che giochino come vogliono perché possano crescere in modo armonico.
In questo modo potranno comprendere fin da piccoli che la diversità biologica fra “maschi” e “femmine” non può e non deve voler dire diversità di ambizioni e possibilità, né che le bimbe debbano diventare un giorno “spose sottomesse” a uomini forti e senza paura.

I bambini, insomma, devono avere la possibilità di sentirsi liberi di esprimere in modo pieno la propria personalità, senza essere condizionati da pregiudizi e stereotipi. E per questo motivo è importante che siano circondati da adulti che non li indirizzino verso professioni e ruoli stereotipati, ma che li lascino liberi immaginare e impersonare chiunque vogliano essere. Da adulti che combattono ogni giorno la violenza contro le donne e il bullismo. Da adulti che accettino e rappresentino le famiglie nella loro diversità.

La fatica dell’educare…i propri figli

Educare un figlio, è un atto di amore profondo e richiede una gran dose di pazienza, controllo dell’ansia e della frustrazione.
E’ frequente sentir dire che per educare basta amare il proprio figlio, ma non è così. Per educare è necessario conoscere “che cosa succede mentre il proprio figlio apprende” e come favorire, governare e controllare tale processo. Per tale motivo è indispensabile possedere conoscenze ed abilità adeguate (intese anche come tecniche), per attivare occasioni d’apprendimento e controllare gli effetti dell’azione educativa sia sul piano cognitivo, sia su quello delle emozioni e dell’affettività.

Facile, facilissimo a dirsi…soprattutto per chi è “addetto ai lavori”. Ma nella realtà? Cosa significa educare il proprio figlio? Cosa avviene nel processo attraverso il quale egli diventa altro dai genitori?

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Gli studi più recenti evidenziano l’importanza del ruolo svolto da padre e madre nell’indirizzare e favorire lo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino. Le relazioni interpersonali genitore-figlio rappresentano la “matrice formativa” che determinerà la gran parte delle caratteristiche cognitive e personologiche più rilevanti per la vita dell’individuo.
Il difficile percorso, però, può essere costellato da una serie di “errori educativi” spesso commessi per “eccesso d’amore” nei confronti del proprio figlio. Gli effetti a breve termine di tali errori sono rappresentati dalla comparsa di comportamenti disadattivi e di contrapposizione nei confronti delle figure parentali (disobbedienza, prepotenza, angherie, ecc.) e ciò a sua volta genera contrapposizione, conflittualità. Se non viene posto rimedio, a lungo termine tutto ciò può essere causa anche di disturbi della personalità e d’adattamento sociale con il rischio di generare quadri sindromici molto gravi.

Del resto gli errori commessi dai genitori sono “errori invisibili” o che non si vedono se non a lungo termine e per questo nessuno pensa immediatamente a porvi rimedio. Non esistono, d’altra parte, né regole né metodi infallibili per evitarli, ma si può cercare sempre di seguire il principio aristotelico del “giusto mezzo”, perché solo evitando gli eccessi (iperprotezione e lassismo) si può favorire il naturale sviluppo del bambino. Durante la crescita, pertanto, sarà importante sostenere il proprio figlio, controllarlo, aiutarlo, ma agendo sempre nel rispetto della sua libertà, dandogli fiducia e lasciando che faccia le sue esperienze.

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E’, comunque, fuor d’ogni dubbio che educare un figlio è un processo molto delicato, non esente da errori, che richiede sensibilità e fermezza. L’essere genitori, infatti,  non è un ruolo scisso dalle persone che sino all’attimo prima della nascita del proprio figlio si era, con i propri limiti, difetti, pregi  e sentimenti. Ed è un ruolo che è spesso sentito come molto difficile:  a volte non ci si sente liberi di essere sé stessi, si avvertono delle responsabilità  eccessive, un fardello troppo grosso da sopportare e di conseguenza si genera la paura del fallimento e di non essere perfetti.

Al giorno d’oggi, frequentemente, i genitori vivono con ansia la relazione con il proprio bambino; spesso il paragone tra il figlio che hanno generato, che piange, che ha mal di pancia, che stenta a camminare e a parlare, che è “capriccioso” e il figlio immaginario, perfetto, genera tanta amarezza. L’incontro con il figlio reale, che si vive giorno dopo giorno, può generare un’irrimediabile crollo delle aspettative della madre e del padre; ciò non accade se si pensa alla nascita del proprio figlio come un cammino, impegnativo ma anche cosparso dal piacere di vederlo crescere.
Se i genitori, però, hanno in mente quello che vorrebbero che accadesse piuttosto che quello che realmente sta accadendo, inevitabilmente la loro angoscia si fa acuta nei momenti critici del processo di crescita del loro figlio. E il bambino desiderato, programmato, atteso arriva a essere un investimento affettivo su cui riversare aspettative e grandi progetti. Quello che, però, i genitori si sono prefigurati non avviene mai nella realtà e ciò provoca frustrazione, delusione, senso di incapacità. Ricorrono, pertanto, spesso a degli specialisti, ascoltano dibattiti televisivi, scrutano i comportamenti degli altri genitori per capire come si possa fare il “giusto” e poi copiarlo, incamminandosi alla ricerca della “ricetta”, perché convinti che una volta trovate le “istruzioni per l’uso” potranno crescere il figlio che si erano prefigurati.

Quando, però, i genitori si aspettano troppo da se stessi, incorrono nella possibilità di non riuscire a godere del rapporto col proprio figlio. e’ quindi importante che una madre e un padre sappiano accettare di essere solo sufficientemente capaci per non spaventarsi di fronte ai momenti difficili e per poter godere pienamente dei progressi del figlio. Perché educare è un’impresa complessa, dove non esistono modelli che garantiscano a priori l’esito delle proprie azioni.

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Da pedagogista che si occupa da anni di famiglie, oltreché da madre decisamente imperfetta, dico sempre alle madri e ai padri che mi chiedono una consulenza che essere genitori non significa essere sempre all’altezza delle situazioni, essere sempre tolleranti senza condizioni, mettere sempre da parte i propri bisogni e sacrificarsi per i propri figli.
Non si deve fare l’errore di dimenticare la propria umanità. Un genitore nella sua perfetta imperfezione è colui che si concede di essere una persona autentica. E proprio perché il genitore continua ad essere una persona, deve essere in grado di trasmettere al figlio i valori e l’educazione, perché egli diventi un adulto responsabile e ben integrato nella società.

Il genitore deve avere ben chiara una cosa. egli ha una grande responsabilità nei confronti dei propri figli,  in quanto deve renderli autonomi e aiutarli nel faticoso percorso di crescita, insegnando loro a gestire le emozioni, a tollerare le frustrazioni e a sopportare il dolore.  E deve avere ben chiaro che deve fare tutto ciò ponendosi  in una posizione gerarchicamente superiore a quella del figlio: il suo, infatti, non è un ruolo amicale. Il genitore-amico, il cui obiettivo principale è quello di farsi amare dai propri figli , non può, infatti, aiutare i figli nel percorso di crescita. Per questo motivo è importante che il genitore nella sua posizione sappia porre delle regole, che hanno una grande funzione educativa, in quanto gli permettono di capire cosa è lecito, cosa non lo è e soprattutto insegnano a gestirsi all’interno dei limiti. I bambini  hanno bisogno di capire cosa è giusto e cosa invece è sbagliato.  Senza punti di riferimento, del resto, è ancora più difficile la transizione dalla fanciullezza all’adolescenza e dall’adolescenza  all’età adulta.

E’ molto importante che i genitori non facciano proprio l’assunto “dicci cosa ti manca e te lo procureremo noi”. Se, infatti, i genitori si sostituiscono continuamente ai figli, rendendo loro la vita più facile, cercando di eliminare tutte le difficoltà, se sono incapaci di mettere dei limiti, cambiando le regole in precedenza stabilite se queste risultano eccessivamente frustranti per il figlio veicolano al figlio un duplice messaggio. Il primo, il più evidente, è “faccio tutto per te perché ti amo”. Il secondo, più sottile e squalificante, è “io faccio tutto per te perché forse da solo non ce la faresti”. Innescano in questo modo, la sensazione o il sospetto nel figlio di essere un incapace; dubbio che può divenire realtà, poiché nella stragrande maggioranza dei casi i figli educati secondo principi simili finiscono per arrendersi senza combattere, affidando il controllo della loro vita ai genitori. E crescono pensando che impegnarsi nella vita è inutile, diventando incapaci di assumersi responsabilità.

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E’ a questo proposito interessante quanto scrive Daniele Novara nel libro “Dalla parte dei genitori” in cui sostiene che i genitori devono essere messi al centro dell’attenzione, perché i tanti punti dolenti nella crescita dei figli ci indicano una grande fragilità di padri e madri. Mettere al centro i figli, infatti, è il modo migliore per non renderli davvero protagonisti. Soprattutto se li si mette al centro non in quanto persone, ma come oggetti di un desiderio realizzato.

Scrive Novara: i genitori non educano ma accudiscono, sostituendosi ai figli, fanno le cose al posto loro pur di prevenire frustrazioni e difficoltà. Non a caso oggi sono sempre più diffuse tra i bambini difficoltà sistematiche nelle autonomie di base come vestirsi da soli, preparare la cartella, andare a letto, quindi addormentarsi da soli nella propria stanza, senza passare dal lettone.

Accudire è meraviglioso se calato nel giusto contesto. Educare è, però, altra cosa, di cui’accudimento è solo una parte. Le nuove generazioni di genitori, pertanto, non devono essere colpevolizzate, ma aiutate a rimettere a fuoco il valore del loro impegno coi figli. Ecco perché oggi è di fondamentale necessità aiutare i genitori ad apprendere la genitorialità, proprio a fronte di tante notizie e appelli che denunciano gravi problemi nei bambini: le difficoltà nell’apprendimento e nella costruzione dei rapporti interpersonali suggeriscono una grande mancanza a monte, una mancata educazione all’autonomia e responsabilità.

Educare è fatica. Educare i propri figli lo è molto di più.